Svolgimento del processo
1.-F.A. propone ricorso per cassazione articolato in cinque motivi ed illustrato da memoria nei confronti della Casa di cura (omissis) s.r.l. nonché nei confronti di Generali Italia s.p.a., per la cassazione della sentenza n. 3812 del 2020, resa dalla Corte d'appello di Napoli in data 10 novembre 2020, notificata il 12 novembre 2020. E’ stata depositata copia regolarmente notificata del provvedimento impugnato.
2.- Resiste con controricorso illustrato da memoria Generali Italia s.p.a. La casa di cura, regolarmente intimata, non ha svolto attività difensiva in questa sede.
3. - Questi i fatti, nella ricostruzione offerta dal ricorrente, per quanto ancora di rilievo:
- Nel 2004 F.A. venne ricoverato presso la Casa di cura (omissis)di Telese Terme, in preda a forti dolori al torace, dispnea e dolenzia cervico-dorsale; nel corso del ricovero le condizioni del paziente peggiorano, tanto che comincia ad accusare una iniziale tetraplegia e viene dimesso, dopo nove giorni, su una sedia a rotelle con una diagnosi di “formazione disomogenea non dissociabile dalla pleura parietale di dubbia natura (lesione eteroplastica endorachidea)”;
- il giorno stesso delle dimissioni la famiglia, viste le sue gravi condizioni, lo fa ricoverare all’ ospedale di Benevento, e qui viene gli viene diagnosticata una spondilodiscite, ovvero la presenza di un ascesso paravertebrale cervicale (situato all’apice del polmone) con sofferenza midollare. E’ dimesso solo nell’agosto 2005 con la diagnosi di tetraparesi da ascesso paravertebrale, dopo ricoveri in rianimazione e vari interventi chirurgici, uno dei quali di tracheotomia;
4.- Nel 2005 il F.A. evocava in giudizio la clinica privata, ritenendo che la sua invalidità e le sofferenze conseguenti fossero state causate dalla negligenza e imperizia dei medici della clinica che per primi lo ebbero in cura perché, nella sua ricostruzione, l’ascesso vertebrale, non diagnosticato con esattezza e non curato immediatamente con adeguata terapia, era andato a comprimere il midollo provocandogli esiti tetraplegici permanenti.
La domanda risarcitoria venne accolta dal tribunale, previo espletamento di due consulenze tecniche, la prima delle quali negava l'esistenza del nesso causale tra negligenza e danno, la seconda delle quali ne affermava invece la sussistenza, e delle quali il tribunale aveva ritenuto maggiormente convincente la seconda, recependone i risultati. Al ricorrente venne riconosciuto un danno biologico nella misura del 44% e liquidato l’importo di euro 310.048 euro a titolo di complessivo risarcimento del danno.
5.-La Corte d’appello di Napoli, invece, accoglieva l’appello della casa di cura rigettando integralmente la domanda del F.A..
5.1. –Il giudice dell’impugnazione dava atto dell’espletamento, in primo grado, di due consulenze tecniche e disponeva a sua volta un ulteriore approfondimento tecnico mediante una terza consulenza, nominando a tale scopo un collegio di esperti composto da un medico legale e un neurologo. Faceva propri gli esiti di quest’ultima, pur avendo preso in considerazione i rilievi dei c.t. di parte, e recuperava e valorizzava le affermazioni contenute nella prima consulenza espletata in tribunale. Pur avendo anche l’ultima consulenza confermato che la condotta tecnico-professionale dei sanitari della casa di cura non fosse stata congrua rispetto alle esigenze del paziente, in una situazione clinica obiettivamente difficile e con una diagnosi complessa alla quale sarebbe stato possibile arrivare solo attraverso approfondimenti diagnostici non effettuati tempestivamente, escludeva la sussistenza del nesso causale, sulla base del criterio probabilistico del più probabile che non. Ovvero, pur confermando la negligenza della casa di cura privata ove il ricorrente fu dapprima ricoverato, per non aver effettuato tempestivamente gli approfondimenti necessari, per non aver avviato con immediatezza il paziente presso una struttura più adeguata a prendersi cura delle sue condizioni e per averlo dimesso senza aver formulato una diagnosi esatta, la corte d’appello riteneva che mancasse la prova del nesso di causa tra l’operato pur negligente della clinica privata e il danno alla persona riportato dal F.A., non emergendo una prova sufficiente che un più adeguato e immediato intervento diagnostico e terapeutico avrebbe evitato l’invalidità permanente del F.A., a fronte della patologia grave della quale era stato affetto, in relazione alla quale, peraltro, non esistevano linee guida certe cui i sanitari avrebbero dovuto attenersi.
