Svolgimento del processo
1. - Nei confronti dell’avvocato M.B. è stato avviato un procedimento disciplinare per essere lo stesso «venuto meno ai doveri di cui agli artt. 35, comma 3, e 36, comma 1, del codice deontologico forense»: ciò in quanto «in qualità di avvocato stabilito» aveva «adottato ed utilizzato in qualsiasi occasione il titolo italiano in forma abbreviata («avv.» e «avv.S.»), titolo italiano non in suo possesso, così generando confusione con il titolo professionale dello Stato membro ospitante».
Il Consiglio distrettuale di disciplina di Milano ha applicato al predetto professionista la sanzione della sospensione per mesi due dall'esercizio della professione.
2. ¿ Investito del gravame, il Consiglio nazionale forense lo ha dichiarato inammissibile. Ha osservato che il ricorso era stato sottoscritto in proprio dall'avvocato M.B., onde all'epoca del deposito dell'atto di impugnazione l'incolpato risultava privo dello ius postulandi, in quanto iscritto presso la sezione speciale dell'albo degli avvocati stabiliti.
3. ¿ Contro la pronuncia del Consiglio nazionale forense l’avvocato M.B. ha proposto un ricorso per cassazione articolato in tre motivi; col detto ricorso è stata formulata istanza di sospensiva.
Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo l'accoglimento del primo motivo di ricorso.
Motivi della decisione
1. ¿ Col primo motivo viene denunciata la violazione dell’art. 56 l. n. 247/2012. Si deduce, in sintesi, che l’illecito deontologico si sarebbe prescritto prima del deposito della sentenza del Consiglio nazionale forense, avvenuto in data 8 novembre 2023.
Il secondo motivo prospetta la violazione del d.lgs. n. 149/2022 e dell’art. 182 c.p.c.. Si richiama il testo di tale articolo, nella versione modificata dal d.lgs. n. 149 del 2022, osservandosi come il legislatore abbia «ripensato, in senso estensivo, le ipotesi di sanatoria previste dal codice di rito in tema di difetto di ius postulandi». Si assume inoltre non sussistere l’obbligo da parte dell'avvocato stabilito di agire di intesa con un professionista abilitato a esercitare la professione col titolo di avvocato né il dovere, in capo a detto soggetto, di essere provvisto di alcuna procura alle liti quando agisce in proprio davanti al Consiglio nazionale forense.
Col terzo mezzo si lamenta la violazione della l. n. 241/1990. Si deduce che il potere sanzionatorio non sarebbe stato esercitato nel rispetto dei criteri di logicità e congruità.
2. ¿ Il secondo motivo, che investe una questione processuale di portata assorbente, è infondato.
2.1. ¿ L’assunto del ricorrente, secondo cui l’avvocato stabilito avrebbe il potere di difendersi in proprio avanti al Consiglio nazionale forense, in sede di giudizio disciplinare, senza necessità di «agire di intesa con un professionista abilitato», e di officiare altro avvocato iscritto all’albo, non può essere condiviso. Esso non trova fondamento nell’art. 86 c.p.c., secondo cui «[l]a parte o la persona che la rappresenta o assiste, quando ha la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore».
2.2. ¿ Queste Sezioni Unite hanno precisato, da tempo, in tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati, che la norma generale dell'art. 86 c.p.c. va correlata con le norme speciali previste dall'ordinamento forense e, in particolare, con gli artt. 1, 7 e 33 del r.d.l. n. 1578 del 1933, n. 1578 e con l'art. 60 del r.d. n. 37 del 1934, di talché non è consentito a chiunque svolgere difese ed assumere patrocinio davanti al Consiglio nazionale forense, bensì soltanto ai soggetti cui la legge professionale attribuisce il relativo potere in relazione alle qualità personali che abbiano giustificato in precedenza l'iscrizione nell'albo; soltanto eccezionalmente il ricorso al CNF è consentito al professionista interessato non iscritto all'albo speciale, a condizione, tuttavia, che egli sia iscritto nell'albo ordinario, con (eventuale) assistenza di un avvocato iscritto nell'albo speciale (così: Cass. Sez. U. 17 dicembre 2003, n. 19358; Cass. Sez. U. 12 marzo 2003, n. 3598; Cass. Sez. U. 3 agosto 2000, n. 528; Cass. Sez. U. 28 luglio 1998, n. 7399; Cass. Sez. U. 12 gennaio 1998, n. 160).
In sintesi, l’art. 86 c.p.c. è disposizione a carattere generale che non è derogata, in assenza di una norma espressa, dalla disciplina speciale dell'ordinamento forense, ma deve essere con questa coordinata, perché anche nell'ordinamento forense (e, segnatamente, nei procedimenti disciplinari dal medesimo governati) si applica il principio della difesa tecnica, in forza del quale la difesa personale postula il possesso della indicata qualità necessaria. Ai sensi dell'art. 1, primo comma, r.d.l. n. 1578/1933 1578, nessuno può poi assumere davanti a qualsiasi giurisdizione speciale il titolo né esercitare le funzioni di avvocato, se non è iscritto nell'albo professionale e, ai sensi dell'art. 7, primo comma, dello stesso regio decreto-legge la rappresentanza, la difesa e l'assistenza in giudizio possono essere assunte soltanto da un avvocato: il combinato disposto delle norme sopra citate implica che, per difendersi personalmente nel procedimento disciplinare davanti al Consiglio nazionale forense, l'incolpato deve avere la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito (art. 86 c.p.c), e cioè che deve essere iscritto nell'albo professionale degli avvocati (artt. 1 e 7 r.d.l. n. 1578 del 1933) (cfr. Cass. Sez. U. 12 marzo 2003, n. 3598, in motivazione). Non è invece necessario il patrocinio di un avvocato iscritto all’albo speciale (come previsto dall’art. 7 cit.), posto che l’art. 60, quarto comma, del r.d. n. 37 del 1934 prevede la mera possibilità che il professionista interessato si faccia assistere, nel procedimento dinanzi al CNF, da un avvocato iscritto nell'albo speciale di cui all'art. 33 del r.d.l. n. 1587 del 1933, munito di mandato speciale: l’art. 60, quarto comma cit. regola, dunque, una mera facoltà di assistenza tecnica, senza incidere sullo ius postulandi, che resta affidato a chi abbia la qualità di avvocato iscritto all’albo.
