
Svolgimento del processo
1.1. Il tribunale di Milano, con sentenza dell’8/2/2017, ha accolto la domanda proposta dalla G. s.p.a. in liquidazione e amministrazione straordinaria, aperta con decreto del 6/4/2012 e ha, per l’effetto, dichiarato l’inefficacia, a norma dell’art. 49 del d.lgs. n. 270/1999, dei due pagamenti che la G. s.p.a. in bonis aveva eseguito, per l’importo complessivo di €. 180.877,57, in favore della Fratelli M. T. s.r.l., rispettivamente, in data 18.22/10/2010 e 16.24/12/2010, ossia nei sei mesi anteriori alla data in cui, il 5/4/2011, era stata depositata la domanda con cui la solvens aveva chiesto di essere ammessa alla procedura di concordato preventivo (aperto con decreto del 22/4/2011 e poi revocato, ai sensi dell’art. 173 l.fall., con decreto del 9/2/2012).
1.2. La Fratelli M. s.r.l. (nella qualità di società che ha incorporato la convenuta) ha proposto appello avverso l’indicata sentenza.
1.3. La corte distrettuale, con la pronuncia in epigrafe, ha rigettato il gravame.
1.4. La corte d’appello, in particolare, ha, innanzitutto, esaminato il motivo con il quale l’appellante ha ribadito l’eccezione già sollevata in primo grado dalla convenuta, e cioè che, al momento della proposizione della domanda (in data 15/1/2015), era già decorso il termine triennale previsto dall’art. 69-bis, comma 1°, l.fall., il quale, a suo dire, aveva cominciato a decorrere dal momento in cui, per effetto di ricorso depositato il 5/4/2011, la G. s.p.a., era stata ammessa, con decreto del 22/4/2011, alla procedura del concordato preventivo: e l’ha rigettato.
1.5. La corte, sul punto, dopo aver rilevato, in fatto, che:
- la G. s.p.a., previa contestuale revoca dell’ammissione alla procedura di concordato preventivo, era stata dichiarata insolvente con sentenza del 26/1/2012; - l’esecuzione del programma di cessione è stata autorizzata con decreto ministeriale del 31/10/2012; - ha ritenuto, come già statuito dal tribunale, che: - trovava applicazione l’art. 49 del d.lgs. n. 270/1999 al fine non solo di identificare il periodo sospetto con il “semestre 5 ottobre 2010-5 aprile 2011” ma anche di individuare il dies a quo del termine triennale previsto dall’art. 69-bis, comma 1°, l.fall.; - tale termine decorre, pertanto, dalla data (31/10/2012) in cui il commissario liquidatore è stato autorizzato all’esecuzione del programma di cessione dei complessi aziendali; - l’azione in questione, proposta con atto di citazione notificato il 15/1/2015, era, pertanto, tempestiva.
1.6. La corte, poi, ha esaminato il motivo con il quale l’appellante aveva lamentato la mancata applicazione dell’esimente prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. a), l.fall.: e l’ha parimenti ritenuto infondato.
1.7. La corte, sul punto, dopo aver rilevato che: - le due società avevano pattuito che, “nei loro rapporti”, i pagamenti delle “diverse forniture mensili” dovevano essere eseguiti “a 90 giorni” ed in “un’unica soluzione”; - tali termini da subito non sono stati rispettati dalla G. s.p.a., per cui la società creditrice ha portato tale termine a “120 giorni”, tollerando in seguito “una dilazione maggiore”, fino a quando, nell’estate del 2010, come la stessa appellante ha espressamente dedotto, “la T., in vista della fusione con la F.lli M., decideva di mutare il proprio orientamento commerciale e intimava a tutti i propri clienti … in ritardo coi pagamenti (compresa G.) il rientro dall’esposizione debitoria”; - la creditrice, infatti, con missiva del 13/7/2010, ha provveduto ad una vera e propria messa in mora della debitrice “con sollecitazione del pagamento dell’insoluto” e “la prospettazione - nell’arco di dieci giorni - dell’attivazione di iniziative legali”; - le parti hanno, dunque, stipulato, il 22/7/2010, quando l’esposizione debitoria della società aveva raggiunto l’importo di €. 376.335,80, un “piano di rientro”; - i pagamenti impugnati sono stati eseguiti dalla società debitrice, il 18.22/10/2010 e il 16.24/12/2010, proprio in esecuzione di tale piano, all’esito del quale la G., con missiva del 16/12/2010, ha sollecitato la F.lli M., come già nella “lettera contenente la proposta del piano”, la “ripresa delle forniture di merci”, che si verifica “solo il 17 dicembre”; ha, in sostanza, ritenuto che, come già affermato dal tribunale, tali pagamenti, essendo stati eseguiti entro “termini di adempimento differenti e successivi” rispetto a quelli “originariamente pattuiti”, non erano riconducibili all’esimente invocata dalla convenuta, dovendosi escludere che le modalità poste in essere in esecuzione del piano di rientro fossero quelle “abituali ed ordinarie” in quanto piuttosto determinate “da un mutamento nei rapporti commerciali fino a quel momento vigenti tra le parti”, con la “conseguente modifica delle modalità, fino ad allora osservate, di pagamento proprie del rapporto tra le parti, e quindi dei termini d’uso”.