Concludeva pertanto nel senso che non si potesse affermare che una condotta più scrupolosa da parte dei sanitari della casa di cura privata che per prima ebbe in cura il paziente avrebbe evitato o apprezzabilmente attenuato i postumi neurologici patiti dal F.A..
5.2. –La sentenza impugnata aggiungeva poi che, da quanto riferito dai consulenti tecnici, la condotta dei medici della casa di cura aveva portato soltanto a una riduzione della possibilità di miglior guarigione, a una riduzione cioè delle possibilità di restitutio ad integrum neurologica ovvero a una perdita di chance, quindi alla possibilità perduta di un risultato migliore e sperato, solo eventuale nella sua realizzazione.
A questo proposito, evidenziava che il F.A. non aveva agito lamentando come evento di danno la perdita della speranza di guarigione, per cui escludeva la risarcibilità del danno anche nel più circoscritto ambito della perdita di chance, ritenendo che non fosse stata formulata una domanda autonoma in primo grado, dove era stata formulata solo la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, aggiungendo che la domanda autonoma legata alla perdita di chance non era stata proposta neppure in appello in via subordinata.
6. - Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale, all’esito della quale il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di cui al secondo comma dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso il F.A. denuncia la violazione degli articoli 154 e 194 c.p.c. nonché la violazione dell'articolo 195 c.p.c. nel suo testo ante riforma del 2009, dell'articolo 24 della Costituzione, dell'articolo 132 c.p.c. nonché l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Denuncia l’essersi verificata una violazione di legge in relazione alle modalità di espletamento della CTU in appello e dell’acquisizione delle note di parte: sostiene che la Corte d'appello avrebbe erroneamente applicato la nuova disciplina dettata dall’art. 195 riformato per la consulenza tecnica, che prevede lo scambio di note anticipate rispetto al deposito della consulenza entro termini prefissati, benché si trattasse di disciplina sopravvenuta rispetto all’inizio del giudizio, non applicabile al caso di specie. Sostiene di aver riportato un danno dall’errore procedurale in cui sarebbe incorso il giudice d’appello, perché le note tecniche, che pure il suo CTP aveva depositato prima del deposito della CTU, benché non nel rispetto dei termini concessi, non sarebbero state prese in considerazione dal consulente d’ufficio proprio perché non rispettose della scansione procedimentale erroneamente imposta dal giudice facendo applicazione di una disciplina non applicabile al processo in corso.
Il ricorrente dà atto, peraltro, che nella sentenza la corte territoriale afferma di aver comunque esaminato ed acquisito al processo le note di parte, avendo dato atto che la nuova disciplina sulla consulenza tecnica non fosse ratione temporis applicabile. Ritiene però di essere stato ugualmente leso per la mancata considerazione delle note da parte del consulente tecnico, che avrebbe inciso negativamente sulla valutazione tecnica di questi relativa all’insussistenza del nesso causale. Quindi addebita alla errata applicazione delle norme processuali sulla consulenza tecnica, già da parte del consulente d’ufficio, l'esito infausto del giudizio, in quanto le indicazioni offerte dai consulenti tecnici – secondo le quali, pur avendo accertato che i sanitari della clinica privata non operarono in conformità alle conoscenze della scienza medica all'epoca dei fatti non si potesse affermare l'esistenza di un nesso causale tra l'invalidità residuata in capo al F.A. e questi pur accertati errori diagnostici e terapeutici – fossero arrivate a tali conclusioni, negative per il ricorrente, cui aveva prestato adesione la corte d’appello, perché i consulenti non avevano avuto modo di confrontarsi con i c.t. di parte.
2. - Il motivo è infondato.
E’ ben vero che ratione temporis non si applicava nel processo che vede coinvolto il F.A., la nuova disciplina sulla consulenza tecnica contenuta nell’art. 195 c.p.c. come modificato dall’art. 46 della legge n. 69 del 2009 (in quanto la causa è iniziata, in primo grado, prima del 4 luglio 2009), ove è la prevista scansione procedimentale precedente al deposito della consulenza.
