La qualificazione ha infatti risvolti particolarmente importanti, in particolare sull'esercizio del potere di amministrazione, sulla distribuzione degli utili e sul diritto a pretenderli.
Riformando parzialmente la decisione di primo grado, la Corte d'Appello di Firenze confermava la partecipazione della moglie in misura pari al 40% all'impresa familiare con il marito, dichiarandola comproprietaria per la quota corrispondente degli immobili indicati, i quali erano stati acquistati dal coniuge con i proventi dell'impresa familiare, disponendone il trasferimento in suo favore. Allo stesso tempo, i Giudici dichiaravano il diritto di proprietà della moglie sulle quote societarie per un ulteriore percentuale (9%) rispetto a quella già posseduta disponendone il trasferimento in suo favore e condannando il marito a pagarle l'incremento di valore dell'azienda.
L'uomo impugna la decisione mediante ricorso per cassazione contestando, in particolar modo, l'accoglimento della domanda di trasferimento dei diritti immobiliari e delle quote societarie, avendo i Giudici disatteso la sua eccezione di inammissibilità della domanda formulata inizialmente.
Con la sentenza n. 15810 del 6 giugno 2024, la Cassazione dichiara il motivo di ricorso fondato, soffermandosi sulla natura dell'impresa familiare, istituto introdotto dalla riforma del diritto di famiglia e racchiuso nell'
Stante la natura, limitata e residuale, dell'istituto, nel tempo si è accresciuto il dibattito circa la sua configurabilità e cioè se esso debba qualificarsi come impresa collettiva ovvero individuale.
Un primo orientamento, infatti, qualifica l'impresa familiare quale associazione di persone. Ciò ha come principale conseguenza che l'esercizio del potere di amministrazione spetterebbe a tutti i collaboratori.
D'altra parte, l'orientamento prevalente qualifica l'impresa familiare come impresa “individuale”, la cui qualità di imprenditore è assunta solo dal familiare che la esercita verso l'esterno, mentre gli altri familiari si limiterebbero a partecipare alla gestione dei soli rapporti interni.
La giurisprudenza di legittimità si è espressa in tal senso, chiarendo che
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«L'esercizio dell'impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria attesa non solo l'assenza nell' |
Ciò chiarito, la Cassazione richiama numerose pronunce che precisano i caratteri peculiari dell'istituto, affermando che l'assunto sulla natura obbligatoria del diritto di partecipazione del collaboratore sui beni (e sulle quote societarie) acquistati attraverso gli utili non ripartiti dal titolare dell'impresa trova solidi riscontri da elementi di natura testuale, teleologica e sistematica della relativa disciplina. In particolare,
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«la configurazione del diritto di partecipazione quale diritto di credito risulta quella maggiormente coerente con la riconosciuta natura individuale dell'impresa familiare e con la connessa alterità del soggetto collaboratore rispetto all'impresa quale entità dinamica». |
Preso atto di ciò e delle ulteriori precisazioni fornite dagli Ermellini, il ricorso viene accolto in relazione al suddetto motivo di ricorso con rinvio teso al riesame della domanda della moglie in vista del contenuto necessariamente obbligatorio e non reale della sua pretesa.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermato che B.B. aveva partecipato nella misura del 40% all'impresa familiare con il coniuge A.A. , ha dichiarato la suddetta comproprietaria per la quota del 40% degli immobili in dispositivo indicati, acquistati dallo A.A. con i proventi dell'impresa familiare, disponendone il trasferimento in favore della B.B. nella misura della quota attribuita; ha dichiarato il diritto di proprietà di B.B. sulle quote della società T. di A.A. & c. Snc come in dispositivo indicate, per l'ulteriore percentuale del 9 % rispetto a quella già posseduta dalla B.B. (pari al 19%) e ne ha disposto il trasferimento in favore di quest'ultima dalla quota posseduta da A.A.; ha condannato A.A. a pagare a B.B. per l'incremento di valore dell'azienda alla data del 2 febbraio 2005 la somma di euro 160.000,00 oltre accessori (rispetto alla maggiore somma, pari a euro 200.153,92, stabilita dal giudice di primo grado), da compensarsi con la somma di euro 74.370,00 dovuta da B.B. a A.A. per l'acquisto delle quote dell'albergo B. P. di F d M .
