Le regole probatorie per la rifusione del danno da parte del chirurgo sono differenti a seconda dell'ambito processuale. Lo ha ribadito la Corte dei C onti con la sentenza n. 127/2024.
I principi secondo cui si identifica la responsabilità in capo al medico che è incorso in un caso di malapractice sanitaria sono differenti a seconda dell'ambito in cui si svolge il giudizio. Di conseguenza, sarà imputabile un obbligo risarcitorio anche al chirurgo che è stato assolto in sede penale o che non è stato nemmeno indagato. Così la Corte dei Conti con sentenza n. 127 del 3...
Svolgimento del processo
1. La Corte dei conti - Sezione giurisdizionale regionale per il Piemonte condannava xx, nelle qualità, rispettivamente, di primo e secondo chirurgo in un infausto intervento, al pagamento di euro 60.000,00, il primo, ed euro 40.000,00, il secondo, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, nonché spese di lite, per il danno indiretto causato alla Regione Piemonte.
Più in dettaglio, in data 27.4.2005, gli indicati sanitari procedevano, presso l’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino, in regime di elezione, alla rimozione di una neoplasia prostatica utilizzando una tecnica operatoria (c.d. HI-FU), mediante la quale l’asportazione delle cellule tumorali è compiuta tramite l’introduzione rettale di una sonda, con cui, in costante monitoraggio ecografico, vengono erogati impulsi ultrasonici in prossimità dei tessuti da trattare.
Nel corso dell’intervento, veniva constatato (e, conseguentemente, annotato nella cartella clinica) che «il trattamento viene ostacolato dalla presenza di feci semiliquide da pessima preparazione intestinale».
All’esito del periodo di convalescenza, poco dopo la rimozione del catetere vescicale (effettuata in data 18.5.2005, in occasione della visita di controllo urologico), in data 21.5.2005 veniva disposto il ricovero del paziente in regime di urgenza, a causa di oliguria e fecaluria e, compiuti gli opportuni accertamenti strumentali, era eseguito (da altra equipe medica) un intervento endoscopico per porre rimedio ad una fistola prosto-rettale «di almeno 2 cm».
I postumi di tale fistola comportavano un tormentato ed estremamente lungo decorso.
Il Tribunale civile di Torino condannava l’ASL Città di Torino a risarcire gli eredi del paziente, nelle more deceduto, con il pagamento di euro 197.734,50, quale sorte capitale, oltre euro 13.430,00 per spese di lite ed euro 4.184,43 per accessori di legge.
2. Con atto di citazione del 23 dicembre 2020, la Procura regionale, reputava che il risarcimento corrisposto agli eredi del paziente operato configurasse un danno indiretto per l’A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino, per l’Azienda Sanitaria Locale Città di Torino e per la Regione Piemonte, causalmente riconducibile a malpractice sanitaria dell’equipe che aveva eseguito l’intervento del 27.4.2005.
Pertanto, promuoveva l’azione di responsabilità erariale nei confronti di xx - chirurghi, rispettivamente, primo e secondo operatore -, xx - medico anestesista- e xx - infermiere di sala operatoria, ipotizzando una articolata ripartizione: il 75% a carico dei tre medici, in solido tra loro (seppure a fronte di un «comportamento gravemente colposo sotto il profilo della gravissima negligenza»); il residuo 25% a carico dell’infermiere, «che avrebbe dovuto eseguire la pulizia od almeno suggerirla come assolutamente necessaria» e con la previsione che, su tale residuale quota, i tre medici avrebbero dovuto rispondere in via sussidiaria.
Il giudice di prime cure, preliminarmente, escludeva l’applicabilità della legge n. 24 del 2017.
Nel merito - sulla base della relazione medico-legale eseguita nel giudizio civile; della relazione del dott. xx, direttore S.C. dell’Unità di Urologia dell’Ospedale Sa.Gi.Bo.; nonché della Relazione dell’Ufficio medico legale presso il Ministero della salute -, riteneva che la perforazione della parete uretro-rettale del paziente, quale complicazione post-operatoria dell’intervento programmato, era stata provocata dalla condotta gravemente colposa dei due medici chirurghi, che avevano materialmente eseguito l’intervento, senza interromperlo nonostante la ridotta visibilità, causata “dalla presenza di feci semiliquide da pessima preparazione intestinale”.
