
Svolgimento del processo
Il 13 luglio 2016 l'Agenzia delle Entrate di X notificava alla signora X, quale titolare all'epoca dei fatti dell'80% delle quote sociali della X srl (nonché moglie del legale rappresentante pro tempore X), l' avviso di accertamento n. X , relativo all'anno di imposta 2011: l'atto impositivo faceva propri il contenuto e le conclusioni dell'avviso di accertamento n. X, definitivo a seguito di mancata impugnazione, con il quale - sulla base delle risultanze della verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza di X, sfociata prima nella notizia di reato trasmessa nell'aprile 2014 alla Procura della Repubblica di Lecce, e poi nel processo verbale di constatazione del 18 aprile 2016 - si contestava alla predetta società la deduzione di costi portati da fatture per operazioni inesistenti. Quantificato in € 867.683 il maggior reddito della X srl, si recuperava a tassazione l'IRPEF calcolata sulla parte di tale maggior reddito che si riteneva essere stata incassata dalla signora X, pari ad € 694.146,98.
La contribuente proponeva tempestivo ricorso avverso l'atto impositivo, deducendo l'omessa notifica del prodromico avviso di accertamento emesso nei confronti della X srl, il difetto di motivazione dell'atto, il difetto di prova in ordine alla pretesa impositiva e la violazione del divieto di doppia imposizione.
Costituitasi in giudizio l'Agenzia delle Entrate, con sentenza n. 1993 , pronunciata il 22 maggio 2018 e depositata il 5 giugno 2018, la Commissione Tributaria Provinciale di Lecce rigettava il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali , ritenendo infondati tutti i motivi di ricorso.
Con atto di appello tempestivamente e ritualmente depositato la contribuente ha impugnato la sentenza sopra indicata, riproponendo le doglianze già infruttuosamente poste a fondamento del ricorso introduttivo.
Con il primo motivo si duole della circostanza che il prodromico avviso di accertamento n. X era stato notificato solo al curatore della X srl nel frattempo fallita, e non anche alla X, quale legale rappresentante all'epoca dei fatti, o, in ogni caso, quale soggetto nei cui confronti l'amministrazione intendeva estendere gli effetti di tale avviso.
Con il secondo motivo denuncia la in violazione da parte dell'Ufficio dell'obbligo motivazionale sancito agli art. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000 e dell'art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973: l'atto impositivo era stato altresì emesso senza la partecipazione della contribuente al procedimento accertativo; evidenzia l'erroneità della decisione dei primi giudici, che hanno respinto il motivo di ricorso rilevando, per un verso, che all'avviso di accertamento erano stati allegati l'avviso emesso nei confronti della società e l'elenco delle fatture ricevute dai vari fornitori rettificate dalla Guardia di Finanza, e, per altro verso, che "la ricorrente non ha provato la esistenza di elementi la cui presentazione in detta sede avrebbe escluso, in tutto o in parte, la ripresa siccome posta in essere". Dunque, sottolinea l'appellante, nessuna informazione è fornita in merito al presunto percorso logico condotto dagli organi verificatori per ritenere provata la partecipazione della società ad un sodalizio criminoso la cui esistenza è messa in dubbio anche dallo stesso Pubblico Ministero che ha ottenuto l'archiviazione del procedimento penale.
Con il terzo motivo si duole dell'omessa pronuncia circa la denunciata violazione del divieto di doppia imposizione e del principio della capacità contributiva, realizzatasi a cagione del fatto che i verificatori hanno rettificato in capo ad ogni società facente parte del presunto sodalizio criminoso esclusivamente le fatture ricevute, e non anche quelle emesse.
Con il quarto motivo torna a ribadire l'assenza di prova delle circostanze sulla base delle quali l'Ufficio ha proceduto al recupero a tassazione, evidenziando i motivi per i quali le fatture in contestazione non possono ritenersi relative ad operazioni inesistenti.
L'Ufficio ha depositato controdeduzioni, chiedendo dichiararsi l'appello inammissibile ai sensi dell'art. 342 cod. proc. civ. (poiché l'appello non indica le parti della sentenza impugnate e si limita a riproporre i medesimi motivi posti a fondamento dell'originario ricorso) nonché per la tardiva costituzione in giudizio dell'appellante, ovvero comunque rigettarlo perché infondato.
All'odierna udienza è comparso il solo difensore dell'Ufficio appellato, che si è riportato ai propri scritti chiedendone l'accoglimento.
Motivi della decisione
L'appello è inammissibile non per la dedotta genericità dei motivi, ma per la tardiva costituzione in giudizio dell'appellante, che, notificato l'appello all'Ufficio in data 7 ottobre 2019, si è costituito in giudizio il 7 novembre 2019, e, dunque, dopo lo spirare del trentesimo giorno.
In ogni caso, tutti i motivi di appello sono infondati .