2. La sentenza impugnata, sulla base delle emergenze istruttorie, ha confermato l'apporto della B.B. alla impresa familiare nella misura del 40%, già determinato dal giudice di prime cure; ha quindi ritenuto non raggiunta la prova, della quale era onerato lo A.A. , circa la avvenuta integrale distribuzione degli utili della impresa familiare fra i coniugi, unici partecipanti alla stessa; ha valorizzato a tal fine la circostanza che i coniugi non avevano altre fonti di reddito e che gli acquisti di immobili effettuati dalla B.B. nel periodo di durata della impresa familiare erano notevolmente inferiori per valore a quelli effettuati singolarmente dallo A.A. e non esaurivano pertanto la misura della partecipazione agli utili della impresa familiare da parte della moglie che vi aveva collaborato. Ha quindi ritenuto ammissibile, in dichiarata adesione alla sentenza della S.C. n. 7007 del 2015 ed alla giurisprudenza di legittimità ivi richiamata, la domanda, della B.B. intesa alla diretta attribuzione di una quota di proprietà degli immobili e delle quote della società, in quanto acquistati dallo A.A. anche con gli utili alla cui produzione aveva concorso la odierna controricorrente.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso A.A. sulla base di tre motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso.
4. B.B. ha depositato due memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c.; nella seconda memoria ha dato atto del decesso, nelle more, dello A.A. e del subentro allo stesso quali eredi, ciascuno nella misura della metà, di essa B.B. , quale moglie, e del figlio C.C. .
In data 2 aprile 2024 parte ricorrente ha depositato ricorso notificato e chiesto la decisione.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente si rileva che il decesso dello A.A. e la conseguente apertura della successione in favore della B.B. e del figlio dei coniugi, C.C. , non assume rilievo ai fini processuali nel presente procedimento, persistendo pur sempre in capo alla B.B. , quale mera coerede, l'interesse a contraddire al ricorso di C.C. .
2. Tanto premesso, i motivi di ricorso formulati dalla parte ricorrente possono riassumersi nei termini di cui in prosieguo.
3. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 230 bis c.c. , degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e degli artt.115 e 116 c.p.c. censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto non provata la distribuzione in favore della B.B. degli utili prodotti dall'impresa familiare. In particolare censura il ragionamento presuntivo posto a fondamento della decisione sul punto e denunzia erronea valutazione degli elementi in atti che assume in realtà dimostrativi dell'avvenuta percezione degli utili in questione da parte della odierna controricorrente.
4. Con il secondo motivo di ricorso deduce ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell'art. 230 bis c.c. , censurando la sentenza impugnata per avere accolto la domanda di trasferimento di diritti immobiliari e di quote di partecipazione societaria, così disattendendo la eccezione di inammissibilità della domanda formulata dallo A.A. , originario convenuto.
5. Con il terzo motivo deduce ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell'art. 230 bis c. c. denunziando l'errore del giudice di appello nella valutazione del diritto agli utili ed alla partecipazione dei beni acquistati in riferimento alle allegazioni dello A.A. circa gli importi percepiti dalla B.B. .
6. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
6.1. La sentenza impugnata ha ritenuto fondata la deduzione della B.B. che aveva contestato che gli utili dell'impresa familiare, che costituivano pacificamente l'unica fonte di reddito per entrambi i coniugi, fossero stati distribuiti premesso che l'onere della prova dell'avvenuta distribuzione degli utili sussisteva in capo allo A.A. quale titolare dell'impresa, la Corte distrettuale ha osservato che tale onere risultava solo in minima parte assolto; ha valorizzato a tal fine la circostanza che i coniugi non avevano altre fonti di reddito e che gli acquisti di immobili effettuati dalla B.B. erano notevolmente inferiori per valore a quelli effettuati dallo A.A.; in questa prospettiva ha escluso valenza probatoria, nel senso preteso dall'odierno ricorrente, alle dichiarazioni dei redditi presentate dalla B.B. nel periodo di durata dell'impresa familiare sul rilievo che tali dichiarazioni erano dimostrative della sola imputazione degli utili a fini fiscali ma non anche della relativa, effettiva, materiale corresponsione.
