
- il fatto che la Corte di merito, nel valutare la contrarietà all'ordine pubblico, ha omesso di considerare il rapporto tra quest'ultimo e la coscienza sociale, nonché la specificità del diritto canonico;
- la Corte d'Appello ha erroneamente valutato le risultanze probatorie che emergevano dalle sentenze ecclesiastiche, in base alle quali sussistevano diversi riscontri, quali la brevità del fidanzamento, religiosità, che si assume non dimostrata, della moglie, il mancato trasferimento della residenza della moglie nella casa coniugale, del fatto che la moglie, rimasta contumace nel giudizio ecclesiastico d'appello, fosse stata negligente sulla conoscibilità della riserva mentale del marito, consistente nella volontà di un matrimonio di “prova”, perché egli era contrario ad instaurare un rapporto stabile e continuo.
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«deve ritenersi contrastante con l'ordine pubblico italiano la sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità del matrimonio concordatario per esclusione di uno dei bona matrimonii da parte di uno degli sposi, ove tale esclusione si sia risolta in un atteggiamento psichico non portato a conoscenza dell'altro coniuge - costituendo riserva mentale, in quanto priva del requisito della riconoscibilità - stante la fondamentale esigenza di tutelare i soggetti che sono entrati in rapporto con l'autore della riserva; al contrario, non sussiste violazione del su indicato principio di tutela e, quindi, non sono ravvisabili ostacoli di ordine pubblico, quando l'esclusione del bonum sia stata previamente manifestata all'altro coniuge - ovvero condivisa da entrambi - tanto se questi si sia limitato a prenderne atto quanto se abbia acconsentito a tale difformità tra volontà e dichiarazione».
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La Corte d'Appello ha ritenuto correttamente che nessuna negligenza potesse attribuirsi alla moglie per non essersi accorta della riserva mentale del marito, che, peraltro, neppure aveva dichiarato di averla condivisa con la donna, mentre quest'ultima aveva manifestato ripetutamente la propria credenza nei valori cristiani del matrimonio
Svolgimento del processo
1. D.C. adiva la Corte d’Appello di Ancona chiedendo dichiararsi efficace nella Repubblica Italiana la sentenza di nullità del matrimonio contratto con M.A.A., pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco in via definitiva in data 20.05.2020. Il Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco, con la citata sentenza, dichiarava la nullità del vincolo matrimoniale per esclusione, da parte del marito, della indissolubilità del vincolo matrimoniale, ritenendo accertata la riserva mentale dell'uomo all'atto della celebrazione del matrimonio.
2. Con sentenza n. 873/2021, depositata in data 23.07.2021, la Corte di Appello di Ancona rigettava la richiesta di declaratoria di efficacia nella Repubblica Italiana della sentenza di nullità del matrimonio concordatario celebrato tra D.C. e M.A.A., pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco in data 20 maggio 2020, dichiarata esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica con decreto in data 22 settembre 2020, e condannava il D.C. alla rifusione delle spese processuali. La Corte territoriale riteneva che la sentenza ecclesiastica fosse in contrasto con i principi dell’ordine pubblico italiano e negava la delibazione, rilevando che dagli atti del giudizio ecclesiastico non era emersa la prova che il difetto di consenso unilaterale – vale a dire la riserva mentale - del marito fosse stato manifestato alla moglie o fosse stato da lei effettivamente conosciuto o comunque che la donna l'avesse ignorato per propria negligenza.
3. Avverso questa sentenza D.C. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, resistito con controricorso da M.A.A..