Escludeva, invece, la responsabilità dell’anestesista e dell’infermiere strumentista, per l’assenza di condotte, agli stessi ascrivibili, incidenti sulla causazione del danno, sia con riguardo alla fase decisionale sul tipo di tecnica da utilizzare per trattare la patologia, sia con riguardo alla fase esecutiva.
Il Collegio riteneva, in applicazione del potere riduttivo - considerato che, trattandosi di responsabilità medica, e dunque di attività intrinsecamente pericolosa ma necessaria, una quota di rischio dovesse rimanere in capo alla struttura sanitaria; tenuto conto dell’urgenza dell’intervento e dell’assenza di precedenti disciplinari a carico dei medici; nonché della proporzionalità tra danno, rischi nell’attività e retribuzione dei convenuti -, di quantificare il danno in euro 100.000,00 e graduava le quote di responsabilità tra i due medici in base alla qualifica di primo e secondo operatore, addebitando al xx, primo operatore, il 60% ed al xx, secondo operatore, il 40% dell’onere risarcitorio.
3. Avverso la predetta sentenza, proponeva appello xx.
Riassunti i fatti di causa, l’appellante, con il primo motivo, lamentava “Insufficienza, contraddittorietà ed erroneità della motivazione anche alla luce delle evidenze probatorie in atti. Erroneità della ricostruzione in punto di fatto. Sull’assenza di colpa grave nella condotta del Dott. xx.”. La sentenza avrebbe attribuito il 40% della responsabilità all’appellante, senza che vi fosse la prova dell’effettivo apporto causale dello stesso, in qualità di secondo operatore, nella produzione del danno.
Mancherebbe, comunque, anche la prova della colpa grave del xx, considerato che la consulenza tecnica effettuata in sede civilistica nulla avrebbe detto in ordine al grado dell’elemento soggettivo.
In ogni caso, non sussisterebbe detta colpa grave.
Il trattamento del paziente, infatti, aveva subito alcune interruzioni per interposizione di gas e feci fra la sonda e la parete rettale, che, come in altre circostanze, aveva allungato i tempi dell’intervento.
Peraltro, nella fase di replanning terapeutico, l’attenzione ad escludere la parete rettale dall’area di trattamento sarebbe stata massima e documentata dalla stampa immagine di ogni fase, come rilevabile dalla cartella clinica.
In fase di consenso informato, inoltre, il paziente era stato reso edotto del rischio, seppur basso (0-1,8%), secondo le casistiche dell’epoca, di fistola rettale post-trattamento HIFU e che tale evenienza richiedesse ulteriori trattamenti generalmente conservativi (colostomia di protezione, catetere vescicale a dimora, terapia chirurgica ed endoscopica).
Una volta sviluppata la fistola retto-uretrale, la gestione clinica del caso di xx non era più stata seguita dal dott. xx, il quale, dunque, non potrebbe rispondere di condotte ad esso non attribuibili.
Secondo l’appellante, non vi sarebbe prova certa della sussistenza del nesso causale tra la condotta degli operatori e l’evento, considerato che le caratteristiche dello strumento utilizzato, che si bloccherebbe automaticamente in presenza di barriere tali da alterare la progressione degli ultrasuoni, non consentirebbero di ricondurre il danno subito dal paziente all’intervento e che esisterebbero altre possibili cause della fistola.
Inoltre, non sarebbe riconducibile alla condotta dell’appellante il danno derivato dall’improprio trattamento della complicanza, considerato che la comparsa di fistole rettali post-HIFU non determina necessariamente la rimozione della vescica, ove, nel caso, la mancata chiusura della colostomia temporanea sarebbe dipesa dal riscontro incidentale di un tumore del sigma, assolutamente non correlabile al trattamento HIFU eseguito.
In ogni caso, l’appellante era il secondo operatore e, pertanto, in applicazione del principio dell’affidamento, avrebbe potuto essere chiamato a rispondere del danno causato dal primo operatore solo nel caso in cui avesse avuto (o avrebbe dovuto avere) la percezione di un errore, commesso dall’altro membro dell’equipe, avente le caratteristiche della grossolanità e della riconoscibilità.
Il giudice di prime cure, invece, non avrebbe dato conto delle ragioni della quantificazione della responsabilità del xx, determinata in assenza di approfondimenti istruttori sia sulla sussistenza della gravità della colpa, sia sulla percentuale di imputazione del danno.
