Il conseguimento della pensione di anzianità non è una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, posto che l'incompatibilità tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca esclusivamente sul diverso piano previdenziale.
La Corte d'Appello di Roma condannava la società datrice Alfa al pagamento delle retribuzioni maturate da Tizio da settembre 2014 sino a maggio 2019. Nelle sue argomentazioni, la Corte premetteva che Tizio aveva visto cedere il suo rapporto di lavoro alla società Beta nell'ambito di una cessione di ramo d'azienda e che, con...
Svolgimento del processo
1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato la T. s.p.a. al pagamento, in favore di M.R., “delle retribuzioni maturate dal 12 settembre 2014 sino a maggio 2019, oltre interessi e rivalutazione monetaria come per legge”;
2. la Corte, in estrema sintesi e per quanto qui ancora rileva, ha premesso che il dott. R., già dipendente T., nell’aprile 2003 aveva visto cedere il suo rapporto di lavoro alla società H. CDS nell’ambito di una cessione di ramo d’azienda e che, con sentenza n. 13617 del 2014, questa Corte “aveva accertato la nullità dell’anzidetta cessione di ramo d’azienda e disposto il ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro con T.”;
3. circa “l’intervenuto pensionamento del ricorrente per anzianità dal mese di luglio 2006”, la Corte ha ritenuto trattarsi di “circostanza che andava fatta valere nel giudizio definito con tale sentenza, quale supposta circostanza impeditiva della declaratoria di ripristino del rapporto di lavoro”, per cui “non avendo la T. a ciò provveduto, la statuizione della S.C. non può ritenersi priva della sua forza di giudicato per un fatto verificatosi in data di gran lunga antecedente a quella della pronuncia”; “in ogni caso – prosegue la Corte - va rammentato che a nulla rileva il conseguimento, da parte del R., della pensione di anzianità”, atteso che “l’accesso al trattamento pensionistico (cui il lavoratore può essere indotto per varie ragioni, quali, ad esempio, il non gradimento del trattamento riservatogli dal cessionario o le minori garanzie dal medesimo offerte sulla progressione della carriera ecc.) non vale, di per sé, come dichiarazione di rinuncia al ripristino del rapporto con il cedente, trattandosi di vicenda estranea al rapporto con l’originario datore di lavoro e non espressiva della sicura volontà del prestatore di lavoro di voler porre definitivamente fine ad ogni attività lavorativa (anche in favore del cedente), collocandosi in pensione”;
4. per quanto riguarda “la richiesta di pagamento delle retribuzioni, medio tempore maturate,” la stessa – secondo la Corte – “può essere accolta soltanto a decorrere dalla lettera di messa in mora del settembre 2014”, in dichiarata conformità a Cass. n. 5788 del 2023; infatti, “il lavoratore ceduto, che vede giudizialmente ripristinato il rapporto di lavoro con il cedente, non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione e può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell'ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, detratto l'eventuale aliunde perceptum, soltanto a partire dal momento in cui abbia provveduto a costituire in mora il datore di lavoro cedente ex art. 1217 c.c.”;
5. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso in via principale la società con due motivi, cui ha resistito l’intimato con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a due motivi; a quest’ultimo ha resistito T. Spa con controricorso;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Motivi della decisione
1. i motivi del ricorso del ricorso principale della società possono essere sintetizzati come segue;
1.1. col primo si denuncia la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 416 c.p.c.”, criticando la Corte territoriale per avere ritenuto la “decadenza di T. in ordine all’eccezione concernente l’efficacia ostativa dell’avvenuto pensionamento del sig. R.”, nonostante la società non avesse avuto conoscenza di detto pensionamento;
1.2. il secondo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 22, c. 1, lett. c), L. 30.4.1969, n. 153 e dell’art. 10, c. 6, D.lgs. 30.12.1992, n. 503 nonché dell’art. 18 della L. n. 300/1970 in relazione all’ art. 360 n. 3 c.p.c.”; si sostiene che, in base alla richiamata disciplina, la “richiesta di pensione di anzianità è incompatibile con la continuazione del rapporto di lavoro subordinato (con chiunque esso sia instaurato e quindi anche con T.)”; non si tratterebbe di una “questione di volontà […] né di interpretazione del significato negoziale di un comportamento”, come invece ritenuto dalla Corte territoriale, perché “la materia pensionistica non è materia disponibile dalle parti”;
2. i motivi del ricorso incidentale del lavoratore, volti a censurare la statuizione che ha negato il pagamento di somme, a titolo di risarcimento del danno o, alternativamente, di retribuzioni, per l’arco temporale dal gennaio 2006 all’agosto 2014, possono essere sintetizzati come segue;