6.2. Tanto premesso, la sentenza impugnata si sottrae alla censura di violazione di norme di diritto articolata con il motivo in esame posto che il giudice di appello ha fondato l'accertamento relativo alla mancata integrale corresponsione degli utili alla B.B. e alla loro utilizzazione nell'acquisto di proprietà immobiliari e quote societarie da parte dello A.A. non sulla base di presunzione legale, come non consentito (Cass. n. 32698 del 2018), ma sulla base di ragionamento presuntivo fondato sulla circostanza - rimasta incontestata nel presente ricorso-, che l'odierno ricorrente non aveva avuto e non aveva un patrimonio personale, vale a dire altre fonti di reddito, diverse da quelle derivanti dall'esercizio dell'impresa familiare, cui attingere per gli acquisti in oggetto, essendo tra l'altro rimasto indimostrato l'assunto relativo alla somma di centocinquanta milioni di lire proveniente allo A.A. dall'eredità materna.
6.3. Le ulteriori doglianze formulate risultano anch'esse inammissibili. Invero, tali doglianze, seppur veicolate attraverso la deduzione di violazione di norme di diritto , si sostanziano nella diretta richiesta di un rinnovato apprezzamento del materiale probatorio, richiesta inammissibile in sede di legittimità; come chiarito dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente; l'apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell'ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. , tra le altre, Cass. n. 7007 del 2015, Cass. n. 7921 del 2011, Cass. n. 15693 del 2004), fermo restando che il giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 16467 del 2017, Cass. n. 1111 del 2014, Cass. n. 42 del 2009);
7. Il secondo motivo è meritevole di accoglimento.
7.1. Come è noto, l'impresa familiare, disciplinata dall'art. 230 bis c.c. , costituisce un istituto introdotto dalla legge n. 151 del 1975, di riforma del diritto di famiglia, avente la precipua finalità di garantire il lavoro continuativamente prestato all'interno della famiglia, superando la presunzione, comunemente ritenuta, che tale lavoro fosse svolto affectionis vel benevolentiae causa.
In questa prospettiva, la previsione dell'art. 230 bis c.c. , rappresenta attuazione di principi costituzionali e segnatamente dei principi di cui agli artt. 1, 35, 36 e 37 Cost.
7.2. La tutela del lavoro continuativamente prestato dal familiare o dall'affine, purché rientrante nelle categorie indicate dal comma 3 dell'art. 230 bis cit. , è assicurata dal Legislatore del 1975, riconoscendo al collaboratore, oltre che il diritto al mantenimento "secondo la condizione patrimoniale della famiglia", la partecipazione "agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato". Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa.
come soggetto collettivo,
7.3. La novità dell'istituto, il suo carattere residuale, reso palese dall'incipit dell'art. 230 bis c.c. "Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nell'impresa familiare ... ", in una con il fatto che la relativa disciplina è stata limitata ad alcuni aspetti soltanto, hanno alimentato un ampio dibattito nell'ambito del quale rilievo centrale ha assunto il tema della configurabilità dell'impresa familiare rectius impresa collettiva, o come impresa individuale.
A riguardo gli interpreti, anche quelli orientati nel senso della prima opzione, hanno escluso rilievo decisivo all'espressione "Impresa familiare" di cui alla rubrica dell'articolo, pur evidenziando che nella sua accezione letterale essa implica il riferimento dell'impresa al complesso familiare, costituito - nel limite massimo della sua estensione - dai coniugi, dai parenti entro il terzo grado e dagli affini entro il secondo grado.
7.4. Secondo un primo orientamento, l'impresa familiare costituisce e rappresenta un'associazione di persone, legate da un vincolo di parentela o di affinità, per l'esercizio in comune di un'attività imprenditoriale, identificando tale associazione in una vera e propria associazione non riconosciuta o una società sui generis o una società di fatto . La conseguenza principale che scaturisce da tale impostazione riguarda l'attribuzione del potere di amministrazione dell'impresa: esso spetterebbe a tutti i collaboratori, congiuntamente per la straordinaria amministrazione e disgiuntamente per l'ordinaria amministrazione, nonché la estensione della qualità di imprenditore a tutti i partecipanti alla impresa familiare.
7.5. L'orientamento prevalente in dottrina e fatto proprio anche dalla giurisprudenza di legittimità qualifica l'impresa familiare come impresa " individuale": la qualità di imprenditore è assunta esclusivamente dal familiare che la esercita nei rapporti esterni, mentre gli altri familiari si limitano a partecipare alla gestione solo nei rapporti interni.