4. Il ricorso è stato fissato per l'adunanza in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ.. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente denuncia: i) con il primo motivo la «Violazione e falsa applicazione ex art. 360, n. 3, c.p.c., dell’art. 8 co. 2 legge n.121/1985 e del punto 4 lettera b) del Protocollo addizionale, punto 4 lett.b) punto 3, in relazione all’art. 8, stessa legge, laddove ha negato la sussistenza dei requisiti per la delibazione della sentenza ecclesiastica, eccependone la contrarietà all’ordine pubblico»; deduce che la Corte di merito, nel valutare la contrarietà all’ordine pubblico, ha omesso di considerare il rapporto tra quest’ultimo e la coscienza sociale, nonché la specificità del diritto canonico, il che giustificherebbe un’interpretazione restrittiva della nozione di ordine pubblico, anche in base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia;
ii) con il secondo motivo, la «Violazione e falsa applicazione ex art. 360, n. 5, c.p.c., dell’art. 8 co. 2 legge n.121/1985 e del punto 4 lettera b) del Protocollo addizionale, punto 4 lett. b) punto 3, in relazione all’art. 8, anche con riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., - violazione del principio “Iudex iuxta alligata et probata iudicare debet”- omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»; a parere del ricorrente la Corte d’appello ha erroneamente valutato le risultanze probatorie che emergevano dalle sentenze ecclesiastiche, in base alle quali sussistevano molteplici riscontri (brevità del fidanzamento, religiosità, che si assume non dimostrata, della moglie- in ogni caso da interpretare in senso opposto a quanto ritenuto dalla Corte di merito-, mancato trasferimento della residenza della moglie nella casa coniugale) del fatto che la moglie, rimasta contumace nel giudizio ecclesiastico d’appello, fosse stata quanto meno negligente circa la conoscibilità della riserva mentale del marito, consistente nella volontà di un matrimonio di “prova”, perché egli era contrario ad instaurare un rapporto stabile e perpetuo; la Corte di merito era pertanto incorsa nella violazione degli artt.115 e 116 cod. proc. civ, per avere espresso un convincimento basato su opinioni personali e con motivazione priva di logicità, non fondata sulle prove; iii) con il terzo motivo la «Violazione o falsa applicazione di norme di diritto in particolare art. 91 c.p.c., in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 c.p.c.»; deduce il ricorrente che il giudizio non era da qualificarsi contenzioso, atteso che alla Corte di merito era solo demandato di accertare la sussistenza dei presupposti per la delibazione.
2. Il primo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. Premesso che, nella specie, non si pone questione di convivenza ultra-triennale perché la convivenza matrimoniale è durata solo 10 mesi, la Corte d’appello si è attenuta ai consolidati principi affermati da questa Corte, secondo cui deve ritenersi contrastante con l'ordine pubblico italiano la sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità del matrimonio concordatario per esclusione di uno dei bona matrimoni da parte di uno degli sposi, ove tale esclusione si sia risolta in un atteggiamento psichico non portato a conoscenza dell'altro coniuge - costituendo riserva mentale, in quanto priva del requisito della riconoscibilità - stante la fondamentale esigenza di tutelare i soggetti che sono entrati in rapporto con l'autore della riserva; al contrario, non sussiste violazione del su indicato principio di tutela e, quindi, non sono ravvisabili ostacoli di ordine pubblico, quando l'esclusione del bonum sia stata previamente manifestata all'altro coniuge - ovvero condivisa da entrambi - tanto se questi si sia limitato a prenderne atto quanto se abbia acconsentito a tale difformità tra volontà e dichiarazione (tra le tante da ultimo Cass. 4517/2019; Cass.18429/2022).
La censura è, pertanto, infondata, nella parte in cui la doglianza è riferita alla nozione è riferita all’ordine pubblico, ed è altresì inammissibile nella parte in cui neppure si confronta con la chiara affermazione della Corte d’appello secondo cui ricorreva, nella specie, l’esigenza di rispettare il principio di buona fede e affidamento. Il ricorrente genericamente richiama la specificità del diritto canonico e la necessità, a suo dire, di un’interpretazione restrittiva della nozione di ordine pubblico, senza compiutamente esplicitare la critica al ragionamento decisorio dei giudici di merito, conforme ai principi di diritto di cui si è detto. Va aggiunto che, come chiarito da pronunce recenti di questa Corte (Cass. 17910/2022; Cass.149/2023), occorre procedere a un raffronto con il vizio genetico del matrimonio-atto previsto dall'ordinamento italiano, nel senso solo le sentenze ecclesiastiche che si fondano su vizi del consenso con i caratteri oggettivi almeno analoghi a quelli previsti dal nostro ordinamento non determinano contrasto con l'ordine pubblico interno ostativo al loro riconoscimento, sicché è necessario operare, sotto tale profilo, una distinzione fondamentale sul tipo di vizio che inficia l’atto produttivo del vincolo. Nel caso che si sta scrutinando, il vizio genetico del consenso posto a base della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non ha affatto caratteri oggettivi analoghi a quelli previsti dal nostro ordinamento, perché difetta della condizione imprescindibile della sua conoscenza e conoscibilità da parte dell’altro coniuge.
