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11 novembre 2024
PMA: confermata dal Collegio la decisione del Tribunale di Siena sulla revocabilità del consenso da parte dell’uomo
Il 25 settembre 2024 il Tribunale di Siena, in composizione collegiale, ha rigettato il reclamo proposto contro la decisione del Tribunale in composizione monocratica emessa il 28 giugno 2024 dalla donna che si era vista negare l'autorizzazione a procedere al transfer degli embrioni crioconservati.
di La Redazione
In primo grado, infatti, all’esito di un procedimento ex art. 700 c.p.c. introdotto dalla donna il Tribunale di Siena decideva il caso di due coniugi che, impossibilitati a divenire genitori in modo naturale, nel 2016 si rivolgevano ad una clinica specializzata nella PMA e all’esito del percorsi si formavano, così, due embrioni che non venivano immediatamente trasferiti nell’utero della donna, ma venivano crioconservati nella clinica stessa e per la cui conservazione i coniugi avrebbero dovuto pagare un canone annuale.  Dopo neanche un anno, nel 2017 la coppia si separava e successivamente interveniva anche il divorzio

Dopo 8 anni dalla formazione degli embrioni (e dopo quindi la manifestazione del consenso informato), la donna inviava una comunicazione formale alla clinica richiedendo di procedere al trasferimento degli embrioni. A fronte dell’opposizione dell’uomo, la clinica non procedeva e la donna depositava ricorso cautelare d’urgenza al Tribunale di Siena. 

Secondo il Tribunale, tuttavia, non c’erano i presupposti per un procedimento d’urgenza: troppi gli 8 anni passati per parlare di periculum in mora e, con riferimento al fumus, il Tribunale rileva che il consenso firmato dalle parti non aveva le caratteristiche di quello richiesto dalla Legge n. 40/2004

Il consenso, infatti, nella PMA è centrale perché fonda lo status filiationis e comporta per la donna il divieto di parto anonimo e per l’uomo il divieto di disconoscimento di paternità. 

Avverso la decisione in primo grado, la donna proponeva reclamo affermando, invece la sussistenza del periculum in mora e del fumus boni iuris, affermando che la responsabilità per il mancato impianto degli embrioni fosse addebitabile esclusivamente all’ex marito che, a fecondazione avvenuta, comunicava alla ricorrente di non voler proseguire e concludere il rapporto di procreazione; che sussisteva il periculum in quanto il tempo trascorso non era imputabile ad una scelta della donna ma alla situazione di crisi coniugale e personale dalla stessa affrontata, nonché alla speranza di una riconciliazione con il marito, alla pendenza del giudizio di divorzio; all’impossibilità di accedere a trattamenti sanitari nel corso della pandemia da Covid-19; che sussisteva il pericolo perché la propria età (46 anni) le faceva ridurre le chance per diventare madre; ribadiva la sussistenza del fumus boni iuris alla luce della irrevocabilità del consenso rilasciato dall’ex coniuge così come sancito dalla sentenza n. 161/2023 della Corte Costituzionale.

Anche il Collegio, però, dà ragione all’uomo non sussistendo né il periculum né il fumus. Il pericolo deve essere imminente ed involontario. Ancora una volta il Tribunale ritiene che 8 anni è un tempo troppo lungo perché si possa dire sussistente il pericolo e in questo caso l’attesa non era ritenuta involontaria. Secondo il Collegio, era pacifico che dopo la fecondazione la donna si informava sulla possibilità di donare gli embrioni a terzi (non manifestando la volontà di procedere all’impianto); che la coppia non fosse più tale vista la separazione prima e il divorzio poi con conseguente disgregazione del progetto genitoriale comune. Se la causa fosse imputabile all’ex marito, dice il Collegio, la donna avrebbe ben potuto agire anni e anni fa anziché attendere anni con il rischio di ridurre sempre di più le probabilità di un esito positivo della gravidanza. Anche il fatto che oggi la donna si senta pronta alla maternità è una condizione del tutto soggettiva che non può porsi a fondamento del periculum

Il Collegio analizza il consenso manifestato dall’uomo alla PMA e giunge a dire che tale consenso non contiene i requisiti richiesti dalla Legge n. 40/2004. Per la Legge 40 il consenso è irrevocabile per entrambi i partner una volta che l’ovulo è fecondato. Per essere irrevocabile, però, è necessario che la manifestazione di volontà del futuro padre di procedere alla fecondazione sia stata preceduta da una consapevole assunzione di responsabilità; la scelta di procedere alla procreazione medicalmente assistita deve essere adottata nella piena coscienza delle conseguenze giuridiche che seguono a tale atto di filiazione. Nel caso di specie, nei moduli firmati dalle parti, non vi era riferimento alcuno alla “possibilità che si verifichi uno iato temporale (anche significativo) tra fecondazione e impianto” né “all’eventualità che questo avvenga quando, nelle more, sono venute meno le iniziali condizioni di accesso alla PMA”.

Dall’insieme dei moduli sottoscritti dalle parti, secondo il Collegio, c’è il dubbio che le stesse non abbiano consapevolmente compreso che tra le conseguenze giuridiche del consenso manifestato vi fosse anche la possibilità che l’impianto potesse avvenire anche ove la coppia si fosse nelle more disgregata.

Pertanto, vi è il dubbio che il consenso prestato al tempo del trattamento di PMA dall’uomo fosse stato reso in modo realmente consapevole sì da renderlo “irrevocabile”.
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