Nel caso in esame, la Cassazione rigetta la domanda di rifusione del danno contestato al professionista che non ha adempiuto regolarmente ai suoi doveri.
L'avvocato non risponde di responsabilità professionale nel momento in cui il cliente ha ricevuto la stessa condanna anche con l'assistenza di un altro difensore. Nel caso di specie, il ricorrente veniva condannato a 7 anni per violenza sessuale verso una minorenne. La parte lamentava che l'esito del processo fosse stato determinato dalla negligenza...
Svolgimento del processo
A.A. ha agito in giudizio nei confronti dell'avvocato B.B. per ottenere il risarcimento dei danni a suo dire subiti in conseguenza del negligente adempimento da parte di quest'ultimo alle obbligazioni professionali derivanti da un incarico di patrocinio in un giudizio penale promosso nei suoi confronti con l'imputazione di violenza carnale nei confronti di una minorenne. Il convenuto, nel contestare la domanda proposta nei suoi confronti, ha chiamato in garanzia la propria assicuratrice della responsabilità civile professionale (Compagnia C.C.'s of London).
La domanda principale è stata rigettata dal Tribunale di Bergamo.
La Corte d'appello di Brescia ha confermato la decisione di primo grado.
Ricorre A.A., sulla base di due motivi.
Resistono, con distinti controricorsi, il B.B. e C.C.'s Insurance Company S.A., quale assuntrice del rischio derivante dal certificato assicurativo inerente la posizione del convenuto.
È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380-bis. 1 c.p.c.
Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 380-bis. 1 c.p.c.
Il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza decisoria nei sessanta giorni dalla data della Camera di Consiglio.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c. (per mancato riconoscimento del nesso di causalità tra la condotta negligente del difensore e danno ingiusto); 1176 comma 2 c.c. e 2236 c.c. (inadeguata valutazione della negligenza professionale e della colpa grave del difensore con riferimento al mandato ricevuto) in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.".
Il ricorrente deduce che "Le sentenze di primo e di secondo grado ... ... hanno ritenuto certamente raggiunta la prova della negligenza professionale dell'Avv. B.B., nell'espletamento del mandato difensivo ricevuto dal Sig. A.A. ... ... ma entrambe hanno ritenuto, con motivazioni insufficienti, deboli, contraddittorie e non puntuali rispetto al thema deciden-dum, che non sia stata fornita la prova del nesso causale tra la condotta colposa ed il danno cagionato all'imputato, ritenendo altresì che tale prova avrebbe potuto essere fornita mediante il deposito dei verbali di udienza del processo penale di secondo grado svolto davanti alla Corte d'Appello di Brescia, Sezione Penale".
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
1.1 Si premette che la sentenza impugnata è, in diritto, conforme al consolidato indirizzo di questa Corte (che il ricorso non offre ragioni idonee ad indurre a rimeditare), secondo il quale "in tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa" (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25112 del 24/10/2017, Rv. 646451-01; Sez. 3, Ordinanza n. 8516 del 06/05/2020, Rv. 657777-01).
1.2 Nella specie, l'attore e ricorrente A.A. imputa all'avvocato B.B., che lo ha difeso esclusivamente nel primo grado del giudizio penale, a titolo di negligenza professionale, di non avergli consigliato di comparire al processo per rendere le proprie dichiarazioni e fornire la propria versione dei fatti, nonché il mancato tempestivo deposito della lista dei testi e la mancata partecipazione personale all'udienza di discussione, in cui il difensore nominato si sarebbe fatto sostituire da una collega priva delle informazioni e degli strumenti necessari per poter approntare un'adeguata difesa: tali omissioni avrebbero determinato la sua condanna a sette anni di reclusione, sia a causa della mancata prospettazione di una versione dei fatti alternativa a quella indicata dalla vittima, ritenuta pienamente credibile, sia a causa della mancata escussione dei testi a difesa.
È, peraltro, pacifico che, a seguito del giudizio di appello, al quale l'imputato aveva avuto modo di partecipare (assistito da diverso difensore) ed all'esito del quale era stata confermata la condanna emessa in primo grado, la Corte di Cassazione penale ha annullato tale condanna e disposto la rinnovazione del dibattimento, che ha avuto quindi luogo, in sede di rinvio, anche con l'escussione dei testi della difesa. All'esito del giudizio di rinvio, l'attore è stato invero nuovamente condannato, sia pure ad una pena leggermente inferiore (sei anni e mezzo di reclusione, anziché sette).
1.3 Secondo la corte territoriale, la negligenza professionale del legale non può dirsi aver determinato il danno dedotto dall'attore, essendo mancata la prova che, se anche la prestazione professionale, nell'ambito del giudizio penale di primo grado, fosse stata regolarmente adempiuta dal convenuto, l'esito finale del relativo processo sarebbe stato più favorevole all'attore imputato, in base ad una valutazione prognostica fondata sul canone c.d. del "più probabile che non".
In particolare, premesso che l'attore non aveva prodotto i verbali delle deposizioni dei testi escussi nel giudizio penale di rinvio, ha osservato - sulla base della sentenza emessa all'esito di tale ultimo giudizio - che erano state confermate le valutazioni, già operate dal giudice di primo grado, di piena credibilità della persona offesa dal reato, della sussistenza di molteplici elementi esterni di riscontro alle dichiarazioni di quest'ultima, nonché della mancata offerta di versioni alternative da parte dell'imputato, rimasto del tutto "silente" anche nel primo giudizio di appello penale, quando non era più difeso dal legale convenuto, ed erano state, di converso, ritenute inattendibili, benché non palesemente dolose, le testimonianze a difesa dell'imputato, in quanto "contrastanti tra loro" e prospettanti "un comportamento dell'imputato difficilmente plausibile".