Ove, secondo l’appellante, lo standard di accertamento della colpa grave, ai fini contabili, si modellerebbe sulla scorta dello standard penale di accertamento della colpevolezza come prossimo alla certezza, piuttosto che sulla falsariga di quello civilistico, che prevede uno scrutinio meno stringente sulla base del criterio di convincimento del “più probabile che non”.
Chiedeva, quindi, l’appellante, la nomina di un collegio peritale e, comunque, la riforma della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto la condotta dello stesso connotata da colpa grave.
Con il secondo motivo, l’appellante lamentava “Insufficienza, contraddittorietà ed erroneità della motivazione anche alla luce delle evidenze probatorie in atti. Erroneità della ricostruzione in punto di diritto.
Circa l’insussistenza/incertezza del danno erariale prospettato a carico del Dott. xx in considerazione del ruolo da lui rivestito nella vicenda”, sostanzialmente ribadendo le considerazioni già espresse nel primo motivo di appello in ordine al difetto di colpa grave e alla ripartizione della responsabilità tra il primo ed il secondo operatore.
Con il terzo motivo, “Sulla richiesta del potere riduttivo”, l’appellante censurava la misura della riduzione del danno operata dal primo giudice, che non avrebbe adeguatamente considerato la peculiarità della vicenda, nonché il ruolo del xx.
Con il quarto motivo, titolato “Istanza istruttoria: esatta quantificazione del danno anche in rapporto al ruolo del Dottor xx”, l’appellante reiterava la richiesta, in via istruttoria, di affidamento ad apposita C.T.U. medico-legale per l’accertamento della congruità dell’assistenza praticata dal xx o, nella denegata ipotesi nella quale la sua condotta fosse considerata censurabile, della gravità della colpa imputabile alla condotta contestata e, in ogni caso, la verifica dell’influenza concausale che hanno avuto le condotte (attive e/o omissive) degli altri sanitari che sono intervenuti prima e dopo di lui e le carenze della Struttura.
Rassegnava, quindi, le seguenti conclusioni: “Voglia l’Eccellentissima Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale Centrale d'Appello - adita:
- In via preliminare, in accoglimento del primo motivo di appello, riformare la sentenza e accertare e dichiarare l’assenza di qualsivoglia responsabilità a carico del Dott. xx a titolo di colpa grave, e per l’effetto respingere ogni addebito mosso contro di lui a titolo di risarcimento del danno erariale cagionato per risarcire gli eredi del Sig. xx;
- Ancora in via preliminare e/o pregiudiziale, in accoglimento del secondo motivo di appello, riformare la sentenza e accertare e dichiarare l’insindacabilità della vicenda de qua da parte del giudice contabile per i motivi tutti esposti;
- In subordine, in accoglimento del terzo motivo di appello, riformare la sentenza in considerazione del ruolo di secondo operatore del Dott. xx e rideterminando la quota di responsabilità a suo carico rispetto a quella degli altri sanitari e tenendo conto delle carenze strutturali dell’Ente;
- In via ulteriormente subordinata, in accoglimento del quarto motivo di appello, riformare la sentenza con ulteriore esercizio del “potere riduttivo”, e per l'effetto ridurre ogni eventuale condanna risarcitoria in misura pari almeno all’80% del preteso danno imputato ex art. 52 R.D. n. 1214/1934, fino alla misura massima di legge.
Con assoluzione da ogni diversa ed ulteriore domanda, e con il favore delle spese del presente e del precedente grado di giudizio.
In via istruttoria si reitera la richiesta ai sensi dell’art. 15 L. 24/2017 e degli art. 55, 56, 63 d.lgs. 174/2016, si rivolge istanza all'Ecc.ma Corte di voler nominare un Collegio di consulenti tecnici.”.
4. In data 25.3.2024, la Procura generale rassegnava le proprie conclusioni sostenendo la correttezza della pronuncia della Sezione territoriale, che avrebbe motivatamente ritenuto sussistente sia il nesso causale tra la condotta dell’appellante e il danno causato al paziente, sia la connotazione gravemente colposa della ridetta condotta, sulla base degli elementi di prova in atti.
Anche ricorrendo ad un canone ermeneutico solo prudenziale, infatti, sarebbe ragionevole ritenere che, in assenza delle condizioni idonee ad eseguire l’operazione, i due chirurghi avrebbero dovuto arrestare l’intervento ed attendere le condizioni più adeguate, non potendo confidare sulla circostanza (peraltro non certa) che l’apparecchio utilizzato (la sonda) si sarebbe arrestato in automatico, in caso di difficoltà.