3. Il secondo motivo è inammissibile.
In punto di accertamento dei fatti ex actis, vale a dire in base a quanto prodotto dalle parti, ovvero le sentenze ecclesiastiche, la censura in realtà impropriamente sollecita il riesame del materiale probatorio, proponendone una diversa valutazione, a fronte del puntuale scrutinio, da parte della Corte di merito, di tutti i fatti di rilevanza. La Corte d’appello ha, infatti, esaminato in dettaglio (pag. 8, 9 e 10 della sentenza impugnata) la sentenza del Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco, che riportava testualmente anche i passaggi delle testimonianze assunte in giudizio, ed ha escluso la sussistenza di «sufficienti riscontri che consentano di far reputare conosciuta o riconoscibile da parte della M.A.A. una tale riserva da parte del marito», nonché ha rilevato che «nessun elemento in tal senso è ricavabile da quanto affermato dai testi escussi in primo grado per cui appare del tutto carente la prova che questi, ammesso in ipotesi che ne fossero a conoscenza, avessero informato la M.A.A. della riserva da parte dell’uomo». In ordine alla riconoscibilità, secondo diligenza, della riserva mentale, la Corte territoriale ha affermato che non assumeva significativa valenza la breve durata del periodo prematrimoniale, di circa dieci mesi, e l’organizzazione della celebrazione, i cui preparativi sarebbero stati seguiti dalla M.A.A. in soli sei mesi, non essendo ciò manifestamente indicativo nell’uomo di una volontà comportante l’esclusione dell’indissolubilità del matrimonio, tanto più che la donna ricordava il periodo prematrimoniale come il periodo più bello, senza tensioni, litigi o allontanamenti tra i coniugi.
Parimenti irrilevante, con motivazione adeguata, è stata ritenuta dalla Corte territoriale la breve durata della convivenza successiva alla celebrazione del matrimonio, riconducibile, secondo quanto dichiarato dalla donna e riportato nella sentenza ecclesiastica di nullità, ad un atteggiamento denigratorio del marito assunto in epoca successiva alla celebrazione del matrimonio ed alla decisione da parte di questi di non coinvolgerla più nella propria attività lavorativa. La Corte d’appello ha ritenuto che nessuna negligenza potesse attribuirsi alla moglie per non essersi avveduta della riserva mentale del marito, che, peraltro, neppure aveva dichiarato di averla condivisa con la M.A.A., mentre quest’ultima aveva manifestato ripetutamente la propria credenza nei valori cristiani del matrimonio (cfr. pag. 20 della sentenza ecclesiastica di secondo grado richiamata nella sentenza impugnata). Da ciò la Corte di merito ha desunto che, ove l’odierna controricorrente avesse constatato che il compagno nutrindiciiva dubbi sulla indissolubilità dell’unione, verosimilmente non si sarebbe neppure determinata a sposarlo. Inoltre la Corte di merito ha rimarcato un elemento di indubbia e decisiva rilevanza, non specificamente e compiutamente confutato in ricorso, ossia, la decisione, presa, a quanto constava, consapevolmente da entrambi i coniugi non appena sposati, di avere un figlio, e detta decisione si ravvisava inconciliabile, almeno all’apparenza, con il fatto di ritenere una mera “prova” l’esperienza matrimoniale, come invece sosteneva l’odierno ricorrente.
Va altresì ribadito che, secondo l’orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione. Inoltre la violazione dell'art. 116 cod. proc. civ. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) ricorre solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all'opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (tra le tante Cass.18092/2020; Cass. 1229/2019).
Le censure concernenti la violazione dei citati articoli non sono state svolte in ricorso esprimendo le doglianze di cui sopra, e peraltro non si confrontano con il percorso argomentativo della sentenza impugnata, che ha posto a fondamento della decisione i fatti risultanti dalla sentenza ecclesiastica.
4. Il terzo motivo è infondato.
La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio di soccombenza e, contrariamente a quanto dedotto in ricorso, il giudizio di merito, svoltosi con il rito ordinario a seguito dell’opposizione alla delibazione dell’odierna controricorrente, non si caratterizza affatto come un procedimento non contenzioso. Infatti, “il procedimento per l'esecutività della sentenza del Tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio, dopo l'entrata in vigore delle modifiche al concordato con la Santa Sede di cui all'accordo di Roma del 18 febbraio 1984, ratificato, unitamente al protocollo addizionale, dalla legge 25 marzo 1985 n. 121, non è instaurabile d'ufficio, ma postula indefettibilmente l'iniziativa di entrambi i coniugi congiuntamente, ovvero di uno di essi, tenendo presente che, nel primo caso, l'iniziativa stessa deve assumere la forma del ricorso, con il conseguente rito camerale della relativa procedura, mentre, nel secondo caso, si rendono necessari l'atto di citazione ed il rito ordinario” (Cass. 1212/1988; Cass. 1018/1990). Pertanto, in ipotesi di conflitto tra i coniugi, si attiva il rito contenzioso, come è per l’appunto avvenuto nella specie (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
5. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art.13, comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, ove dovuto (Cass. S.U. n.5314/2020).
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in € 5.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali (15%) ed accessori, come per legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, ove dovuto.
Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.