A favore della tesi dell'impresa individuale si invocano non solo esigenze pratiche, legate essenzialmente a possibili ostacoli e difficoltà nei rapporti con i terzi, ma anche lo stesso testo dell'art. 230 bis c. c. , il quale, al terzo comma, distingue tra imprenditore e collaboratore, espressione, quest'ultima incompatibile con la qualifica di imprenditore. Inoltre, l'art. 29, l. 160/1975 (sostituito dall'art. 1, 203° comma, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), prevedendo " norme per il miglioramento dei trattamenti pensionistici ", distingue chiaramente tra titolare e componenti dell'impresa familiare . In concorrente profilo non può sottacersi che le originarie finalità di tutela del collaboratore all'impresa familiare potrebbero risultare in concreto pregiudicate ove tutti i partecipanti dovessero assumere la qualità di imprenditore, con ogni implicazione sul piano dei relativi oneri e sul piano delle correlate responsabilità (basti pensare alle conseguenze di un possibile fallimento dell'impresa che dovrebbe necessariamente estendersi a tutti i compartecipi).
7.6. Come anticipato, nel senso della natura individuale dell'impresa familiare si è ripetutamente espressa la giurisprudenza di legittimità la quale ha chiarito che "L'esercizio dell'impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria attesa non solo l'assenza nell'art. 230 bis cod. civ. di ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto, l'irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione, patrimoniale, ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, ponendosi altresì il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario. Tale soluzione, inoltre, è coerente con una interpretazione teleologica della norma - introdotta dalla riforma del diritto di famiglia con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali (art. 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151) - che, come si evince dall'incipit" dell'art. 230 bis cod. civ. ("salvo sia configurabile un diverso rapporto"), prefigura l'istituto dell'impresa familiare come autonomo, di carattere speciale (ma non eccezionale) e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile." (Cass. Sez. Un. n. 23676 del 2014, e v. , in continuità, Cass. n. 20552 del 2015); è stato quindi precisato che "L' impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall'impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile. L'inesistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire implica che questi ultimi sono assegnati in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell'azienda o all'acquisto di beni (Cass. n. 24560 del 2015). Cass. n. 7223 del 2004 ha affermato: "A differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (artt. 2251 e segg. cod. civ.), l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili; ne consegue che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall'art. 2284 cod. civ. , che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l'impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell'asse ereditario del de cuius, rispetto a tali beni i componenti dell' impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull'azienda." Secondo Cass. cit. " La Corte, infatti, ha già avuto modo di affermare il principio di diritto secondo cui "La disciplina dettata per l'esclusione del socio dalla società semplice dall'art. 2287 cod. civ. trova applicazione per l'impresa collettiva appartenente per quote (uguali o diverse) a più persone, ma non per l'impresa umiliare di cui all'art. 230 bis cod. civ. , che appartiene sempre al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto solo ad una quota degli utili. In tale ipotesi, l'esclusione può quindi avvenire solo nei confronti dei predetti familiari con il diritto, oltre che alla liquidazione della quota spettante, al risarcimento del danno per il caso in cui l'esclusione sia ingiustificata, non potendo il titolare della impresa essere privato dell'esercizio della propria attività' economica ed essere espropriato dei beni aziendali e dei capitali, che restano di sua esclusiva proprietà anche dopo la trasformazione dell'originaria impresa individuale in impresa familiare" (Cass. n. 8959 del 25/7/99)." Ancora, con riferimento all'imposizione fiscale, questa Corte in materia di impresa familiare ha differenziato, il reddito percepito dal titolare, che, al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, è stato configurato quale reddito di impresa, dalle quote spettanti ai collaboratori - "che non sono contitolari dell'impresa familiare" - che costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all'imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall'imprenditore (Cass. n. 34222 del 2019); è, infine, esclusivamente sul titolare dell'impresa familiare che gravano gli obblighi di sicurezza e le connesse responsabilità, anche in relazione alla possibilità di rivalsa dell'istituto assicuratore nazionale, a seguito della sentenza n. 476 del 1987 della Corte costituzionale con cui la tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è stata estesa anche ai familiari collaboratori nell'impresa familiare che prestino attività lavorativa non riconducibile all'ipotesi del rapporto societario o di lavoro subordinato (Cass. n. 20406 del 2017).