Non avendo il c.t.p. di parte appellata rispettato la scansione procedimentale fissata dal giudice, nell’errato presupposto della applicabilità della nuova normativa, il consulente non ha tenuto conto nella sua relazione finale dei rilievi del c.t.p.
E tuttavia, non può ritenersi che ciò infici la decisione, perché la corte d’appello in primo luogo ha individuato l’errore procedurale, in secondo luogo lo ha emendato, prendendo in considerazione la relazione del c.t.p. in correlazione con gli esiti della c.t.u. e quindi utilizzando, per formare la sua autonoma valutazione finale, anche l’elaborato del consulente di parte del quale il consulente d’ufficio aveva ritenuto di non poter prendere visione. L’avvenuto esame e la valutazione delle conclusioni del c.t.p. da parte della Corte d'appello, che risulta dalla sentenza, sana i vizi relativi alla sequenza procedimentale che ha portato al deposito della consulenza tecnica. La corte d’appello ne ha tenuto conto e ugualmente ha escluso che esistesse una prova sufficiente del nesso causale.
3. - Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e la violazione degli articoli 132 e 195 c.p.c., quest'ultimo nella versione precedente alla riforma.
Questo motivo è volto a criticare anch’esso la sentenza impugnata là dove si è uniformata alle valutazioni del CTU. Sostiene che la decisione d'appello sia contraddittoria, come era contraddittorio l’esito della CTU, in cui da un lato era accertata la negligenza tecnico- professionale dei sanitari, perchè non era stata prestata la necessaria assistenza al paziente, che veniva dimesso con una diagnosi poi risultata erronea, ma, ciò nonostante, i CTU avevano concluso nel senso della incertezza della rilevanza causale di tale comportamento. La conclusione in termini di incertezza dell’esistenza del nesso causale viene recepita dalla Corte d'appello, la quale aggiunge che dalle note tecniche della parte appellante non si è tratto nessun elemento utile per arrivare a una diversa conclusione. Pur in presenza di una accertata negligenza della casa di cura, a fronte di una patologia grave e complessa, priva di precise linee guida per il suo trattamento, la corte conclude che non c'è prova sufficiente del nesso causale tra quella negligenza e il danno cioè manca la prova del fatto che, se immediatamente diagnosticata e sottoposta alle cure adeguate, la patologia - oggettivamente grave- dalla quale era affetto il paziente avrebbe avuto esiti permanenti meno gravosi o non ne avrebbe avuti affatto.
Il ricorrente ribadisce che nelle proprie conclusioni e poi in comparsa conclusionale aveva sottolineato che è un dato scientifico accertato e noto che la patologia di ascesso se tempestivamente diagnosticata e curata può essere emendata, cioè che alla stessa si può porre idoneo riparo.
4. – Anche il secondo motivo è infondato, ai limiti dell’inammissibilità.
Esso critica l'esito negativo del giudizio controfattuale, denunciando che a tali conclusioni si sia pervenuti sulla base di una errata applicazione delle regole sulla consulenza tecnica, ma si traduce in effetti, inammissibilmente, in una critica sull’esito del giudizio. Come già detto in relazione al primo motivo, la considerazione da parte della corte d’appello, ai fini della formazione del suo convincimento, delle considerazioni del CT di parte appellata sana qualsiasi vizio procedurale.
Nel prenderle in considerazione, la corte d’appello è giunta motivatamente alla conclusione di escludere che esse fornissero validi elementi di sostegno in ordine all'esito positivo, in termini di più probabile che non, di una tempestiva terapia antibiotica, mentre il ricorrente sostiene di aver adeguatamente ricostruito che se il paziente fosse stato curato per tempo con la terapia appropriata al suo caso, le conseguenze sarebbero state quanto meno minori. Riconosce di aver essere incorso in una patologia grave e sostiene però che essa, se presa per tempo, ha buone probabilità di cura e anche di riduzione dei postumi permanenti, mentre le probabilità di prognosi sfavorevole sono tanto più elevate quanto più tardive sono diagnosi e terapia.
Il motivo di ricorso in più punti si traduce in una critica diretta contro le conclusioni in cui giungono i CTU nel senso della impossibilità di ritenere accertato il nesso causale tra la negligenza della clinica, che non ha consentito una diagnosi tempestiva e le possibilità di guarigione, e le condizioni finali del paziente e comunque in una critica verso l’accertamento in fatto contenuto nella sentenza impugnata, non in questa sede rinnovabile.
5. - Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'articolo 2059 c.c., ovvero la mancata pronuncia sulla specifica domanda di autonomo risarcimento del danno morale nonché la formazione del giudicato interno sul punto.
Si duole del fatto che, pur avendo accertato la negligenza dei primi sanitari, che hanno dimesso il paziente con una diagnosi definitiva poi risultata erronea, la Corte d'appello abbia del tutto rigettato la sua domanda volta al risarcimento dei danni non patrimoniali per le sofferenze e i patemi subiti e sostiene di aver comunque diritto quanto meno al riconoscimento del danno morale in conseguenza del comportamento obiettivamente negligente del personale della prima clinica.
Aggiunge che, in realtà, sul punto della liquidazione del danno morale si sarebbe formato il giudicato interno, perché la casa di cura avrebbe appellato la sentenza di primo grado solo sotto il profilo della mancanza del nesso causale. Quindi, non ci sarebbe uno specifico motivo di appello sul diritto al risarcimento del danno morale, riconosciuto e liquidato in primo grado.
Sostiene il ricorrente che la problematica sul nesso causale può riguardare il danno patrimoniale e il danno biologico ma non il danno non patrimoniale soggettivo e cioè il patema d'animo cagionato dalla diagnosi sbagliata, che risulta provato in giudizio, la cui risarcibilità può essere scissa dal riconoscimento del diritto al risarcimento del danno biologico, come danno morale soggettivo autonomo a fronte dell'accertata negligenza del primo istituto di cura. Sostiene che la Corte d'appello di Napoli, avendo accertato e dichiarato l’errore diagnostico e terapeutico in cui era incorsa la casa di cura, ha violato l'articolo 2059 c.c. non confermando il capo della sentenza di primo grado (peraltro coperto dal giudicato interno, perché non appellato) sul risarcimento del danno morale per la sofferenza e i patemi d'animo subiti dal F.A. a causa del suddetto errore diagnostico.
6. – Il motivo è infondato.
Impugnando la decisione di primo grado in relazione alla mancanza di nesso causale tra l’operato della prima casa di cura e il danno permanente subito dal paziente, l’appellante ha rimesso in discussione l’intero accertamento sul comportamento della prima struttura sanitaria e sulla sua efficienza causale sulla invalidità permanente che – a seguito della patologia subita, del contatto con la clinica privata e poi con l’ospedale pubblico – è esitato in capo al F.A.. Nessun giudicato interno si è formato, quindi, sul diritto al riconoscimento del danno morale.
Né tanto meno, in relazione ad un dedotto danno da errata e ritardata diagnosi connesso ad una patologia contratta dal paziente, a fronte di una valutazione in fatto che nega l’esistenza del nesso causale (sulla base della regola probabilistica del più probabile che non) tra il comportamento dei sanitari intervenuti e il verificarsi del danno, può sopravvivere una affermazione del diritto al risarcimento del danno morale puro: o il nesso causale sussiste, nel qual caso successivamente si procede a stimare il danno effettivamente verificatosi, nella sue varie componenti, eventualmente individuando, se più sono stati i sanitari o le strutture intervenute nel percorso di cura, ad individuare a quali di essi sia addebitabile, e in che misura, il danno, o il nesso non sussiste, e se non sussiste, nessun danno è risarcibile.
La pur accertata negligenza dei primi sanitari che lo hanno avuto in cura non può essere autonoma causa di risarcimento del danno morale se non ha avuto in realtà incidenza causa sul danno permanente che il ricorrente ha riportato.
7. - Con il quarto motivo di ricorso il F.A. addebita alla Corte territoriale di non aver applicato il principio del più probabile che non, in violazione degli articoli 40 e 41 del codice penale nonché l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Sostiene il ricorrente che nel ritenere non provato il nesso di causalità materiale la Corte d'appello non si sarebbe attenuta al principio corretto del più probabile che non ma avrebbe applicato il principio penalistico -non pertinente nel caso di specie- della certezza oltre ogni ragionevole dubbio.
8. - Il motivo è infondato.
La Corte d'appello di Napoli, pur dando atto del comportamento negligente della prima struttura, ha escluso, secondo un corretto ragionamento probabilistico controfattuale fondato sulla regola del più probabile che non, che dal complesso delle risultanze istruttorie (comprensive delle condizioni cliniche del paziente, delle modalità degli interventi, ed anche della mancanza di linee guida precise per la dolorosa e complessa patologia della quale era stato affetto il F.A.) emergesse la prova che, se il paziente fosse da subito stato curato più diligentemente, i postumi permanenti, in termini di limitazione funzionale e di dolore fisico, sarebbero stati evitati.
