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19 aprile 2023
Civile e processo
Il giudice non può tagliare di oltre la metà, rispetto ai parametri medi, il compenso del difensore
Superata l'idea che i minimi tariffari siano ex se incompatibili con il diritto euro-unitario della concorrenza e ricordata l'evoluzione della liquidazione dei compensi a favore degli avvocati, la Suprema Corte ha affermato che il giudice non può mai applicare una riduzione superiore al 50% dei parametri medi applicabili.
di Avv. Fabio Valerini
Il caso

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La Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 10438 del 19 aprile 2023, dopo aver ripercorso l'evoluzione delle “tariffe” e dei “parametri”, ha esaminato la questione della possibilità, o no, del giudice di poter liquidare il compenso dell'avvocato applicando riduzioni superiori al 50% dei valori medi.

Nel caso di specie un avvocato aveva patrocinato una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato nell'ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione (in particolare quel procedimento aveva ad oggetto il dissenso del genitore al rilascio del passaporto in favore della figlia minore).

Avverso la liquidazione delle sue spettanze, l'avvocato aveva proposto opposizione lamentando l'incongruità della liquidazione operata dal giudice per 101,25 euro.

Il Tribunale, in sede di opposizione, aveva ritenuto che quell'importo fosse congruo sottolineando la vincolatività dei parametri di cui al DM n. 55/2014, sia nei valori massimi che in quelli minimi, pur a seguito della novella di cui al DM n. 37/2018.

Il giudice del merito, tenuto conto dei valori di cui alla tabella 7 del Decreto ministeriale, aveva individuato l'importo di Euro 405 anche per la modestia delle questioni trattate e della durata del procedimento (definito con decreto reso fuori udienza) cui applicare una riduzione del 62,5 %, con ulteriore decurtazione di un terzo, trattandosi di compensi liquidati in favore del difensore di parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.

Il diritto

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Secondo l'avvocato ricorrente la liquidazione operata dal giudice del merito non aveva tenuto conto né delle ragioni dell'opposizione né alla necessità di fare riferimento, per la determinazione dello scaglione di riferimento con riguardo alla volontaria giurisdizione, alle cause di valore indeterminabile (e non già, come sembrava aver ritenuto il giudice di merito, lo scaglione fino a 5.200 euro riferibile soltanto alle controversie di valore determinabile) e non applicando nessuno dei parametri “positivi” per l'avvocato (come la complessità delle questioni di fatto, l'urgenza dell'affare e il positivo risultato conseguito dal proprio cliente).

Ebbene, la Suprema Corte ha preso le mosse dalla lettera dell'art. 5 comma 6 sulle cause di valore indeterminabile secondo cui queste «si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a euro 26.000,00 e non superiore a euro 260.000,00, tenuto conto dell'oggetto e della complessità della controversia. Qualora la causa di valore indeterminabile risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, e la rilevanza degli effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale, il suo valore si considera di regola e a questi fini entro lo scaglione fino a euro 520.000,00».

Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità questa norma «non impedisce al giudice di scendere al di sotto dei detti limiti, e pertanto allo scaglione immediatamente inferiore, quando il valore effettivo della controversia non rifletta i parametri “di regola” predisposti dal legislatore, ossia quando sussistano particolarità della singola lite che rendano giustificato il ricorso ad uno scaglione più basso, in rapporto “all'oggetto e alla complessità della controversia».

Una volta, dunque, che il Tribunale abbia motivato – come nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto aver fatto – è possibile una liquidazione che scenda allo scaglione immediatamente inferiore.

La lente dell'autore

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Secondo l'avvocato ricorrente un ulteriore motivo di illegittimità della liquidazione risiedeva nella duplice diminuzione di oltre la metà in termini percentuali oltre il limite massimo previsto dalla norma nel 50%.

Orbene, la determinazione degli onorari dell'avvocato (sia nell'ipotesi in cui non vi è stato accordo con il cliente sia nell'ipotesi di liquidazione a carico della controparte sia, infine, nel caso di patrocinio a spese dello stato) è sempre stata questione politicamente rilevante e molto delicata.

La Suprema Corte, infatti, ha ricordato che se nel sistema del codice civile del 1942 e dell'art. 24 della legge n. 794 del 13 giugno 1942 era prevista l'inderogabilità dei minimi tariffari, la riforma Bersani (D.L. n. 223 del 2006) aveva abrogato tutte le norme che prevedevano l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime sul presupposto che quella scelta fosse imposta dal principio comunitario della libera concorrenza.

La normativa successiva (e, cioè, la legge professionale degli avvocati e il decreto parametri) hanno confermato la possibilità di deroga ai valori minimi e massimi ricorrendo all'espressione “di regola” purché il giudice ne dia conto in motivazione e purché non liquidi somme irrisorie.

Questa possibilità era, poi, venuta meno nel 2018 quando un decreto ministeriale aveva previsto che la riduzione, rispetto al valore medio di liquidazione, non potesse essere superiore alla misura del 50% (per la sola fase istruttoria fino al 70%) eliminando l'espressione “di regola” (che aveva portato, come visto, a liquidazioni sotto i minimi tariffari).

E ciò in modo compatibile con il diritto euro-unitario (come confermato dalla Corte di Giustizia) e in linea con gli ultimi approdi della legislazione (come la soppressione della formula “di regola” dal D.M. 55 del 2014 per ridurre la discrezionalità del giudice) e che, da ultimo, qualche giorno fa, che ha rafforzato la disciplina dell'equo compenso per i professionisti (sulla quale il legislatore già si era espresso nel 2017).

La presenza di minimi sotto i quali non poter scendere – e quindi il rapporto tra compenso e ed equo compenso - realizza «una garanzia di tipo economico che si traduce nella tutela dell'indipendenza e dell'autonomia del professionista e, che, oltre ad assicurare la qualità e il livello della prestazione offerta, si riflette anche nella adeguata assicurazione del diritto di difesa, impedendo che possano essere superati gli standard minimi di diligenza e cura degli interessi del cliente, che viceversa tariffe eccessivamente mortificanti potrebbero compromettere».

Per queste ragioni la Suprema Corte ha affermato il principio di diritto in base al quale «ai fini della liquidazione in sede giudiziale del compenso spettante all'avvocato nel rapporto col proprio cliente in caso di mancata determinazione consensuale, come ai fini della liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente, ovvero in caso di liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al beneficio patrocinio a spese dello Stato nella vigenza dell'art. 4 comma 1 e 12, comma 1 del d.m. n. 55 del 2014, come modificati dal d.m. n. 37 del 2018, il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di cui alle tabelle allegate».

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