La corte territoriale ha precisato, altresì, che, benché fosse stato dato atto della difficoltà, da parte dei testimoni, di ricordare esattamente fatti avvenuti cinque anni prima, anche ad ammettere la versione sostenuta dallo stesso imputato e che i testi avrebbero dovuto confermare, secondo la quale egli la sera dei fatti si trovava in altro luogo, a casa di amici, ciò non avrebbe potuto costituire un alibi decisivo, perché la circostanza non era incompatibile con la possibilità che lo stesso avesse successivamente raggiunto il luogo dove si era consumato il delitto.
1.4 In definitiva, la corte d'appello, ha ritenuto non sussistere sufficiente prova che l'esito del processo penale sarebbe stato diverso, anche se il difensore dell'attore avesse svolto la sua prestazione in modo diligente (e fossero stati, quindi, sentiti in primo grado i testi in favore di quest'ultimo ed egli fosse comparso all'udienza, unitamente allo stesso difensore, che si era invece fatto sostituire).
Tale accertamento di fatto è sostenuto da adeguata motivazione, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.
1.5 Tanto premesso, in primo luogo le censure di violazione degli artt. 1176 e 2236 c.c., con le quali si deduce "inadeguata valutazione della negligenza professionale e della colpa grave del difensore con riferimento al mandato ricevuto" sono palesemente inammissibili, in quanto la corte d'appello non ha affatto escluso la condotta inadempiente del convenuto sotto tale profilo: al contrario, ha ammesso l'inadempimento dell'avvocato B.B. alle obbligazioni derivanti dal rapporto professionale instaurato con l'attore, rigettando la domanda risarcitoria di quest'ultimo esclusivamente per l'insufficiente prova del nesso di causa tra l'inadempimento ed il danno dedotto come conseguenza dello stesso.
1.6 Le ulteriori censure, con le quali si contesta l'insufficienza della motivazione in ordine alla mancanza di adeguata prova del nesso causale tra la condotta colposa del professionista ed il danno dedotto, si risolvono, nella sostanza, in una inammissibile contestazione di un accertamento di fatto, fondato sulla prudente valutazione delle prove e sostenuto da adeguata motivazione, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come già visto, nonché nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle stesse prove, il che non è consentito nel giudizio di legittimità.
1.7 Per completezza di esposizione, può aggiungersi che risultano del tutto inconferenti, anzi appaiono addirittura per certi versi contraddittorie, anche le argomentazioni contenute nel motivo di ricorso in esame, con riguardo alla strategia processuale adottata dal professionista convenuto e, in particolare, quelle relative alla mancata opzione per eventuali riti alternativi, che avrebbero potuto comportare una riduzione di pena: come del resto sottolineato dalla corte d'appello, oltre a trattarsi di una questione sollevata inammissibilmente dall'attore per la prima volta nel giudizio di secondo grado, le censure, sul punto, risultano del tutto incompatibili, sul piano logico, con la prospettazione difensiva dello stesso attore, fondata sulla dedotta possibilità di dimostrare la propria totale estraneità ai fatti che gli erano imputati, sulla base delle testimonianze a conferma del dedotto alibi, il che evidentemente non avrebbe potuto avvenire in caso di scelta di uno dei richiamati riti alternativi.
1.8 Altrettanto è a dirsi in relazione alle questioni sulla dedotta "perdita di chance": sul punto è sufficiente osservare che, come rilevato dalla corte d'appello, l'imputato ha, comunque, avuto la possibilità, nel corso del giudizio penale, sia di essere sentito in dibattimento e di fornire la propria versione dei fatti, sia di far escutere i testi a discarico, a sostegno del proprio alibi.
È stato però escluso in radice - in base ad un accertamento di fatto non contestabile nella presente sede, come già visto - che, se anche ciò fosse avvenuto tempestivamente, nel corso del giudizio di primo grado, vi sarebbe stata una ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito del processo penale (anche solo con riguardo alla commisurazione della pena finale).
2. Con il secondo motivo si denunzia "Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. (falsa testimonianza Avv. D.D.; querela presentata dal Sig. A.A. in data 3.6.2019 e allegata in appello)".
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, in violazione dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., il ricorrente non indica in quale fase processuale, in quali atti ed in quali esatti termini, avesse prospettato la questione nel corso del giudizio di merito, mediante il richiamo di detti atti, limitandosi ad affermare di aver prodotto una denuncia-querela sporta nei confronti dell'avvocato D.D., peraltro solo nel corso del giudizio di secondo grado.
Soprattutto, il ricorso non è sufficientemente specifico nel precisare per quale ragione tale denuncia-querela (l'esito della quale neanche è allegato) avrebbe dovuto eventualmente sostenere la sua prospettazione, con riguardo al nesso di causa tra l'inadempimento professionale dell'avvocato B.B. e il danno di cui era stato chiesto il risarcimento.
Anzi, proprio sulla base dell'esposizione a sostegno del motivo di ricorso in esame, parrebbe trattarsi di circostanze che potrebbero avere incidenza, al più, solo con riguardo all'accertamento della negligenza professionale del convenuto, questione della quale si è però già evidenziata l'assoluta irrilevanza ai fini dell'esito del presente giudizio, per essere stata rigettata la domanda esclusivamente sulla base dell'esclusione del nesso di causa tra la negligenza professionale del convenuto ed il danno dedotto dall'attore.
3. Il ricorso è rigettato.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.
Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione) di cui all'art. 13, co. 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
La Corte:
- rigetta il ricorso;
- condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, liquidandole, per ciascuno di essi, in complessivi Euro 7.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonché spese generali ed accessori di legge.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione) di cui all'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.