7.5. In relazione alla specifica questione posta dal motivo in esame, che risulta in qualche modo collegata al tema della natura, collettiva od individuale, dell'impresa familiare ex art. 230 bis c.p.c. , è opportuno premettere che non consta che essa sia stata affrontata funditus da questa Corte e che nella giurisprudenza di legittimità si trovano sia affermazioni che appaiono incompatibili con la natura reale del diritto in questione sia affermazione che, viceversa, sembrerebbero, quanto meno in apparenza, avallare l'assunto di un possibile contenuto reale della partecipazione dei collaboratori all'impresa familiare, ai beni acquistati con gli utili prodotti dal relativo esercizio.
7.6. Tra le decisioni riconducibili al primo gruppo si annoverano in particolare: Cass. n. 10946 del 2007 secondo la quale "In tema di imposta sulle successioni, ai fini della determinazione della base imponibile, in relazione ad un'azienda compresa nell'asse ereditario, la mera allegazione che la stessa era gestita in forma di impresa familiare non consente agli eredi di reclamare alcuna riduzione dell'attivo, in assenza di specificazioni e prove sul concreto residuare di crediti dei collaboratori ancora insoluti al momento dell'apertura della successione: l'apporto dei familiari che collaborano nell'impresa, attribuendo loro il diritto di ottenere non già una quota dell'azienda, ma una remunerazione della loro opera che tenga conto anche degli incrementi del valore aziendale, può infatti far sorgere solo eventuali posizioni debitorie del "de cuius", detraibili dall'attivo ereditario se ed in quanto si adduca e si dimostri che determinati compensi partecipativi siano ancora dovuti alla cessazione del rapporto di collaborazione, segnata dalla morte del titolare dell'impresa; Cass. n. 7223 del 2004 che, a sua volta, ha precisato che "A differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (artt. 2251 e segg. cod. civ.), l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis cod. civ. appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili; ne consegue che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall'art. 2284 cod. civ. , che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l'impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell'asse ereditario del de cuius, rispetto a tali beni i componenti dell'impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull'azienda.".
7.7. Tra le seconde si annoverano: Cass. n. 7007 del 2015, richiamata nella sentenza impugnata, la quale ha chiarito che "in tema d'impresa familiare, la cognizione del giudice del lavoro, ex art. 409 cod. proc. civ. , non è circoscritta all'accertamento del diritto alla remunerazione dei soggetti indicati dall'art. 230 bis cod. civ. , ma comprende la domanda con la quale un coniuge, previo accertamento della partecipazione all'impresa familiare con l'altro coniuge, chieda, ai sensi della disposizione citata, l'attribuzione di beni o di quote di beni, che assuma acquistati con i proventi dell'impresa stessa, posto che tali pretese trovano titolo nel rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata, riconducibile nella previsione dell'art. 409 n. 3 cod. proc. civ. , il quale non diversifica le controversie in ragione del fatto che sia stata proposta una domanda di accertamento ovvero di condanna." e Cass. n. 158 del 1990 secondo la quale "In tema d'impresa familiare, la cognizione del giudice del lavoro, ex art. 409 cod. proc. civ. , non è circoscritta all'accertamento del diritto alla remunerazione dei soggetti indicati dall'art. 230- bis cod. civ. , ma comprende la domanda con la quale un coniuge, previo accertamento della partecipazione all'impresa familiare con l'altro coniuge, chieda, ai sensi della disposizione citata, l'attribuzione di beni o di quote di beni, che assuma acquistati con i proventi dell'impresa stessa, posto che tali pretese trovano titolo nel rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata, riconducibile nella previsione dell'art. 409 n. 3 cod. proc. civ. , il quale non diversifica le controversie in ragione del fatto che sia stata proposta una domanda di accertamento ovvero di condanna. ".
7.8. Ad avviso del Collegio, tuttavia, questo secondo gruppo di decisioni non assume ai fini ricostruttivi dell'orientamento di legittimità, un ruolo decisivo posto che esse si limitano ad affermare che rientra nella cognizione del giudice del lavoro qualunque controversia che tragga origine dal rapporto di collaborazione di cui all'art. 230 - bis, "il quale non diversifica le controversie in ragione del fatto che sia stata proposta una domanda di accertamento ovvero di condanna", senza entrare compiutamente nel merito del contenuto della pretesa azionata dal collaboratore dell'impresa familiare.