1.8. La corte, infine, ha rigettato il motivo con il quale l’appellante aveva lamentato la mancanza di prova della scientia decoctionis in capo alla stessa, rilevando, piuttosto, come già aveva fatto il tribunale, la “ricorrenza di plurimi ed univoci elementi convergenti nel senso dell’effettiva conoscenza, nel periodo sospetto, da parte dell’appellante, dell’insolvenza della GDM, ormai incapace di far fronte con mezzi normali alle proprie obbligazioni” ed escludendo, per contro, la rilevanza, sul punto, della “prosecuzione del rapporto contrattuale con l’imprenditore poi fallito o divenuto insolvente”.
1.9. La Fratelli M. s.r.l., con ricorso notificato lunedì 4/11/2019 ha chiesto, per tre motivi, la cassazione della sentenza, notificata, come da relazione depositata insieme al ricorso, il 2/9/2019.
1.10. La G. s.p.a. in liquidazione e amministrazione straordinaria ha resistito con controricorso con il quale ha, tra l’altro, eccepito l’inammissibilità del ricorso perché tardivo, sul rilievo che, a fronte della notificazione della sentenza il 2/9/2019, il termine di sessanta giorni andava a scadere il giorno venerdì 1° novembre, e che, in tale ipotesi, non potendo trovare applicazione la norma prevista dall’art. 155, comma 4°, c.p.c., che riguarda soltanto il caso in cui i termini scadono ab origine di sabato, il termine per la proposizione dell’impugnazione era scaduto già sabato 2/11/2019.
1.11. La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
2.1. Il ricorso per cassazione, intanto, è tempestivo. L’art. 155, ai commi 4°, 5° e 6°, c.p.c. dispone, in effetti, che “se il giorno di scadenza è festivo la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. La proroga prevista dal quarto comma si applica altresì ai termini per il compimento degli atti processuali svolti fuori dell’udienza che scadono nella giornata del sabato. Resta fermo il regolare svolgimento delle udienze e di ogni altra attività giudiziaria, anche svolta da ausiliari, nella giornata del sabato, che ad ogni effetto è considerata lavorativa”.
2.2. Ora, come questa Corte ha rilevato, l’interpretazione sistematica di questi commi induce a ritenere che il legislatore, se considera, in via di principio, la giornata del sabato come lavorativa (comma 6°), ciononostante ed eccezionalmente la esclude dal computo del termine soltanto per il compimento di atti processuali che devono essere compiuti “fuori dell’udienza” (comma 5°), per i quali, pertanto, i giorni settimanali disponibili sono cinque (e non sei).
2.3. Il sabato è rimasto, dunque, un giorno lavorativo ad ogni effetto, ad eccezione del compimento di atti processuali “fuori dell’udienza”, per i quali, come la notificazione dell’atto d’impugnazione, è stato eccezionalmente equiparato al giorno festivo (Cass. n. 17280 del 2023, in motiv.).
2.4. Ne consegue che, contrariamente a quanto eccepito dalla controricorrente, il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, in quanto scadente venerdì 1/11/2019, è stato prorogato ex lege dapprima a sabato 2/11/2019 e poi a domenica 3/11/2019 e, infine, a lunedì 4/11/2019, quando, in effetti, il ricorso è stato, infine, notificato.
3.1. Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 49, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 270/1999, dell’art. 69-bis, commi 1° e 2°, l.fall. nonché dell’art. 67 l.fall., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., e la nullità del procedimento, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha escluso che, al momento della proposizione della domanda (e cioè il 15/1/2015), era già scaduto il termine triennale previsto dall’art. 69-bis, comma 2°, l.fall., omettendo, tuttavia, di considerare che, in caso di amministrazione straordinaria preceduta da un concordato preventivo, il termine triennale per la proposizione dell’azione revocatoria comincia a decorrere, al pari di quello per la determinazione del periodo sospetto, dalla data in cui, con ricorso pubblicato nel registro delle imprese il 5/4/2011, la società debitrice aveva chiesto di essere ammessa alla procedura del concordato preventivo.
3.2. Il motivo (a prescindere dal riferimento alla data di pubblicazione della domanda di concordato in luogo di quella, invocata nel corso del giudizio di merito, di apertura della procedura) è infondato: ma la motivazione resa dalla corte d’appello (per affermare la corretta statuizione di tempestività dell’azione) dev’essere corretta.
3.3. L’art. 49 del d.lgs. n. 270/1999 prevede, in effetti, che: - “1. Le azioni per la dichiarazione di inefficacia e la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare possono essere proposte dal commissario straordinario soltanto se è stata autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali, salvo il caso di conversione della procedura in fallimento”; - “2. I termini stabiliti dalle disposizioni indicate nel comma 1 si computano a decorrere dalla dichiarazione dello stato di insolvenza. Tale disposizione si applica anche in tutti i casi in cui alla dichiarazione dello stato di insolvenza segua la dichiarazione di fallimento”.
3.4. L’art. 49 cit., come emerge dal suo tenore testuale, si limita, quindi, a fare espresso rinvio esclusivamente alle “azioni per … la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare” ed ai “termini stabiliti”, ai fini della determinazione del periodo sospetto, “dalle disposizioni indicate nel comma 1” ed al loro computo dalla dichiarazione d’insolvenza (anche in caso di successivo fallimento) ovvero (in applicazione della norma, compresa nel predetto rinvio, prevista dall’art. 69-bis, comma 2°, l.fall.) dalla “data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese”: non anche ai termini (di tre/cinque anni) per la promozione di tali azioni, così come previsti dalla norma (tra l’altro sopravvenuta) dell’art. 69-bis, comma 1°, l.fall., che non trova, pertanto, applicazione, neppure (trattandosi di norma speciale) in via analogica, ai casi (come quello in esame) non previsti dalla stessa.
3.5. Ciò comporta che, nell’amministrazione straordinaria, in virtù del rinvio operato dall’art. 49 cit., il termine di sei mesi stabilito dall’art. 67, comma 2°, l.fall. si computa dalla data della dichiarazione d’insolvenza (anche in caso di successivo fallimento) o, come detto, dalla “data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese” (vale a dire, nel caso in esame, dal 5/4/2011): ma il termine per l’esercizio dell’azione prevista dall’art. 67, comma 2°, l.fall. non è quello (di tre/cinque anni) stabilito dall’art. 69- bis, comma 1°, l.fall. bensì, in difetto di una norma che deponga in modo diverso, quello di prescrizione, pari a cinque anni (Cass.
n. 31194 del 2018, in motiv.; Cass. n. 35272 del 2023, in motiv.), stabilito dall’art. 2903 c.c. (cfr. Cass. n. 12317 del 1999, in motiv.).
3.6. Tale termine, peraltro, decorre non già dalla data della dichiarazione d’insolvenza (e, tanto meno, dalla pubblicazione della domanda di ammissione della società debitrice al concordato preventivo, come pretende la ricorrente) ma dal (successivo) momento in cui il programma di cessione dei beni aziendali è stato approvato.
3.7. L’art. 49, comma 1, in fine, cit., a norma del quale l’azione revocatoria fallimentare può essere proposta dal commissario straordinario “soltanto se è stata autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali”, prevede, in effetti, l’avveramento di una specifica condizione per l’esercizio dell’azione.
3.8. Ne consegue che, a differenza di quanto avveniva in base alla precedente disciplina di cui alla l. n. 95/1979, non è più sufficiente la nomina del commissario straordinario quale unico soggetto legittimato all’esercizio dell’azione perché il diritto ai sensi dell’art. 2935 c.c. possa essere fatto valere, essendo a tal fine anche necessario, affinché “le azioni .... possano essere proposte”, che sia stata, appunto, “autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali”, che costituisce, pertanto, il momento a partire dal quale (soltanto) le azioni possono essere esercitate e che segna, in definitiva, la data di iniziale decorrenza del termine quinquennale di prescrizione (Cass. n. 35272 del 2023; Cass. n. 31194 del 2019; Cass. n. 31194 del 2018; Cass. n. 21516 del 2017). Può dunque essere riassuntivamente enunciato il seguente principio di diritto: “Nell’amministrazione straordinaria, l’art. 49 del d.lgs. n. 270/1999 si limita a fare espresso rinvio esclusivamente alle <<azioni per … la revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori previste dalle disposizioni della sezione III del capo III del titolo II della legge fallimentare>> e ai <<termini stabiliti>>, ai fini della determinazione del periodo sospetto, <<dalle disposizioni indicate nel comma 1>>, non anche ai termini per promuovere tali azioni così come previsti dalla norma sopravvenuta di cui all’art. 69-bis, comma 1°, l.fall., che non trova, pertanto, applicazione, neppure in via analogica; si tratta infatti di norma speciale, sicché, in difetto di una norma che deponga in modo diverso, l’azione revocatoria prevista dal comb.disp. degli artt. 67 l.fall. e 49 cit. si prescrive nel termine di cinque anni stabilito dall’art. 2903 c.c., con decorrenza dal momento in cui il programma di cessione dei beni aziendali è stato approvato”.
3.9. Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando la nullità del procedimento, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha escluso che i pagamenti impugnati fossero sottratti all’azione revocatoria in applicazione dell’esimente prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. a), l.fall. sul rilievo che gli stessi erano stati operati dalla società debitrice in esecuzione del “piano di rientro” concordato tra le parti in data 22/7/2010, quando l’esposizione debitoria della società aveva raggiunto l’importo di €. 376.335,80, e che tali pagamenti erano stati, di conseguenza, eseguiti entro termini di adempimento diversi e successivi rispetto a quelli “d’uso” fino ad allora osservati, omettendo, però, di considerare che, come emerge dai documenti prodotti in giudizio, nell’estate del 2010, i termini in uso tra le parti erano già stati pattuiti in 120 giorni, ossia nei medesimi termini di pagamenti riproposti nel piano di rientro.
3.10. Il motivo è infondato. Non v’è dubbio che, come questa Corte ha più volte affermato: - l’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. a), l.fall. si configura come un’eccezionale deroga alla regola generale secondo cui, in linea di principio, tutti gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili, pur se non effettuati con mezzi normali nel periodo sospetto, sono suscettibili di revocatoria fallimentare (Cass. n. 17949 del 2023; Cass. n. 27939 del 2020, in motiv.); - il rinvio operato dall’art. 67, comma 3°, lett. a), cit. ai “termini d’uso”, ai fini dell’esenzione dei pagamenti (del prezzo dovuto per l’acquisto di) “beni e servizi” effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, attiene alle modalità di pagamento concretamente invalse tra le parti (Cass. n. 7580 del 2019; Cass. n. 25162 del 2016; più di recente, Cass. n. 35272 del 2023, in motiv.); - l’art. 67, comma 3°, lett. a), cit., consente, dunque, di escludere la revocabilità dei pagamenti che siano stati eseguiti e accettati in termini diversi rispetto a quelli contrattualmente previsti tutte le volte in cui tali pagamenti, in ragione dei nuovi accordi intercorsi tra le parti, non possano essere considerati “in ritardo”, trattandosi, per contro, di adempimenti esatti (v. Cass. n. 27939 del 2020).
3.11. Resta, nondimeno, la necessità, ai fini dell’operatività dell’esenzione in parola, che si tratti di pagamenti che, nel rispetto dei termini determinati dagli accordi intercorsi tra le parti, costituiscano pur sempre il corrispettivo di “forniture di beni e servizi” eseguite in favore del debitore poi fallito “che s’inseriscano nel ciclo produttivo dell’impresa, in modo tale da evitare che il timore della revocatoria possa comportare l’interruzione dell’attività e la conseguente disgregazione dell’azienda” (Cass. n. 19373 del 2021).
3.12. L’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. a), cit., è, infatti, volta a favorire la conservazione dell’impresa nell’ottica dell’uscita dalla crisi, (solo per questo) escludendo la revocabilità dei pagamenti (del prezzo) di forniture riferibili all’oggetto tipico dell’attività imprenditoriale, che, seppur eseguiti con modalità e in tempi diversi rispetto a quelli contrattualmente previsti, sono nondimeno corrispondenti a pratiche commerciali consolidate e stabili in precedenza invalse tra le parti (Cass. n. 30127 del 2024).
3.13. L’esenzione in esame, dunque, in quanto direttamente “intesa a favorire la conservazione dell’impresa nell’ottica dell’uscita dalla crisi”, trova esclusiva applicazione per i pagamenti aventi ad oggetto il prezzo delle “forniture” (che innervano la produzione di beni e servizi), e cioè i contratti che (pur se riferiti a servizi non essenziali alla prosecuzione dell’attività d’impresa: Cass. n. 12837 del 2023, in motiv.) sono “immediatamente espressivi dell’esercizio dell’attività d’impresa o comunque riferibili all’oggetto tipico dell’attività dell’imprenditore, con esclusione delle operazioni che con quell’attività non abbiano un nesso diretto” (cfr. Cass. n. 8900 del 2024, in motiv.).
3.14. L’esenzione prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. a), cit. non può, per contro, operare nel caso in cui, a fronte del (già radicatosi) inadempimento del debitore poi fallito all’obbligo di pagare il prezzo nel rispetto dei termini d’uso (in quanto contrattualmente pattuiti con il creditore ovvero corrispondenti alle pratiche commerciali consolidate e stabili in precedenza invalse con quest’ultimo), il pagamento delle somme dovute sia stato successivamente eseguito dal debitore medesimo entro il termine (convenzionalmente fissato ex post) per il suo “rientro” spontaneo dalla debitoria complessivamente cumulata.
3.15. La sentenza impugnata ha prestato osservanza ai principi esposti: lì dove ha ritenuto che i pagamenti impugnati non erano riconducibili all’ambito di applicazione dell’esenzione invocata dalla creditrice sul rilievo in fatto che gli stessi erano stati effettuati dalla società debitrice entro “termini di adempimento differenti e successivi” rispetto a quelli “originariamente pattuiti” perché, in realtà, volti (non già, ormai, ad adempiere all’obbligo di pagare il prezzo delle forniture convenute tra le parti ma, in ragione della pregressa inosservanza dei termini di pagamento a tal fine pattuiti e della sospensione delle forniture in corso) a dare esecuzione al “piano di rientro” successivamente concordato tra le parti. Può dunque essere riassuntivamente enunciato il seguente principio di diritto: “I pagamenti eseguiti entro termini di adempimento differenti rispetto a quelli originariamente pattuiti perché volti, rispetto all’obbligo inadempiuto di pagare il prezzo delle forniture già ricevute, a dare esecuzione ad un piano di rientro successivamente concordato tra le parti e all’interno dell’unico contesto commerciale così residuato tra le stesse, non sono riconducibili all’esimente prevista dall’art. 67, comma 3°, lett. a), l.fall.”.
3.16. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione delle regole che presiedono all’accertamento presuntivo della scientia decoctionis ai sensi dell’art. 2729 c.c. e la nullità del procedimento per non aver adeguatamente valutato le gravi, precise e concordanti presunzioni in violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che sussistevano plurimi ed univoci elementi convergenti nel senso dell’effettiva conoscenza in capo all’appellante dello stato d’insolvenza in cui versava la società debitrice, senza, tuttavia, procedere ad un giudizio complessivo degli indizi raccolti in giudizio, i quali, infatti, a partire dalla prosecuzione delle forniture in favore della stessa, in realtà mai interrotte, e dalla notevole distanza tra le rispettive sedi operative, avrebbero escluso che la società creditrice fosse consapevole, al momento dei pagamenti, dello stato d’insolvenza in cui versava la debitrice.
3.17. Il motivo è inammissibile. La corte d’appello, infatti, ha ritenuto che sussistessero “plurimi ed univoci elementi convergenti nel senso dell’effettiva conoscenza, nel periodo sospetto, da parte dell’appellante, dell’insolvenza della GDM, ormai incapace di far fronte con mezzi normali alle proprie obbligazioni”, escludendo, per contro, che “la prosecuzione del rapporto contrattuale con l’imprenditore poi fallito o divenuto insolvente” potesse essere, sul punto, rilevante.
3.18. Si tratta, com’è evidente, di un apprezzamento in fatto che la ricorrente non ha utilmente censurato (nell’unico modo a tal fine possibile, e cioè, a norma dell’art. 360 n. 5 c.p.c.) con la precisa e puntuale deduzione (a norma degli artt. 366, comma 1°, n. 6, e 369, comma 2°, n. 4, c.p.c.) dei fatti storici controversi, principali o secondari, risultanti dal testo della sentenza stessa ovvero dagli atti processuali ed aventi carattere decisivo, nel senso che, ove esaminati, avrebbero senz’altro imposto al giudice di merito di ricostruire la vicenda storica in termini tali da integrare l’ipotesi normativa invocata dalla parte poi ricorrente, e cioè la certa esclusione della scientia decoctionis in capo alla stessa.
3.19. L’omesso esame di uno o più elementi istruttori, per contro, non dà luogo, a differenza di quanto pretende la ricorrente, al vizio in parola qualora il fatto rilevante in causa, e cioè la consapevolezza in capo all’accipiens dello stato d’insolvenza in cui versava la debitrice poi assoggettata a fallimento (o, come nel caso in esame, ad amministrazione straordinaria), sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. SU n. 8053 del 2014; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.).
3.20. Questa Corte, del resto, ha ripetutamente affermato che: - la conoscenza da parte del creditore dello stato di insolvenza del debitore, al fine della revocatoria fallimentare, secondo la previsione dell’art. 67, comma 2°, l.fall., dev’essere effettiva e non meramente potenziale (Cass. n. 25635 del 2017; Cass. n. 13169 del 2020); - agli effetti della revoca, pertanto, assume rilievo non la semplice conoscibilità oggettiva dello stato di insolvenza dell’imprenditore ma soltanto la concreta situazione psicologica del creditore al momento del pagamento impugnato (Cass. n. 27070 del 2022, in motiv.; Cass. n. 25635 del 2017), la quale, tuttavia, può essere desunta anche da semplici indizi (Cass. n. 3081 del 2018), sempre che questi, in ragione della loro gravità, precisione e concordanza, siano tali da far presumere l’effettiva scientia decoctionis da parte del creditore che riceve il pagamento (Cass. n. 4762 del 2007; Cass. n. 14978 del 2007; Cass. n. 5265 del 2010; Cass. n. 3299 del 2017; Cass. n. 3854 del 2019; Cass. n. 29257 del 2019; Cass. n. 13169 del 2020), nel senso che quest’ultimo, facendo uso della normale prudenza ed avvedutezza, rapportata alle sue qualità personali e professionali, nonché alle condizioni in cui si è trovato concretamente ad operare, non possa non aver percepito i sintomi rivelatori dello stato di decozione in cui versava il debitore (cfr. Cass. n. 27070 del 2022; Cass. n. 3081 del 2018; Cass. n. 18196 del 2012); - la scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l’esistenza del fatto ignoto costituiscono, peraltro, un apprezzamento di fatto che, se (come nel caso in esame) legittimamente motivato (e cioè in modo non apparente, perplesso o contraddittorio: Cass. SU n. 8053 del 2014), sfugge al controllo di legittimità (Cass. n. 3336 del 2015; Cass. n. 3854 del 2019).
3.21. La valutazione delle prove raccolte in giudizio, infatti, al pari del giudizio relativo all’effettiva ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. (Cass. n. 1234 del 2019; Cass. n. 1216 del 2006) e all’idoneità degli elementi presuntivi dotati di tali caratteri a dimostrare, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, i fatti ignoti da provare (Cass. n. 12002 del 2017), costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 42 del 2009; Cass. n. 11511 del 2014; Cass. n. 16467 del 2017).
3.22. Il giudice di legittimità, per contro, ha soltanto la facoltà del controllare, sotto il profilo della coerenza logico- formale, le argomentazioni svolte in ordine alla ricognizione della fattispecie concreta dal giudice di merito, così come esposte nella pronuncia impugnata, cui spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis, Cass. n. 40872 del 2021, in motiv.; Cass. n. 21098 del 2016; Cass. n. 27197 del 2011).
3.23. Il compito di questa Corte, infatti, non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), anche se il ricorrente prospetta (con le prove ammesse ovvero offerte) un migliore e più appagante (ma pur sempre soggettivo) coordinamento dei dati fattuali acquisiti in giudizio (Cass. n. 12052 del 2007), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato effettivamente conto, in ordine ai fatti storici rilevanti in causa, delle ragioni del relativo apprezzamento, come imposto dall’art. 132 n. 4 c.p.c., e se tale motivazione sia solo apparente ovvero perplessa o contraddittoria (ma non più se sia sufficiente: Cass. SU n. 8053 del 2014), e cioè, in definitiva, se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato in ordine all’accertamento dei fatti storici rilevanti ai fini della decisione sul diritto azionato, si sia mantenuto, com’è accaduto nel caso in esame, nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.).
4. Il ricorso è, dunque, infondato e dev’essere, pertanto, rigettato.
5. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
6. La Corte dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228/2012, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di lite, che liquida in €. 9.200,00, di cui €. 200,00 per esborsi, oltre accessori e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228/2012, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.