2.1. col primo motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; si deduce che sarebbe illogica e/o contradditoria la motivazione secondo la quale la Corte d’appello ha ritenuto di accogliere le domande del R. «soltanto a decorre dalla lettera di messa in mora del settembre 2014», ossia successiva all’accoglimento in cassazione, “non dando atto che, fin dall’introduzione del giudizio presupposto nell’anno 2005 e anche a seguito del collocamento in quiescenza, il sig. R. «aveva mantenuto fermo il proposito di rientrare in servizio presso la T.»”;
2.2. con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218 e 1219 c.c., criticando l’orientamento assunto da questa Corte a partire da Cass. n. 5788 del 2023, al quale la Corte milanese ha prestato condivisione;
3. i due motivi del ricorso principale, i quali possono essere esaminati congiuntamente in quanto attinenti alla incidenza del trattamento di quiescenza sul mancato ripristino del rapporto di lavoro in caso di dichiarata illegittimità della cessione di un ramo d’azienda, non possono trovare accoglimento per le ragioni già esposte da questa Corte in controversie analoghe (da ultimo: Cass. n. 2428 del 2024);
è stato costantemente affermato che il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, atteso che la disciplina legale dell'incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale (determinando la sospensione dell'erogazione della prestazione pensionistica o il diritto dell’ente previdenziale alla ripetizione delle somme erogate), ma non comporta l'invalidità del rapporto di lavoro;
infatti, il diritto a pensione discende dal verificarsi dei requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge e non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro (v. Cass. n. 16136 del 2018; 16350 del 2017; n. 14634 del 2016; n. 16143 del 2014; n. 6906 del 2009; S.U. n. 12194 del 2002);
tale principio è stato ribadito con riferimento ad ipotesi di illegittima cessione del rapporto di lavoro, escludendosi che la domanda e la percezione della pensione di anzianità comportasse di per sé la risoluzione del rapporto di lavoro ripristinato in iure con il cedente (v. Cass. n. 8949 del 2020; Cass. n. 28824 del 2022; Cass. n. 32522 del 2023; Cass. n. 35470 del 2023);
né l’assunto si pone in contrasto con quanto ritenuto da Cass. n. 12089 del 2023 che, in continuità con Cass. n. 41013 del 2021 e n. 1855 del 2022, ha confermato una sentenza che aveva “attribuito alla condotta del lavoratore, nel formulare domanda di pensione di anzianità, il significato negoziale di volontà risolutiva del rapporto di lavoro con T.”, in ragione di una “valutazione operata dai giudici di appello sulla manifestazione di volontà risolutiva anche del rapporto di lavoro con T.”, frutto di un “accertamento in fatto non censurabile” in sede di legittimità;
4. il primo motivo del ricorso incidentale del lavoratore è infondato;
con pronunce a Sezioni unite di questa Corte viene sancito che l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza nel caso di "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", di "motivazione apparente", di "contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili", di "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile"; si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016; in precedenza Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);
il che non ricorre nella specie in quanto è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per ritenere accoglibili le domande del R. solo limitatamente al periodo successivo alla sentenza di Cass. n. 13617 del 2014, mentre non è contraddittorio ritenere che il persistente “proposito di rientrare in servizio presso T.” sia cosa diversa da un formale atto di costituzione in mora;
5. parimenti infondato il secondo motivo del ricorso incidentale alla luce della ribadita giurisprudenza di questa Corte (Cass. nn. 5788, 5796, 6902, 7869 del 2023, cui, adde, anche in replica ad ulteriori argomentazioni difensive, Cass. n. 22035 e 22041 del 2023, e, ancor più di recente, Cass. n. 35470 del 2023), cui si è dichiaratamente conformata la Corte d’Appello;
rispetto a tale giurisprudenza di legittimità la parte ricorrente, anche in memoria, non introduce elementi che inducano il Collegio a mutare detto orientamento (cfr. art. 360 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.), ma si limita a ribadire la richiesta di rimessione in pubblica udienza o alle sezioni unite civili, già precedentemente disattesa, per cui è sufficiente rinviare integralmente a detti precedenti ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. ed in ossequio alla funzione nomofilattica della Corte regolatrice;
6. in conclusione entrambi i ricorsi devono essere respinti, con compensazione delle spese in considerazione della reciproca soccombenza; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, principale e incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso principale e incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.