2.3. ¿ Ciò detto, dispone l’art. 8 d.lgs. n. 96/2001, al primo comma: «Nell'esercizio delle attività relative alla rappresentanza, assistenza e difesa nei giudizi civili, penali ed amministrativi, nonché nei procedimenti disciplinari nei quali è necessaria la nomina di un difensore, l'avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l'autorità adita o procedente e nei confronti della medesima è responsabile dell'osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori». Il secondo comma dello stesso articolo precisa, poi: «L'intesa di cui al comma 1 deve risultare da scrittura privata autenticata o da dichiarazione resa da entrambi gli avvocati al giudice adito o all'autorità procedente, anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa dell'assistito».
L’avvocato stabilito, e cioè il cittadino di uno degli Stati membri dell'Unione europea che esercita stabilmente in Italia la professione di avvocato con il titolo professionale di origine e che è iscritto nella sezione speciale dell'albo degli avvocati [art. 3, lett. d), d.lgs. n. 96 del 2001], non ha, dunque, nel nostro ordinamento, un autonomo ius postulandi: egli può svolgere attività di rappresentanza, assistenza e difesa solo se agisca «di intesa con un professionista abilitato»: intesa che deve essere documentata nei termini sopra indicati. Mancando, in assenza dell’intesa, della qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, il detto soggetto non può nemmeno stare in giudizio senza il ministero di altro difensore.
2.4. ¿ Il ricorrente ha invocato l’applicazione dell’art. 182 c.p.c., il quale al secondo comma, contempla, oggi, a seguito della modifica apportata dall’art. 3, comma 13, d.lgs. n. 149/2022, la sanatoria del vizio della costituzione della parte determinato dalla mancanza di procura ad litem.
Va nondimeno osservato che, giusta l’art. 35, comma 1, d.lgs. cit., come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. n. 197 del 2022, la nuova disciplina si applica ai soli procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023: ebbene, il giudizio promosso avanti al Consiglio nazionale forense, che qui viene in esame, risale al 24 dicembre 2019. Con riferimento al regime anteriore all’indicata modifica legislativa la sanatoria in questione doveva, del resto, ritenersi preclusa: occorre infatti dar continuità al principio, enunciato da queste Sezioni Unite (Cass. Sez. U. 21 dicembre 2022, n. 37434), per cui l’art. 182, comma 2, c.p.c., nella formulazione introdotta dall'art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009, non consente di «sanare» l'inesistenza o la mancanza in atti della procura alla lite.
3. ¿ Il primo e il terzo motivo sono inammissibili.
3.1. ¿ Essi hanno ad oggetto questioni di cui la sentenza impugnata non si è occupata. La pronuncia in questione non ha affrontato il merito della vicenda portata al suo esame, essendosi limitata ¿ come si è visto ¿ a dichiarare l’inammissibilità del ricorso per l’assenza dello ius postulandi in capo all’avvocato M.B.. Ora, la ravvisata mancata aderenza delle censure al decisum destinano queste alla statuizione di inammissibilità (nel senso che la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesta dall'art. 366 n. 4 c.p.c., con conseguente inammissibilità del ricorso: Cass. 9 aprile 2024, n. 9450; Cass. 3 luglio 2020, n. 13735; Cass. 7 settembre 2017, n. 20910; Cass. 7 novembre 2005, n. 21490).
3.2. ¿ Non varrebbe opporre, con riguardo al primo mezzo, che la prescrizione dell'azione disciplinare nei confronti degli avvocati è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo, sempre che non comporti indagini fattuali che sarebbero precluse in sede di legittimità (Cass. Sez. U. 28 dicembre 2023, n. 36204). Da tale principio discende, per certo, che la detta prescrizione, quando non risulti necessario far luogo ai nominati accertamenti, sia deducibile quale motivo di ricorso per cassazione se pure il ricorrente non l’abbia eccepita avanti al CNF. L’ammissibilità di un tale mezzo di censura è tuttavia precluso laddove, come nel caso in esame, la sanzione disciplinare sia divenuta definitiva per l’irrituale proposizione dell’impugnazione del provvedimento disciplinare avanti al Consiglio nazionale forense. L’irretrattabilità della sanzione ¿ consacrata dalla positiva verifica, in questa sede, della legittimità del provvedimento in rito pronunciato dal CNF ¿ rende non più utilmente spendibile la questione sulla prescrizione, pena la vanificazione della statuizione di inammissibilità del rimedio impugnatorio resa dall’organo di giustizia disciplinare.
4. ¿ In conclusione, il ricorso è respinto, con conseguente assorbimento della istanza di sospensione dell’esecuzione proposta dal ricorrente.
5. ¿ Non essendovi stata resistenza in giudizio, nulla deve statuirsi in punto di spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara assorbita l’istanza di sospensione dell’esecuzione; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.