Riteneva inammissibile e, comunque, infondata la richiesta di ridurre ulteriormente la quota dell’addebito e da rigettare la richiesta di C.T.U.
Concludeva per il rigetto del gravame e per la condanna dell’appellante alle spese del giudizio.
5. All’udienza del 19 aprile 2024, le parti ribadivano le argomentazioni di cui agli atti ed insistevano nelle rispettive conclusioni.
La causa, quindi, passava in decisione.
Motivi della decisione
1. I motivi d’appello possono essere trattati congiuntamente, attesa la loro stretta connessione.
2. Va, preliminarmente, evidenziato che, alla fattispecie di cui è causa, non è applicabile, ratione temporis, la disciplina dettata dalla legge 8 marzo 2017, n. 24.
La citata normativa disegna compiutamente un nuovo sistema di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie ed ha, pertanto, natura sostanziale; di talché le disposizioni di natura processuale, pure in essa contenute, non possono che leggersi in stretta ed indispensabile connessione con il complesso del nuovo regime di responsabilità, non essendone ipotizzabile una applicazione avulsa dalla intera vigenza del nuovo sistema.
Pertanto, le norme processuali contenute nella nuova disciplina, ponendosi come mero corollario delle disposizioni di natura sostanziale ivi contenute, non risultano applicabili, ratione temporis, alla fattispecie qui esaminata, precedente rispetto all’entrata in vigore della anzidetta disciplina (Sez. I App. 183 del 2018; Sez. II App, sent. n. 366 del 2023, sent. n. 295 del 2023).
In tal senso, si è espressa anche la Corte di cassazione, con la sentenza n. 28994 del 2019 (confermata da Cass. Sez. III, ord. n. 12593 del 2021), che, ponendo fine al contrasto interpretativo insorto sul punto, ha statuito che, in assenza di una disposizione transitoria, deve trovare applicazione l’art. 11 delle preleggi e, pertanto, la legge Gelli-Bianco non ha efficacia retroattiva, ma disciplina unicamente fattispecie verificatesi successivamente alla sua entrata in vigore.
Per un verso, infatti, l’applicazione retroattiva del regime di responsabilità extra-contrattuale del sanitario inciderebbe sui singoli processi in corso, in maniera tale da ledere un valore fondamentale di civiltà giuridica, quale l’affidamento dei pazienti danneggiati in ordine alla natura contrattuale della responsabilità del sanitario, al momento dell’avvio dell’azione giudiziaria e, per altro verso, detta applicazione retroattiva inciderebbe sui singoli processi in corso, in maniera diversificata a seconda della fase in cui si trovano, cosicché, “in base alla formazione o meno di preclusioni allegatorie e del giudicato interno, dovrebbe o meno operare la qualificazione ex lege del titolo di responsabilità, tanto da creare disparità di trattamento non solo tra i vari giudizi, ma anche all’interno dello stesso processo, con evidenti irragionevoli riflessi sul fisiologico esercizio della giurisdizione sulla materia.”.
3. In ordine al regime probatorio, poi, diversamente da quanto sostenuto dall’appellante, anche nel caso di accertamento del danno erariale derivato da malpractice medica, ai fini della ricostruzione del nesso causale, diversamente dall’ambito penale dove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del “più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile e contabile tra le due parti contendenti (Cass. S.U. 19129 del 2023; Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 584).
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Sez. II App., sent. n. 366 del 5.12.2023, sent. n. 295 del 2023), valgono, infatti, anche nel caso di responsabilità erariale per colpa medica, le statuizioni delle Sezioni riunite di questa Corte, secondo cui ogni tentativo di applicazione analogica di principi processual-penalistici al giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti si porrebbe in palese contrasto con la precisa opzione del legislatore, che ha inteso ricondurre la disciplina del giudizio di responsabilità nell’ambito del processo civile, in ragione della natura dell’oggetto della cognizione.
La responsabilità amministrativa, diversamente da quella penale, infatti, si inserisce nell’archetipo della responsabilità patrimoniale, a prevalente funzione risarcitoria - recuperatoria (CEDU, sent. del 13.05.2014, Rigolio vs Italia), in disparte alcune ipotesi di responsabilità sanzionatoria, anch’essa patrimoniale, ma che, comunque, non partecipano del carattere afflittivo della libertà personale.
La differente natura dei valori che vengono in rilievo nei due giudizi - libertà, nel giudizio penale e patrimonio, nel giudizio amministrativo - segna l’essenziale distinzione tra i due processi, connotati da una diversa regola probatoria.