7.9. Ciò posto, alla luce di quanto complessivamente sopra osservato, ritiene il Collegio che l'assunto della natura obbligatoria del diritto di partecipazione del collaboratore sui beni (e sulle quote societarie) acquistati con gli utili non ripartiti dal titolare dell'impresa familiare, trovi solidi riscontri in ragioni tratte da elementi di ordine testuale, teleologico e di sistema della relativa disciplina. In particolare, la configurazione del diritto di partecipazione quale diritto di credito risulta quella maggiormente coerente con la riconosciuta natura individuale dell'impresa familiare e con la connessa alterità del soggetto collaboratore rispetto all'impresa quale entità dinamica; diversamente, infatti, dovrebbe immaginarsi l'acquisto di un bene operato personalmente dall'imprenditore come effettuato in rappresentanza di tutti i partecipi, che divengono per ciò solo, ipso iure, ciascuno contitolare pro quota del bene. Al di là della farraginosità di tale meccanismo, che presenta specifiche criticità anche in relazione alle esigenze di trasparenza nel rapporto con i terzi, la configurazione di una contitolarità immediata della proprietà del bene da parte di tutti i partecipanti all'impresa familiare, comporterebbe l'assoggettamento alle normali regole della comunione ed in particolare al regime di limitazioni agli atti di disposizione specifico della comunione, in contrasto con le esigenze di autonomia operativa proprie dell'impresa familiare che, come chiarito da questa Corte, costituisce, "per definizione", un'entità dinamica implicando la gestione strumentale di un complesso di fattori tra i quali anche i beni (mobili o immobili e le entità immateriali) per il compimento di un'attività destinata a produrre utili da distribuire tra le parti (Cass. n. 273 del 1973); in questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente soffermata sul carattere dinamico della impresa familiare, in particolare nel confronto con il diverso istituto della comunione dei beni- che è stato declinato anche nell'ambito del diritto di famiglia (es. in tema di comunione dei coniugi, art. 177 cod. civ.) - evidenziando che mentre quest'ultima si caratterizza per la prevalenza dell'elemento statico del godimento dei beni secondo la destinazione loro propria, l'impresa si caratterizza per l'elemento dinamico della strumentalità dei beni per il compimento di un'attività, i cui utili saranno poi ripartiti tra le parti (Cass. n. 1401 del 2021, Cass. n. 12087 del 1992, Cass. n. 4558 del 1979). La tesi della contitolarità imporrebbe quindi di ammettere che vi sono casi in cui la regola della maggioranza posta in generale dall'art. 230 - bis c.c. per le decisioni concernenti l'impiego degli "incrementi" - al cui novero vanno senz'altro ascritti i beni acquistati con gli utili aziendali - non potrebbe trovare applicazione. Ed è difficile immaginare che il Legislatore del 1975, ove avesse davvero inteso configurare una situazione di contitolarità sui beni acquistati con gli utili prodotti dall'impresa familiare, abbia omesso ogni riferimento all'applicazione del relativo regime di disposizione, configurante una importante eccezione alla generale regola della maggioranza dettata dal comma 1 dell'art. 230 bis c.c.. In concorrente prospettiva non può trascurarsi, sotto il profilo della esigenza di tutela dei terzi che affermare la contitolarità in capo ai collaboratori all'impresa familiare dei beni acquistati con gli utili aziendali farebbe sorgere dei problemi sotto il profilo della relativa sottrazione al rischio imprenditoriale.