Il primo motivo è destituito di fondamento, innanzitutto perché risulta dagli atti che tanto il processo verbale di constatazione dell'aprile 2016, quanto l'avviso di accertamento n. X del 2016, atti entrambi relativi alla X srl, furono ritualmente notificati al curatore fallimentare, unico soggetto legittimato a riceverli, poiché la società era stata dichiarata fallita nel giugno 2015; il motivo è destituito di fondamento anche e soprattutto perché risulta dagli atti che all'avviso di accertamento qui impugnato, che la signora X ricevette in data 13 luglio 2016, l'Ufficio ebbe cura di allegare proprio l'avviso X diretto alla società: sicché per un verso la X poté avere immediata conoscenza dei fatti sui quali si fondavano le contestazioni mosse nei suoi confronti, e, per altro verso, nulla le avrebbe impedito di ricorrere avverso l'atto diretto alla X srl, poiché i termini per impugnarlo scadevano nel settembre 2016 (si rammenta, in proposito, che ancora di recente la Suprema Corte ha ribadito che «la mera inerzia assunta dal curatore nei confronti dell'atto impositivo, con riferimento ai rapporti d'imposta i cui presupposti si sono formati prima della declaratoria fallimentare, è sufficiente a far sorgere la legittimazione processuale straordinaria della società fallita o dei suoi amministratori ad impugnare l'atto»: Cass. civ., sez. 5, n. 21333 del 30/07/2024, Rv. 671651 - 02).
Non è dunque in alcun modo ravvisabile l'invocata lesione del diritto di difesa dell'appellante, che è venuta tempestivamente a conoscenza di tutti i presupposti di fatto e delle ragioni di diritto della pretesa erariale vantata nei confronti della società e, per l'effetto, anche nei suoi confronti.
Il secondo motivo è destituito di fondamento, poiché l'avviso del quale oggi si discute si fonda sui dati acquisiti all'esito della verifica fiscale condotta nei confronti della X srl, della quale la X era all'epoca dei fatti socia di maggioranza, sicché l'Ufficio non era tenuto a rispettare alcun obbligo di contraddittorio preventivo prima di concludere l'accertamento nei confronti della socia (cfr., in termini, Cass. civ., Sez. U, n. 24823 del 09/12/2015).
L'atto impositivo è, altresì, sufficientemente motivato, poiché indica in maniera adeguata i presupposti di fatto e le ragioni di diritto dell'imposizione tributaria, avendo dunque consentito alla contribuente di conoscere i motivi della pretesa tributaria, e di sviluppare compiutamente le proprie argomentate difese contestando analiticamente ed efficacemente l'an ed il quantum debeatur.
Quanto ai residui motivi, si osserva che le ragioni del recupero a tassazione sono del tutto condivisibili e trovano pieno riscontro nella documentazione in atti e nel processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza di X del 18 aprile 2016; che, divenuto irrevocabile l'accertamento nei confronti della società, non è possibile in questa sede mettere in discussione l'esistenza e l'ammontare del credito erariale così come definitivamente accertato nei confronti della X srl; che, peraltro, le deduzioni nel merito dell'appellante non si confrontano affatto né con il complessivo accertamento dell'Ufficio (soprattutto in relazione all'essersi accertato che molte delle società coinvolte nelle operazioni commerciali che facevano capo alla X srl non avevano la disponibilità di locali ed attrezzature commerciali e mezzi di trasporto idonei al commercio all'ingrosso di carni per le quantità che si rilevano dalle fatture di acquisto e di vendita, né avevano personale dipendente in numero adeguato, oltre ad essere del tutto sconosciute al fisco, e che molte delle fatture in contestazione - caratterizzate dalle stesse modalità di compilazione e dallo stesso formato, pur provenendo apparentemente da società diverse - non avevano i relativi documenti di trasporto, né era stato possibile, nonostante la speciale disciplina sulla tracciabilità delle carni, ricostruire con certezza l'origine delle merci apparentemente commercializzate); che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, gli utili extrabilancio di una società di capitali a ristretta base azionaria o a base familiare si presumono distribuiti ai soci, salvo la prova contraria che, nel caso di specie, non è stata fornita; che, secondo i consolidati arresti della giurisprudenza di legittimità, dai quali questa Corte non ha ragione di discostarsi, « l'operatività del divieto di doppia imposizione .. postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto. Tale condizione non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, quale quella che si realizza, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell'IRPEG, quale utile della società, sia ai fini dell'IRPEF, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a base delle due diverse imposizioni» (Cass. civ., sez. 5, ord. n. 10270 del 03/12/2010, dep. 2011), «Nel caso di società a ristretta base, non opera la presunzione ex art. 47 TUIR di attribuzione ai soci degli utili extracontabili in quanto, essendo conseguiti "in nero" e non essendo mai pervenuti nella contabilità societaria, non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione che non v'è stata, non avendoli la società mai dichiarati (Cass. civ., sez. 5, ord. n. 26317 del 19/11/2020, Rv. 659878), «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali con ristretta base partecipativa, ove sia accertata la percezione di redditi societari non contabilizzati, opera la presunzione di loro distribuzione pro quota ai soci, salva la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti dalla società, non occorrendo che l'accertamento emesso nei confronti dei soci risulti fondato anche su elementi di riscontro tesi a verificare, attraverso l'analisi delle loro movimentazioni bancarie, l'intervenuto acquisto di beni di particolare valore, non giustificabili sulla base dei redditi dichiarati» (Cass. civ., sez. 5, ord. n. 16913 dell'11/08/2020, Rv. 658657).
L'appello va, dunque, rigettato, con conseguente condanna della contribuente alle spese, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile l'appello, e condanna per l'effetto l'appellante al pagamento delle spese processuali, liquidate in € 2.000 oltre accessori di legge.
Così deciso in Lecce, il 15 ottobre 2024.