Nel processo penale, vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.; cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328); mentre, nel processo civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non” (artt. 115 e 116 c.p.c.; in questo senso: Cass. 16.10.2007, 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass., 13/07/2006, n. 295; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12); giudizio che si fonda sugli elementi di convincimento disponibili in relazione al caso concreto, la cui attendibilità va verificata sulla base dei relativi elementi di conferma.
Peraltro, l’estensione analogica di principi e disposizioni afferenti il processo penale, che concernono, in ultima analisi, la tutela processuale della libertà personale, per integrare la disciplina del processo contabile di responsabilità, che ha, al pari del processo civile, quale unico oggetto sul quale si riflettono gli effetti della decisione giudiziaria, il patrimonio del soggetto convenuto, comporta un’operazione ermeneutica che si pone anche in contrasto col precetto dell’art. 3 della Costituzione, poiché determinerebbe l’estensione di una medesima disciplina a due situazioni - tutela del patrimonio e tutela della libertà personale - sostanzialmente differenti (Corte dei Conti, Sez. I App., sent. n. 74 del 16.2.2018; sent. n. 141 del 20.6.2019).
Il giudice, nell’ambito del giudizio di responsabilità, può, quindi, porre a fondamento della decisione indizi e/o prove raccolte in giudizi celebratisi innanzi ad altri plessi giudiziari, ivi comprese le cd. prove atipiche, ovvero innominate, in quanto non espressamente previste dal codice di rito (gli scritti provenienti da terzi a contenuto testimoniale; gli atti dell’istruttoria penale o amministrativa; i verbali di prove espletate in altri giudizi; le sentenze rese in altri giudizi civili o penali, comprese le sentenze di patteggiamento; le perizie stragiudiziali; i chiarimenti resi dal CTU, le informazioni dal medesimo assunte, le risposte eccedenti il mandato e le CTU rese in altri giudizi fra le stesse o altre parti), non sussistendo nell’ordinamento processuale vigente una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova (cfr. Cass. civ. Sez. II, n. 5965 del 2004 e Cass. civ. Sez. III, n. 1954 del 2003; Corte conti, Sez. II App. n. 52 del 2014, n. 152 e n. 1101 del 2016); realtà confermata, per il giudizio di responsabilità, dall’art. 94, c. 4, c.g.c.
In base a dette prove, il giudice forma il proprio libero convincimento, ex artt. 94 e 95 c.g.c., fornendone adeguata motivazione, che evidenzi il percorso logico e giuridico che lo ha condotto alla decisione, senza che ciò implichi la necessità della dettagliata confutazione di tutte le prove e/o argomentazioni contrarie.
Con particolare riguardo, poi, al regime probatorio relativo alla sussistenza del nesso di causalità fra l’evento dannoso e la condotta colpevole (omissiva o commissiva) del medico, va precisato che, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica (Cass., sent. n. 4400 del 2004; Cass. n. 7997 del 2005, Cass. S.U., sent. n. 576/2008, Cass. n. 975 del 2009, Cass. n. 16123 del 2010 e Cass. n. 6275 del 2012).
4. Tanto premesso, va anzitutto rilevata la piena sufficienza del compendio probatorio in atti, che non consente di accogliere la richiesta di ulteriore C.T.U.
5. Nel merito, con riguardo al nesso causale tra la condotta dei chirurghi e il danno recato al paziente, la C.T.U. resa nel giudizio civile ha chiarito che “E’, tuttavia, al pari comprovato il ricorrere, nel caso di specie, di un’ampia fistola prostato-rettale, manifestatasi in pressoché immediata correlazione cronologica con la rimozione del catetere vescicale (...), ed eziopatogeneticamente da ricondurre all’ablazione indesiderata del setto prostato rettale e della parete del retto per effetto del calore generato nel corso del predetto intervento.
La fistola rettouretrale è una complicanza rara, attualmente presente in percentuali al di sotto dell’1%, o addirittura assente in alcuni lavori ancorché relativi a casistiche poco consistenti sul piano numerico. (...) Quanto al caso di specie, risulta documentato il ricorrere di una condizione idonea a compromettere, indipendentemente dalla tecnica HIFU adottata, la visione ecografica; è, in particolare, indubbio che in presenza di una pulizia locale inadeguata, descritta dall’operatore in termini di «... presenza di feci semiliquide da pessima preparazione intestinale...», l’identificazione del passaggio tra periferia della prostata e parete intestinale, atto per quanto detto indispensabile a garantire l’integrità delle strutture anatomiche contigue, risultasse difficoltoso, se non addirittura impossibile. E da ritenersi, pertanto, che, nel caso di specie, obiettivata la presenza di una «...pessima preparazione intestinale...» il trattamento HIFU dovesse essere rinviato; ne deriva la censurabilità della decisione, assunta in data 27.04.2005, di procedere comunque con l'intervento.