7.10. La soluzione qui accolta non trova smentite nel testo dell'art. 230 bis c.c. il quale non offre elementi decisivi nel senso della realità del diritto sui beni acquistati con gli utili; l'espressione "partecipa" di cui al primo comma dell'art. 230 bis c.c. , valorizzata da alcuni interpreti a sostegno della tesi del carattere reale e non obbligatorio del diritto del collaboratore, risulta, infatti, per valenza semantica, del tutto neutra a tal fine; ciò tanto più ove si consideri che nella medesima locuzione essa viene riferita oltre che agli utili anche ad una qualità tipicamente immateriale dell'azienda, quale l'avviamento, rispetto al quale il diritto di partecipazione del collaboratore non può che avere un contenuto obbligatorio; in questa prospettiva deve evidenziarsi che i beni acquistati con gli utili rappresentano pur sempre incrementi dell'azienda, per i quali non è in contestazione la natura obbligatoria del relativo diritto di partecipazione. Significativa conferma della tesi qui sostenuta, tratta dalla disciplina positiva, è costituita dal sesto comma dell'art. 230 bis c.c. , secondo cui in caso di divisione ereditaria o di trasferimento di azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull'azienda, diritto di prelazione che si pone in contraddizione quanto meno con la ipotizzata contitolarità dei beni componenti l'azienda, ove acquistati con gli utili prodotti dall'impresa familiare; lo stesso quarto comma dell'art. 230 - bis c,c, , secondo cui "il diritto di partecipazione . . può essere liquidato in denaro alla cessazione per qualsiasi causa della prestazione di lavoro e altresì in caso di alienazione dell'azienda" - comma che è stato invocato a fondamento della natura reale del diritto sui beni acquistati con gli utili mediante la valorizzazione della espressione "può" quale significativa della possibilità alternativa di ottenere l'accertamento della titolarità sui beni - in realtà corrobora la tesi qui sostenuta; infatti, ove dovesse ammettersi che l'acquisto del bene ha determinato una situazione di contitolarità dovrebbe immaginarsi la necessità di una trasformazione di un diritto di proprietà su beni ancora esistenti in un diritto di credito sul controvalore monetario di tali beni, laddove secondo le regole comuni, la divisione dei beni in comunione "ha luogo in natura", almeno se la cosa può essere comunemente divisa in parti (art. 114 c.c.). Infine, la soluzione prefigurata appare quelle più coerente con la esigenza di tutela dei terzi eventualmente acquirenti dall'imprenditore, stante la rilevanza meramente interna del rapporto fra imprenditore e collaboratori all'impresa individuale e il difetto di un sistema di pubblicità concernente la gestione dell'impresa familiare. In tal senso l'opzione qui condivisa si rivela quella maggiormente in sintonia con il recente approdo di Cass. Sez. Un. n. 15889 del 1922, in tema di comunione de residuo, secondo il quale al coniuge non imprenditore non spetta alcun diritto di comproprietà sui beni aziendali, ma un mero diritto di credito sui beni oggetto della comunione de residuo, pari alla metà dell'ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività, soluzione motivata anche con riferimento alle esigenze di tutela dei creditori dell'impresa, "i quali hanno fatto affidamento, anche in vista della concessione del credito, sulla consistenza dell'azienda ritenuta di proprietà esclusiva dell'imprenditore e che, appena intervenuto lo scioglimento della comunione legale, vedrebbero la garanzia patrimoniale del loro credito ridotta del 50%, in ragione della insorgenza del diritto di comproprietà in favore del coniuge non imprenditore" (Cass. Sez. Un. n. 15899/2022, cit..).
7.11. Sulla base delle considerazioni che precedono si impone quindi l'accoglimento del secondo motivo di ricorso e la cassazione, in parte qua, della decisione, con rinvio alla Corte di appello di Firenze per il riesame della domanda della B.B. alla luce del contenuto necessariamente obbligatorio e non reale della pretesa dalla stessa azionata con riferimento ai beni ed alle quote societarie acquisite dallo A.A. con gli utili prodotti dall'impresa familiare.
8. Il terzo motivo di ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità. In primo luogo, esso è articolato in violazione dell'art. 366, comma 1 n. 3 c.p.c. in quanto la esposizione delle doglianze non è sorretta dalla adeguata esposizione del fatto processuale destinata consentire, sulla base della sola lettura del ricorso per cassazione, la verifica di fondatezza delle censure articolate, con riferimento sia alla maggiore percentuale della quote della T. Snc attribuita alla B.B. sia al valore dell'investimento concernente l'acquisto dell'Hotel K. effettuato, in parti eguali da entrambi i coniugi. In particolare, non risulta validamente incrinato l'accertamento di fatto della Corte distrettuale, secondo la quale la somma di euro 193.671 utilizzata per l'acquisto del bene nell'anno 1989 si configurava quale ripartizione di utili; né parte ricorrente si confronta con il rilievo della sentenza impugnata in ordine all'assenza di domanda relativa alla proprietà indivisa dell'immobile tra i coniugi, ciascuno nella misura della metà. In secondo luogo, le doglianze risultano inammissibili in quanto pur formalmente denunziando violazione e falsa applicazione di norma di diritto, tendono a sollecitare direttamente un diverso apprezzamento delle emergenze di causa , e quindi un controllo estraneo al sindacato di legittimità secondo quanto già in precedenza osservato (v. punto 6.3.).
9. Anche il regolamento delle spese di lite del giudizio di cassazione è demandato alla Corte di rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, alla quale demanda anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità