
Con ordinanza n. 23341 del 29 agosto 2024, la Cassazione ha confermato l'orientamento secondo cui i soci possono essere chiamati a rispondere dei debiti fiscali della società, comprese le sanzioni tributarie, nei limiti delle somme riscosse in sede di liquidazione.
Il contesto normativo e il caso concreto
La vicenda trae origine dal contenzioso tra l'Agenzia delle Entrate e i soci della società "Beta", cancellata dal Registro delle Imprese nel 2007. L'Amministrazione finanziaria aveva notificato avvisi di accertamento nei confronti della società e successivamente dei soci, al fine di recuperare imposte e sanzioni tributarie per maggiori ricavi accertati relativi all'anno 2005.
La Commissione Tributaria Regionale del Veneto aveva ritenuto legittimi gli avvisi di accertamento emessi nei confronti dei soci, ma aveva annullato la parte relativa alle sanzioni, ritenendo che il principio di personalità della responsabilità amministrativa impedisse la trasmissione delle sanzioni tributarie ai soci.
L'Agenzia delle Entrate ha impugnato la decisione della CTR in Cassazione, contestando l'esclusione della responsabilità dei soci per il pagamento delle sanzioni tributarie.
La decisione della Cassazione
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, chiarendo che:
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Conclusioni operative
La decisione in commento ribadisce l'importanza di una gestione attenta delle fasi di scioglimento e liquidazione delle società di capitali, evitando che possano ricadere sui soci obbligazioni tributarie non adeguatamente considerate. Il principio personalistico delle sanzioni tributarie non esclude la responsabilità dei soci nei limiti delle somme ricevute in liquidazione, contribuendo a garantire l'effettivo soddisfacimento delle obbligazioni fiscali. Una pronuncia che fornisce certezze agli operatori del settore, ma al tempo stesso impone una maggiore consapevolezza nella gestione delle chiusure societarie.
Svolgimento del processo
1. La Commissione Tributaria Provinciale di Treviso, con sentenza del 10/06/2013, ha accolto il ricorso proposto dai soci della società Omissis - cessata in data 20/07/2007 - avverso l'avviso di accertamento con il quale l'Agenzia delle Entrate di Treviso aveva recuperato a tassazione il maggior imponibile, ai fini IRES, IVA e IRAP in relazione ai maggiori ricavi di Euro 171.825, in conseguenza del controllo delle compravendite eseguite dalla società nell'esercizio del 2005.
2. L'Agenzia delle Entrate ha, quindi, impugnato la sentenza della CTP e la CTR di Venezia ha parzialmente accolto l'appello.
2.1. In particolare, ha ritenuto nullo l'avviso di accertamento n. Omissis del 2010, in quanto notificato a B.B., in qualità di legale rappresentante e liquidatore della società Omissis, ormai cessata, mentre ha ritenuto corretti gli avvisi di accertamento notificati nei confronti dei soci (considerato che dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese i creditori sociali possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme riscosse da questi ultimi in base al bilancio finale di liquidazione), ad eccezione della parte relativa alle sanzioni. In merito a quest'ultimo profilo la CTR ha ritenuto che nei confronti dei soci difettasse il requisito della colpevolezza e che le sanzioni irrogate violassero l'art. 7 D.L. 30/09/2003, n. 269. 2.2. La CTR ha, poi, ritenuto infondate le contestazioni delle parti appellate inerenti alla determinazione del maggior reddito, evidenziando come l'Agenzia delle Entrate non si fosse attenuta solamente alle risultanze OMI, ma avesse analizzato, come elementi presuntivi dell'esistenza di ricavi non contabilizzati, le risultanze di un'indagine completa sull'attività d'impresa, sulla situazione finanziaria, sulle attività bancarie, sui mutui accesi dagli acquirenti, sulla localizzazione degli immobili e sulle relative caratteristiche, nel pieno rispetto di quanto previsto dall'art. 39 D.P.R. 29/09/1973, n. 600.
3. Avverso la sentenza della CTR di Venezia n. 1025/2015, depositata in data 15/06/2015, ha proposto ricorso, in via principale, l'Agenzia delle Entrate, affidandosi a un motivo di ricorso.
4. Hanno resistito C.C., A.A. e B.B. Srl, in qualità di soci della società Omissis, cessata in data 20/12/2007, con controricorso, all'interno del quale è stato proposto altresì ricorso incidentale con tre motivi.
5. I controricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ.
Motivi della decisione
1. Con l'unico motivo di ricorso principale l'Agenzia delle Entrate ha contestato, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell'art. 2495 cod. civ. e degli artt. 5 e 6 D.Lgs. n. 18/12/1997, n. 472 e 7 D.L. 30/09/2003, n. 269 (convertito con modificazioni dalla legge 24/11/2003, n. 326), anche in combinato disposto.
1.1.Occorre dare atto, in via preliminare, che il richiamo della ricorrente principale agli artt. artt. 5 e 6 D.Lgs. n. 472/82 integra un mero errore materiale, dovendo ritenersi che la stessa abbia inteso riferirsi, in realtà, al D.Lgs. n. 472 del 1997.
1.2. L'Agenzia delle Entrate ha evidenziato che l'art. 2495 cod. civ., secondo l'indirizzo ormai consolidato, integra un fenomeno successorio, che funziona solo in parte in modo analogo alla successione mortis causa. In particolare, i soci, al momento dell'estinzione della società, succedono nei debiti di quest'ultima che sono, tuttavia, tenuti a soddisfare limitatamente a quanto ricevuto a seguito della liquidazione. Di conseguenza, entro tale limite, sono tenuti a rispondere anche del debito insoluto della società estinta a titolo di sanzioni pecuniarie, trattandosi di obbligazioni civili, per le quali non può trovare applicazione l'art. 8 D.Lgs. 18/12/1997, n. 472. Tanto più che quest'ultima norma non fa dipendere dalla morte della persona l'estinzione dell'obbligazione di pagamento della sanzione pecuniaria, ma si limita a stabilire che non si trasmette agli eredi (confermando, in tal modo, la natura civile di tale obbligazione).
Il socio risponde, quindi, quale mero successore del soggetto estinto, con la conseguenza che è irrilevante il riferimento alla colpevolezza da parte della CTR.
1.3. Allo stesso modo non rileva neppure l'art. 7 D.L. n. 269 del 2003 che fa riferimento, per escluderla, alla responsabilità solidale.
2. C.C., A.A. e B.B. Srl, in qualità di soci della società (estinta) Omissis hanno contestato la fondatezza del motivo di ricorso principale, richiamando l'art. 36 D.P.R. 29/09/1973, n. 602, evidenziando, in primo luogo, come il ricorso avversario non sia stato indirizzato nei confronti dei liquidatori della società, ma unicamente nei confronti dei soci.
La responsabilità nei confronti dei liquidatori, pur evocati nei precedenti gradi di giudizio, presuppone che i ruoli in cui siano stati iscritti i tributi della società possano essere posti in riscossione e che sia stata acquisita la certezza legale della mancata soddisfazione con le attività della liquidazione. Rilevano, poi, che non vi è prova che i soci o gli associati della società estinta avessero ricevuto, nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione, denaro o altri beni sociali.
In ogni caso evidenziano che, in caso di ritenuta applicabilità della discipli na dell'art. 36 D.P.R. n. 602 del 1973, l'ufficio avrebbe potuto agire solamente per ottenere la riscossione dell'IRES.
2.1. I controricorrenti hanno ritenuto, poi, corretta la sentenza della CTR sotto il profilo relativo alle sanzioni, poiché conforme all'art. 5 D.Lgs. n. 472 del 1997.
3. I controricorrenti, hanno proposto, a loro volta, ricorso incidentale.
3.1. Con il primo motivo di ricorso incidentale hanno contestato l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
Hanno evidenziato che la CTR non ha preso posizione sull'eccezione di inammissibilità dell'appello contenuta nella comparsa di costituzione e risposta davanti al giudice di seconde cure, con la conseguente violazione dell'art. 53 D.Lgs. 31/12/1992, n. 546 per omessa indicazione dei motivi di impugnazione da parte dell'Agenzia delle Entrate, che si è limitata a ripetere pedissequamente le questioni sollevate nelle controdeduzioni davanti al giudice di primo grado.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso incidentale è stata contestata la violazione o falsa applicazione degli artt. 39 e 41 D.P.R. 29/09/1973, n. 600 in relazione all'art. 53 Cost. e dell'art. 2729 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
I ricorrenti in via incidentale richiamano i contenuti della comparsa di costituzione in appello, dove, in sintesi è stata contestata:
- l'applicazione, in via retroattiva (nonostante quanto previsto nella legge finanziaria del 2008 e la procedura di infrazione per la violazione della VI Direttiva comunitaria), delle modifiche apportate all'art. 39 D.P.R. n. 600 del 1973 ad opera dell'art. 23 bis D.L. 04/07/2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla legge 04/08/2006, n. 248;
- il ricorso - nella rettifica dei prezzi di vendita praticati dalla società, ai sensi dell'art. 39, primo comma, lett. d), D.P.R. n. 600 del 1973 - alle valutazioni OMI.
I ricorrenti in via incidentale (v. pag. 27 del controricorso) affermano che i parametri presi in esame dalla CTR "sono, confessoriamente da parte della stessa, non prove degli effettivi ricavi del Contribuente, ma solo circostanze che non potrebbero costituire nemmeno essi stessi elementi presuntivi gravi e precisi sufficienti a motivare e giustificare l'accertamento tributario, ma sono soltanto semplici e meri indizi che solo unitamente ed a completamento di altri elementi di fatto effettivamente acquisiti dall'Ufficio finanziario, avrebbero potuto generare tutti insieme presunzioni semplici, aventi i caratteri della gravità, precisione e concordanza..." Rileva, poi, che l'Amministrazione finanziaria avrebbe errato nell'applicazione del metodo "sintetico di accertamento del reddito", perché "lo avrebbe interpretato come un potere astratto, riferibile a ogni (anche minima) anomalia fiscale".
Contesta che l'Ufficio abbia creato una nuova metodologia accertativa incentrata sul "reddito medio ordinario", prendendo quale riscontro un indimostrato prezzo al metro quadrato di un appartamento, per applicarlo a tutte le compravendite eseguite.
Evidenzia, infine, che resterebbe incerto in ogni caso il quantum preteso, proprio perché basato su dati incerti.
3.3. Il terzo motivo di ricorso incidentale è stato così intitolato: "Nullità della sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c. Nullità della sentenza per omessa, apparente o contraddittoria motivazione, in relazione all'art. 360, comma n. 4, c.p.c.. Violazione e falsa applicazione dell'art. 2495 c.c. anche in connessione all'art. 36 D.P.R. 602/73, in relazione all'art. 360, comma 1 n.3, c.p.c."
Le argomentazioni a fondamento di tale motivo sono le seguenti:
- la CTR avrebbe dovuto dichiarare la carenza di legittimazione in capo ai soci e al liquidatore, dal momento che non avevano più alcuna legittimazione e non è, inoltre, possibile parlare di "successione", dal momento che non vi è alcun procedimento in corso al momento della cancellazione;
- se è stato considerato nullo l'avviso notificato al liquidatore della società, poiché la cancellazione di quest'ultima ha determinato il venir meno della relativa carica, non è comprensibile perché la stessa decisione non sia stata assunta (anche) nei confronti della sig.ra C.C., che era sì socia, ma anche liquidatrice della società estinta. Rileva poi che: "se il punto di partenza della motivazione della sentenza impugnata risiede nel prendere atto della carenza di legittimazione del liquidatore della società, cui erano stati indirizzati gli Avvisi, allora tale carenza di legittimazione è facilmente rinvenibile in tutti i soggetti, siano essi liquidatori, amministratori o soci.";
- il richiamo all'art. 2495 cod. civ., seppur corretto, è stato disatteso nella parte dispositiva, dal momento che l'Ufficio si è attivato per richiedere ai soci l'intera quota parte (in funzione delle quote possedute) del debito originario;
- la sentenza è errata, perché dapprima si riferisce alla disciplina dell'art. 2495 cod. civ. e poi, nella parte dispositiva, non tiene conto dei limiti alla responsabilità.
4. Il ricorso principale è fondato.
4.1. Concentrando l'esame sugli artt. 2495 cod. civ. e art. 7 D.L. n. 269 del 2003 occorre evidenziare che il terzo comma della prima norma richiamata stabilisce che: "Ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi."
Come precisato dalla presente Corte da oltre un decennio: "il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s'identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica (si veda, in argomento, Cass. 3 aprile 2003, n. 5113)." (Cass., Sez. U, 12/03/2013, n. 6070). L'estinzione della società di capitali conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese comporta, quindi, un fenomeno di tipo successorio ("connotato da caratteristiche sui generis, connesse al regime di responsabilità dei soci per i debiti sociali nelle differenti tipologie di società" (Cass., Sez. U, n. 6070 del 2013, cit.), che si caratterizza, da un lato, per il trasferimento ai soci del medesimo debito che faceva capo alla società e, dall'altro lato, per la limitazione della responsabilità del socio a quanto ricevuto in sede di liquidazione.
La presenza di un fenomeno successorio sui generis è riconducibile al fatto che, come rilevato in dottrina, il "fenomeno societario non si risolve in un contratto che deve essere adempiuto", in quanto "la disciplina delle società è .. disciplina non dell'esecuzione di un atto negoziale, ma di una struttura organizzativa e dei modi di esercizio di un'attività."
Lo scioglimento della società e l'estinzione conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese devono essere, quindi, lette nella medesima prospettiva che regola la nascita e il funzionamento della società. Quest'ultima nasce con la stipulazione di un contratto (art. 2247 cod. civ.), per effetto del quale viene costituita una struttura organizzativa che fa capo a un soggetto autonomo e distinto dai soci che, nel caso della società di capitali, acquisisce la personalità giuridica con l'iscrizione nel registro delle imprese (art. 2331 cod. civ.). Lo scioglimento della società comporta, quindi, il termine di un'attività economica comunitariamente organizzata e con essa il venir meno del soggetto cui quest'ultima era imputata. L'estinzione della società non fa, tuttavia, venir meno i rapporti attivi e passivi di cui la stessa era titolare, ma comporta piuttosto una vicenda successoria (Cass. Sez. U, n. 6070 del 2013, cit.). La regolazione dei rapporti passivi, in particolare, ruota attorno al coordinamento tra il principio di garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 cod. civ. (in relazione ai beni rientranti nella titolarità dell'ente estinto) e le norme che scandiscono la responsabilità patrimoniale dei soci per i debiti della società. La circostanza che il socio di una società di capitali estinta risponda dei debiti di quest'ultima, nei limiti di quanto attribuito in sede di liquidazione, costituisce la proiezione della regola che vede il patrimonio sociale oggetto, in via prioritaria, della garanzia (generica) ex art. 2740 c.c. per i debiti sorti durante l'esercizio dell'attività economica che ha caratterizzato l'oggetto sociale e solo successivamente di un'attribuzione, in via residuale, ai soci in relazione alla partecipazione detenuta nella società estinta. È in tale prospettiva che il socio di una società di capitali risponde anche per le obbligazioni della società estinta rimaste inadempiute, comprese quelle relative alle sanzioni pecuniarie derivanti dalla violazione di norme tributarie, nei limiti di quanto attribuito nel bilancio di liquidazione. Tale regola è coerente, dal punto di vista sistematico, con la previsione dell'art. 36, terzo comma, D.P.R. n. 602 del 1973 (che estende la responsabilità dei soci per il pagamento delle imposte anche a quanto ricevuto negli ultimi due periodi di imposta antecedenti alla messa in liquidazione e non solamente ai beni o al denaro ricevuto durante quest'ultima).