Alla luce di detta considerazione, tenuto conto altresì della insussistenza nel caso di specie di condizioni preesistenti atte, secondo letteratura scientifica, a compartecipare nel determinismo della lesione rettale, la insorgenza di fistola prostato-rettale non è, nel caso di specie, annoverabile tra le complicanze inevitabili ed indipendenti dall’operato medico: depongono altresì per il ricorrere di profili di censurabilità sia la bassa frequenza con la quale detta evenienza è descritta nelle casistiche disponibili in materia, sia la estensione della fistola, suggestiva ancorché non comprovante l’applicazione locale di una intensità di ultrasuoni eccessiva.”.
In linea con le conclusioni della C.T.U. resa in sede di processo civile, l’Ufficio medico legale del Ministero della salute, nel parere reso su sollecitazione della Procura regionale, ha affermato che “Per quanto sopra esposto, dopo attento esame degli atti e della vicenda clinica del sig. xx, dal momento della visita urologica dell’11.02.2005 (all. 1/B) fino a quello della chiusura distomia» dell’1.06.2009, questo Ufficio Medico Legale in Collegio medico con consulente specialista in urologia, in risposta al quesito posto, esprime il parere, che sia censurabile la condotta professionale dei sanitari che hanno effettuato l'intervento di HIFU (Hight Intensity Focused Ultrasound) del 27-04-2005, presso il Reparto di Urologia dell’Ospedale S. Gi.Bo. di Torino (cartella clinica n. (...); all. 1/A), presentando elementi, tali da poter configurare comportamenti inadeguati di imprudenza e negligenza con profili di colpa grave, per l’aver eseguito tale intervento in assenza di necessaria ed adeguata pulizia intestinale.
Infatti, mentre l'indicazione alla procedura di HIFU (Hight Intensity Focused Ultrasound) risulta essere corretta, in considerazione di quanto previsto dalle relative linee guida e comprovato dall’esame istologico del residuo prostatico, risultato esente da malattia neoplastica, per quanto concerne la complicanza (fistola retto-uretrale), occorsa in seguito allo stesso trattamento chirurgico di HIFU, pur considerata l’eventualità di tale complicanza occorsa, piuttosto rara (valutata attorno all'1%), si evidenzia che l’inadeguata preparazione intestinale, sottolineata dallo stesso operatore nell'atto operatorio del 27-04- 2005 ("trattamento viene ostacolato dalla presenza di feci semiliquide da pessima preparazione intestinale"; cartella clinica n. (...), all. 1/A), verosimilmente, abbia potuto determinare artefatti di immagine ecografica tali da non consentire una corretta esecuzione dell'atto operatorio, che, pertanto, non poteva essere completato nelle descritte condizioni di carente pulizia intestinale.”.
I pareri medico legali in atti, pertanto, riconoscono il nesso causale tra la condotta dei chirurghi e il danno riportato dal paziente ed il parere dell’UML del Ministero della salute qualifica pure come gravemente colposa la condotta dei medici che, in presenza di condizioni di visibilità compromesse, hanno proseguito l’intervento, causando il danno.
Con riguardo, poi, alla censura che vorrebbe viziata la sentenza di prime cure per non avere adeguatamente considerato il ruolo di secondo operatore dell’attuale appellante, sia in termini di nesso causale, che in termini di gravità della colpa, la giurisprudenza della Cassazione, in ordine alla responsabilità penale dei medici, ha affermato che “in tema di colpa medica, in caso di lavoro in "equipe" e, più in generale, di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta ed al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare aprioristicamente una responsabilità di gruppo (Sez. 4, n. 30626 del 12/02/2019 ud. -dep. 12/07/2019, Rv. 276792 - 01; v. altresì Sez. 4, n. 27314 del 20/04/2017 ud. - dep. 31/05/2017, Rv. 270189 - 01, secondo cui, in caso di intervento chirurgico in "equipe", il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medico, non opera in relazione alle fasi dell'intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell'affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui)” (Cass. pen., n. 49774 del 2019).