9. - Con il quinto motivo denuncia la violazione dell'articolo 2043 c.c. e l'omesso esame di un fatto decisivo del processo e l'intervenuta formazione del giudicato interno.
Il ricorrente critica la sentenza impugnata là dove ha affermato di non poter prendere in esame la richiesta di risarcimento del danno per perdita di chance, formulata soltanto in appello in via subordinata dall’appellato a fronte di una affermazione, contenuta nella CTU, secondo la quale mancava la prova del nesso causale tra l'operato dei medici e i postumi permanenti, mentre esso sarebbe stato in ipotesi configurabile in relazione a una perdita di possibilità di guarigione.
Sostiene altresì il ricorrente quello che rileva, ai fini della risarcibilità, è la descrizione ed allegazione dei fatti in cui si è concretizzato il danno e non la sua qualificazione giuridica, e sostiene di aver indicato tutti i fatti idonei al risarcimento del danno quanto meno sotto il profilo della perdita di chance, e cioè il comportamento negligente della struttura privata e che il giudice d’appello, sulla base di quei fatti, avrebbe dovuto risarcire il danno che riteneva si fosse effettivamente verificato, che comunque era un danno non patrimoniale ampiamente riconducibile alla domanda formulata. Aggiunge il ricorrente che la domanda risarcitoria era stata accolta pienamente in primo grado per cui egli non aveva alcun onere, in appello, di riformulare eventuali domande subordinate, come ritenuto erroneamente dai giudici d'appello, perché l'appellato vittorioso non ha l'onere di proporre appello incidentale per far valere le cause petendi non esaminate dal giudice di primo grado né quella di riproporre le ragioni pretermesse, essendo sufficiente che ad esse la parte non rinunci. Quindi, sostiene che sul capo del danno non patrimoniale riconosciuto con la sentenza di primo grado si è formato ormai il giudicato interno perché non è stato oggetto di autonoma impugnazione da parte dell'appellante principale né da quello incidentale, quanto meno in riferimento alla perdita di chance.
10. – Il motivo è infondato.
Il ricorrente sostiene che la perdita di chance non è una nozione autonoma, distinta dal danno non patrimoniale per lesione del diritto alla salute e che quindi essa non necessita, ai fini della sua considerazione, di un’autonoma domanda. Sostiene di aver chiesto il risarcimento del danno biologico subito a tutto tondo, in tutte le sue sfaccettature e quindi di aver chiesto anche, ove si ritenesse che solo questo era dovuto, il risarcimento del danno da perdita di chance.
E tuttavia, l’affermazione è errata perché non coglie l’autonoma concettuale del danno da perdita di chance rispetto al danno biologico da lesione del diritto alla salute, più volte affermata da questa Corte.
Deve, in proposito, essere riaffermato il principio di diritto secondo cui il risarcimento del danno da perdita di chance non coincide con il risarcimento del danno biologico, né costituisce una semplice parte di esso, perché non ha ad oggetto né la limitazione funzionale dovuta all’errato intervento medico - a cui consegue un danno permanente alla salute - né la perdita del risultato sperato di una guarigione, ma consiste, per converso, nella perdita della possibilità di realizzare quel risultato - possibilità che, nella specie, si sarebbe potuto astrattamente ipotizzare lesa dalla negligente, passiva o superficiale condotta dei sanitari della prima struttura privata.
In tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, questa Corte ha infatti puntualizzato che la "chance" non è una mera aspettativa di fatto, bensì la concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato o un certo bene, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita configura un danno concreto ed attuale; ne consegue che la domanda risarcitoria del danno per la perdita di "chance" è, per l'oggetto, ontologicamente diversa dalla pretesa di risarcimento del pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, il quale si sostanzia nell'impossibilità di realizzarlo, caratterizzata da incertezza (non causale, ma) eventistica (in questo senso Cass. n. 25886 del 2022, che in applicazione del principio ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto nuova e, dunque, inammissibile la domanda risarcitoria per perdita di "chance" avanzata per la prima volta in appello; v. anche Cass. nn. 24050 e 26851 del 2023).
Il ricorso va pertanto rigettato.
In considerazione delle alterne vicende del giudizio di merito e della particolarità della fattispecie, le spese del presente giudizio sono compensate.
Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.