4.2. Il fenomeno successorio sui generis regolato nell'art. 2495, comma 3, cod. civ. ("che tale è anche se si vogliano rifiutare improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l'estinzione della società e la morte di una persona fisica..", v. Cass., Sez. U., n. 6070 del 2013) presenta, quindi, una contiguità di tipo linguistico e descrittivo più che di tipo sostanziale rispetto alla disciplina delle successioni regolate nel secondo libro del codice civile. Di conseguenza non può trovare applicazione l'art. 8 D.Lgs. n. 472 del 1997 ("L'obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi."), non essendoci alcun margine per qualificare l'estinzione della società e la morte della persona fisica come "casisimili", ai sensi e per gli effetti di quanto previsto nell'art. 12, secondo comma, prel. ai fini dell'interpretazione analogica.
4.3. Tale conclusione trova ulteriore conferma, in termini sistematici, nella disciplina che regola il regime di responsabilità per le sanzioni tributarie nel caso delle società o enti con personalità giuridica. A tal fine l'art. 7 D.L. n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, (ulteriore parametro normativo posto a fondamento del motivo di ricorso ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) prevede che: "Le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica".
La norma appena richiamata esclude ogni e qualsivoglia responsabilità solidale dei soci (o degli associati) in relazione alle società o agli enti con personalità giuridica e prima ancora con l'autore dell'infrazione. La sua ratio è, infatti, quella di rompere lo schema penalistico che connota le sanzioni tributarie, al fine di evitare che l'autonomia patrimoniale perfetta conseguente all'acquisizione della personalità giuridica faccia ricadere gli effetti della sanzione su un soggetto diverso da quello che si avvantaggia, in concreto, della violazione della norma tributaria. L'art. 7 D.L. n. 269 del 2003 costituisce, quindi, una sorta di correttivo al principio personalistico che caratterizza l'impianto sanzionatorio in ambito tributario, determinando una scissione tra chi commette materialmente la violazione (dipendente o legale rappresentante della società di capitali) e il soggetto che si avvantaggia dei risultati di quest'ultima (la società). Tale norma non è, tuttavia, incompatibile con il meccanismo che regola la responsabilità per i debiti della società estinta ai sensi dell'art. 2495, comma 3, cod. civ., secondo il quale il socio risponde, nei limiti di quanto attribuito in sede di liquidazione. In caso contrario, l'estinzione della società eliderebbe, infatti, il legame di garanzia (generica) tra i beni già parte del patrimonio sociale attribuiti ai soci e l'obbligazione avente per oggetto il pagamento della sanzione tributaria, non solo con un'evidente deroga all'art. 2740 cod. civ., ma anche in contrapposizione alla ratio stessa dell'art. 7 D.L. n. 269 del 2003 (v. supra).
4.4. Un'ultima considerazione attiene, infine, all'irrilevanza, nel caso di specie, dell'elemento soggettivo dei soci, considerato che questi ultimi rispondono del debito relativo alla sanzione pecuniaria sulla base di un fenomeno successorio sui generis, come quello descritto supra, ai punti 4.1. e 4.2.
4.5. Deve essere quindi affermato il seguente principio di diritto: "L'estinzione della società di capitali conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese integra un fenomeno successorio connotato da caratteristiche sui generis, connesse al regime di responsabilità dei soci per i debiti sociali nelle differenti tipologie di società (Cass., Sez. U, 12/03/2013, n. 6070), con la conseguenza che i soci sono chiamati a rispondere anche per il pagamento della sanzioni tributarie nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione, venendo, altrimenti, vanificata la ratio sottesa all'art. 7 D.L. 30/09/2003, n. 769, convertito con modificazioni dalla legge 24/11/2003, n. 326, funzionale a evitare che gli effetti della sanzione ricadano su un soggetto diverso da quello che si avvantaggia, in concreto, della violazione della norma tributaria".
5. Il ricorso principale è, pertanto, fondato, con la conseguente necessità di esaminare il ricorso incidentale.
5.1. In via preliminare, occorre esaminare il terzo motivo di ricorso incidentale, dove la parte controricorrente contesta la violazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (per omesso esame di un fatto decisivo), la nullità della sentenza per omessa, apparente e contraddittoria motivazione (in relazione all'art. 360, quarto comma, n. 4, cod. proc. civ.) e la violazione degli artt. 2495 cod. civ. e 36 D.P.R. n. 602 del 1973 (in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.).
Il motivo è inammissibile, considerato che è condivisibile l'orientamento secondo il quale: " In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d'impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l'omessa motivazione, che richiede l'assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d'ufficio, e l'insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d'appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l'esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l'apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d'impugnazione enunciati dall'art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse." (Cass., 23/10/2018, n. 26874; nello stesso senso Cass., 06/02/2024, n. 3397).
5.2. È inammissibile anche il primo motivo di ricorso incidentale, che riguarda l'omessa pronuncia della CTR su un fatto decisivo, ai sensi e per gli effetti dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., individuato dalla parte ricorrente in via incidentale nell'omessa valutazione della questione di inammissibilità dell'appello per l'omessa indicazione dei motivi specifici prescritti dall'art. 53 D.Lgs. n. 546 del 1992.
Il motivo è inammissibile, considerato che il fatto decisivo previsto nell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. non può riguardare un fatto di natura processuale. Il vizio attraverso cui veicolare l'esame da parte della Corte di cassazione le ipotesi di omessa pronuncia non è, quindi, l'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., ma la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. nella specie non evocata dalla parte ricorrente.
Infine, questa Corte ha evidenziato che: "Non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa ad una prospettata tesi difensiva) o di un'eccezione di nullità (ritualmente sollevata o sollevabile d'ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise implicitamente; peraltro, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall'art. 112 cod. proc. civ., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito, esaminando implicitamente la posizione dell'ente nei confronti del quale si chiedeva l'integrazione del contraddittorio, l'aveva collocata nell'ambito della garanzia impropria, con ciò correttamente escludendo il litisconsorzio necessario)." (Cass., 28/03/2014, n. 7406).
5.3. Il secondo motivo di ricorso incidentale è in parte inammissibile (laddove sollecita una rivalutazione del meritus causae) e in parte infondato. Sotto quest'ultimo profilo occorre premettere come, nella specie, l'accertamento dell'amministrazione finanziaria non si sia svolto con metodo sintetico, ma piuttosto con metodo analitico-induttivo (art. 39, primo comma, lett. d), D.P.R. n. 600 del 1973, con la conseguente possibilità di ricorrere, in relazione a uno specifico elemento reddituale, a presunzioni, purché le stesse siano gravi, precise e concordanti. Nel motivo di impugnazione la parte ricorrente in via incidentale contesta che la motivazione della sentenza sia incentrata su un unico elemento costituito dalle valutazioni OMI. Occorre evidenziare, in primo luogo che, nel fare ciò la parte ricorrente in via incidentale non si è confrontata con la motivazione della sentenza impugnata che dà rilievo, in realtà, a una pluralità di elementi ("L'Agenzia delle Entrare (Entrate) ha analizzato e valorizzato, come elementi presuntivi dell'esistenza di ricavi non contabilizzati, le risultanze di una indagine completa sulla attività dell'impresa, sulla situazione finanziaria, sulle attività bancarie, sui mutui accesi dagli acquirenti, sulle caratteristiche specifiche dell'immobile, sulla sua localizzazione: in concreto l'Ufficio ha effettuato un accertamento nei confronti della società ricorrente nel pieno rispetto di quanto disposto dall'art. 39 del D.P.R. 600/1973."). Infine, è infondata è la tesi secondo cui i ricavi non dichiarati non possono costituire automaticamente reddito stante la "presenza certa di costi" (ricorso incidentale, pag. 35), perché comunque spettava alla parte contribuente provare esistenza, natura, entità ed inerenza dei costi.
6. Il ricorso incidentale è, pertanto, infondato.
7. Alla luce di quanto sin qui evidenziato deve essere accolto il ricorso principale e rigettato il ricorso incidentale. La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, rinviando alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Veneto, che in diversa composizione deciderà anche in merito alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale e rigetta quello incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo di ricorso principale accolto e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Veneto che, in diversa composizione, deciderà anche sulla liquidazione delle spese del presente giudizio.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.