La cassazione penale ha, altresì, precisato che “per consolidata giurisprudenza nel caso di addebito colposo mosso (...) a più soggetti a titolo di cooperazione, per poter fondatamente addivenire al rimprovero della causazione omissiva dell’evento, attraverso il necessario ragionamento controfattuale, occorre distinguere tra le posizioni di ciascuno di essi onde poter verificare, in rapporto a ciascuno, quale sarebbe stato il comportamento alternativo diligente che essi avrebbero dovuto tenere ed in particolare quale sarebbe stata, in ciascun caso, la condotta "salvifica", stabilendo cioè cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta indicata per ognuno degli imputati fosse stata effettivamente tenuta anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti (Sez. 4, n. 6405 del 22/01/2019, Bonarrigo, Rv. 27557302; Sez. 4, n. 1350 del 20/11/2019, dep. 2020, L., Rv. 277953); con l’ulteriore specificazione in forza della quale, ove la condotta colposa ascritta al primo garante consista nell’omessa segnalazione, al soggetto subentrante, della situazione di rischio a lui nota ed indipendente dal suo operato, ai fini della sussistenza del nesso causale tra tale omissione e l’evento deve accertarsi che la successiva condotta negligente del garante subentrato trovi causa proprio in tale mancata segnalazione (Sez. 4, n. 1175 del 02/10/2018, dep. 2019, M., Rv. 274832).
Dovendosi altresì ricordare che non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l’abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità ai precedente garante della scelta operata (Sez. 4, n. 46824 del 26/10/2011, Castellano, Rv. 252140).” (Cass. pen. n. 44624 del 2023).
Pertanto, nell’ambito dell’attività medica e della cosiddetta “responsabilità di equipe”, cui può essere assimilata anche la situazione di più medici che si sono occupati in successione dello stesso paziente, il principio di affidamento, in forza del quale il titolare di una posizione di garanzia, come tale tenuto giuridicamente ad impedire la verificazione di un evento dannoso, può andare esente da responsabilità quando questo possa ricondursi alla condotta esclusiva di altri, contitolari di una posizione di garanzia, sulla correttezza del cui operato il primo abbia fatto legittimo affidamento, consente di confinare l’obbligo di diligenza del singolo sanitario entro limiti compatibili con l’esigenza del carattere personale della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 della Costituzione, perché il riconoscimento della responsabilità per l’eventuale errore altrui non è illimitato e impone, per essere affermato, non solo l’accertamento della valenza concausale del concreto comportamento attivo o omissivo tenuto rispetto al verificarsi dell’evento, ma anche la rimproverabilità di tale comportamento sul piano soggettivo, secondo i principi in tema di colpa (Cass. pen., sent. n. 30626 del 2019; n. 16094 del 2022)
Tuttavia, si è anche affermato che, in tema di cooperazione colposa, non può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità (cfr. Cass. pen., n. 24895 del 2021; n. 39727 del 2019, in materia di dissenso dall’operato del collega, da parte del sanitario in possesso di cognizioni tecniche per cogliere l’errore di quello, con richiamo in motivazione a Cass. n. 7667 del 2018; n. 43828 del 2015, n. 24895 del 2021).
In caso di responsabilità professionale, configurata a titolo di cooperazione colposa multidisciplinare, con specifico riferimento all'attività medico-sanitaria svolta in equipe e, più in generale, all’attività medico-chirurgica, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare aprioristicamente una responsabilità di gruppo, in particolare quando i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti tra loro, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione degli spazi di competenza altrui (Cass. n. 49774 del 2019).
L’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali (cfr. Cass. pen. n. 16094 del 2022; n. 53315 del 12016), sebbene tale obbligo di vigilanza non possa operare rispetto a quelle fasi dell’intervento, nelle quali i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento, per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia, in quel momento, la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica. (cfr. Cass., n. 27314 del 2017).
Quindi, l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l'ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio.
Ha, peraltro, chiarito la Cassazione, nella sentenza n. 16094 del 2022, che “Proprio nell’ambito di un’attività medica in cui cooperano più soggetti, assume rilievo il tema del dissenso manifestato da parte dei soggetti coinvolti.
Si è affermato che in tema di colpa medica, deve escludersi che possa invocare esonero da responsabilità il chirurgo che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano, pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l'erroneità, ed avendo pertanto il dovere di valutarla e, se del caso, contrastarla. (...) Ed inoltre che il medico componente della equipe chirurgica in posizione di secondo operatore che non condivide le scelte del primario adottate nel corso dell’intervento operatorio, ha l’obbligo, per esimersi da responsabilità, di manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano necessarie particolari forme di esternazione dello stesso (Sez. 3, n. 43828 del 29/09/2015, Cavone, Rv. 26526001- In motivazione, la Corte ha sottolineato che la valutazione relativa alla idoneità della forma di dissenso impiegata ad escludere la responsabilità penale deve essere compiuta avendo riguardo al contesto in cui questa opinione è stata resa manifesta, dovendo necessariamente distinguersi tra la situazione in cui si procede a scelte puramente terapeutiche a quella di tipo operatorio).”.
Ebbene, nel caso, non vi sono elementi in atti utili a comprovare che l’attuale appellante, secondo operatore, non avesse contezza delle difficoltà che la carente preparazione pre-operatoria del paziente aveva causato nel campo visivo oggetto dell’intervento.
Anzi, per esplicita ammissione dello stesso appellante, l’intervento, proprio per tali evidenti difficoltà, era stato interrotto più volte.
Sulla base degli enunciati principi, a fronte della esatta, pacifica, consapevolezza della mancanza di visuale, era precipuo compito del chirurgo, secondo operatore, evidenziare al primo operatore la necessità di interrompere l’intervento; mentre, invece, non risulta che l’appellante abbia in alcun modo espresso al primo operatore, che incautamente continuava a procedere, detta necessità.
Sicché, è palese la sussistenza del nesso causale anche tra la condotta del secondo operatore e il danno causato al paziente.
Quanto al grado della colpa, la gravità è espressamente e motivatamente affermata nel parere reso dall’UML del Ministero della salute, che ha ben chiarito come, in assenza di necessaria ed adeguata pulizia intestinale, sono da ritenersi comportamenti “inadeguati di imprudenza e negligenza con profili di colpa grave” quelli degli operatori che hanno proceduto comunque all’intervento.
La Sezione territoriale, quindi, ha fatto corretta applicazione dei riportati principi, ritenendo sussistente il nesso causale e la colpa grave dell’appellante e, pertanto, per tali profili la sentenza deve essere confermata.
Peraltro, effettivamente, il Collegio ritiene che il giudice di prime cure non abbia adeguatamente considerato il ruolo di secondo operatore rivestito dall’appellante in occasione dell’intervento chirurgico in discussione, che non consente di attribuire allo stesso più del 20% della responsabilità del danno.
Infatti, se è vero che l’appellante, in qualità di secondo operatore, avrebbe potuto e dovuto rappresentare, al primo operatore, la necessità di interrompere l’intervento, a fronte del pessimo grado di pulizia intestinale del paziente e non lo ha fatto; è pure vero che, per quanto risulta dagli atti, detta causa impeditiva della prosecuzione dell’intervento era comunque nota anche al primo operatore che, poi, ha materialmente commesso l’errore esecutivo che ha causato la fistola.
In ordine, infine, alla quantificazione del ridetto nocumento, considerato pure che, in atti, non vi sono evidenze di errori nel trattamento delle complicanze, che abbiano aumentato la consistenza del danno al paziente direttamente derivato dall’intervento, il Collegio ritiene che il giudice di prime cure abbia già fatto congruo uso del potere riduttivo e, pertanto, non possa ulteriormente ridursi la misura del nocumento, correttamente misurato in euro 100.000,00, se non nel ritenerlo già comprensivo di rivalutazione monetaria.
6. In conclusione, quindi, in parziale accoglimento dell’appello, xx va condannato al pagamento, in favore della Regione Piemonte, del 20% del complessivo danno, quantificato in euro 100.000,00, ossia di euro 20.000,00, importo da intendersi già comprensivo di rivalutazione monetaria, da incrementarsi degli interessi legali dalla data di deposito della presente sentenza sino all’effettivo soddisfo.
Ai sensi dell’art. 31, c. 3, c.g.c., le spese sono compensate.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando, accoglie parzialmente l’appello e, per l’effetto, condanna xx al pagamento, in favore della Regione Piemonte, di euro 20.000,00; importo da intendersi già comprensivo di rivalutazione monetaria, da incrementarsi degli interessi legali dalla data di deposito della presente sentenza sino all’effettivo soddisfo.
Spese compensate.