|
La Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 10438 del 19 aprile 2023, dopo aver ripercorso l'evoluzione delle “tariffe” e dei “parametri”, ha esaminato la questione della possibilità, o no, del giudice di poter liquidare il compenso dell'avvocato applicando riduzioni superiori al 50% dei valori medi. Nel caso di specie un avvocato aveva patrocinato una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato nell'ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione (in particolare quel procedimento aveva ad oggetto il dissenso del genitore al rilascio del passaporto in favore della figlia minore). Avverso la liquidazione delle sue spettanze, l'avvocato aveva proposto opposizione lamentando l'incongruità della liquidazione operata dal giudice per 101,25 euro. Il Tribunale, in sede di opposizione, aveva ritenuto che quell'importo fosse congruo sottolineando la vincolatività dei parametri di cui al DM n. 55/2014, sia nei valori massimi che in quelli minimi, pur a seguito della novella di cui al DM n. 37/2018. Il giudice del merito, tenuto conto dei valori di cui alla tabella 7 del Decreto ministeriale, aveva individuato l'importo di Euro 405 anche per la modestia delle questioni trattate e della durata del procedimento (definito con decreto reso fuori udienza) cui applicare una riduzione del 62,5 %, con ulteriore decurtazione di un terzo, trattandosi di compensi liquidati in favore del difensore di parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato. |
|
Secondo l'avvocato ricorrente la liquidazione operata dal giudice del merito non aveva tenuto conto né delle ragioni dell'opposizione né alla necessità di fare riferimento, per la determinazione dello scaglione di riferimento con riguardo alla volontaria giurisdizione, alle cause di valore indeterminabile (e non già, come sembrava aver ritenuto il giudice di merito, lo scaglione fino a 5.200 euro riferibile soltanto alle controversie di valore determinabile) e non applicando nessuno dei parametri “positivi” per l'avvocato (come la complessità delle questioni di fatto, l'urgenza dell'affare e il positivo risultato conseguito dal proprio cliente). Ebbene, la Suprema Corte ha preso le mosse dalla lettera dell'art. 5 comma 6 sulle cause di valore indeterminabile secondo cui queste «si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a euro 26.000,00 e non superiore a euro 260.000,00, tenuto conto dell'oggetto e della complessità della controversia. Qualora la causa di valore indeterminabile risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, e la rilevanza degli effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale, il suo valore si considera di regola e a questi fini entro lo scaglione fino a euro 520.000,00». Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità questa norma «non impedisce al giudice di scendere al di sotto dei detti limiti, e pertanto allo scaglione immediatamente inferiore, quando il valore effettivo della controversia non rifletta i parametri “di regola” predisposti dal legislatore, ossia quando sussistano particolarità della singola lite che rendano giustificato il ricorso ad uno scaglione più basso, in rapporto “all'oggetto e alla complessità della controversia». Una volta, dunque, che il Tribunale abbia motivato – come nel caso di specie la Suprema Corte ha ritenuto aver fatto – è possibile una liquidazione che scenda allo scaglione immediatamente inferiore. |
|
Secondo l'avvocato ricorrente un ulteriore motivo di illegittimità della liquidazione risiedeva nella duplice diminuzione di oltre la metà in termini percentuali oltre il limite massimo previsto dalla norma nel 50%. Orbene, la determinazione degli onorari dell'avvocato (sia nell'ipotesi in cui non vi è stato accordo con il cliente sia nell'ipotesi di liquidazione a carico della controparte sia, infine, nel caso di patrocinio a spese dello stato) è sempre stata questione politicamente rilevante e molto delicata. La Suprema Corte, infatti, ha ricordato che se nel sistema del codice civile del 1942 e dell'art. 24 della legge n. 794 del 13 giugno 1942 era prevista l'inderogabilità dei minimi tariffari, la riforma Bersani (D.L. n. 223 del 2006) aveva abrogato tutte le norme che prevedevano l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime sul presupposto che quella scelta fosse imposta dal principio comunitario della libera concorrenza. La normativa successiva (e, cioè, la legge professionale degli avvocati e il decreto parametri) hanno confermato la possibilità di deroga ai valori minimi e massimi ricorrendo all'espressione “di regola” purché il giudice ne dia conto in motivazione e purché non liquidi somme irrisorie. Questa possibilità era, poi, venuta meno nel 2018 quando un decreto ministeriale aveva previsto che la riduzione, rispetto al valore medio di liquidazione, non potesse essere superiore alla misura del 50% (per la sola fase istruttoria fino al 70%) eliminando l'espressione “di regola” (che aveva portato, come visto, a liquidazioni sotto i minimi tariffari). E ciò in modo compatibile con il diritto euro-unitario (come confermato dalla Corte di Giustizia) e in linea con gli ultimi approdi della legislazione (come la soppressione della formula “di regola” dal D.M. 55 del 2014 per ridurre la discrezionalità del giudice) e che, da ultimo, qualche giorno fa, che ha rafforzato la disciplina dell'equo compenso per i professionisti (sulla quale il legislatore già si era espresso nel 2017). La presenza di minimi sotto i quali non poter scendere – e quindi il rapporto tra compenso e ed equo compenso - realizza «una garanzia di tipo economico che si traduce nella tutela dell'indipendenza e dell'autonomia del professionista e, che, oltre ad assicurare la qualità e il livello della prestazione offerta, si riflette anche nella adeguata assicurazione del diritto di difesa, impedendo che possano essere superati gli standard minimi di diligenza e cura degli interessi del cliente, che viceversa tariffe eccessivamente mortificanti potrebbero compromettere». Per queste ragioni la Suprema Corte ha affermato il principio di diritto in base al quale «ai fini della liquidazione in sede giudiziale del compenso spettante all'avvocato nel rapporto col proprio cliente in caso di mancata determinazione consensuale, come ai fini della liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente, ovvero in caso di liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al beneficio patrocinio a spese dello Stato nella vigenza dell'art. 4 comma 1 e 12, comma 1 del d.m. n. 55 del 2014, come modificati dal d.m. n. 37 del 2018, il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di cui alle tabelle allegate». |
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza (ud. 28 febbraio 2023) 19 aprile 2023, n. 10438
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Il Tribunale di Grosseto, decidendo sull’opposizione proposta dall’avv. L.M., ex art. 170 del DPR n. 115 del 2002, avverso il decreto di liquidazione dei compensi emesso in data 18/2/2020 in favore dell’opponente, ed in relazione ai compensi maturati per la difesa prestata in un procedimento di volontaria giurisdizione (dissenso del genitore al rilascio del passaporto in favore della figlia minore) svoltosi dinanzi allo stesso Tribunale, in favore di M.G., rigettava l’opposizione, che verteva solo sulla congruità della liquidazione.
Il Tribunale reputava che il compenso era stato liquidato in misura pari ad € 101,25, per un importo che appariva congruo sottolineando la vincolatività dei parametri di cui al DM n. 55/2014, sia nei valori massimi che in quelli minimi, pur a seguito della novella di cui al DM n. 37/2018.
Pertanto tenuto conto dei valori di cui alla tabella 7 del citato DM, per l’importo di € 405,00, avuto riguardo alla modestia delle questioni trattate ed alla durata del procedimento (definito con decreto resi fuori udienza), era giustificata una riduzione del 62,5 %, essendo quindi corretta la liquidazione impugnata, dovendosi infatti procedere ad una ulteriore decurtazione di un terzo, trattandosi di compensi liquidati in favore del difensore di parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Per la cassazione di tale decreto (rectius “ordinanza”, trattandosi di decisione emessa all’esito di opposizione ex art. 170 del DPR n. 115/2002) propone ricorso L.M. sulla base di quattro motivi.
Il Ministero intimato non ha svolto difese in questa fase.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5, DM n.55/2014 quanto alla determinazione del valore della controversia, in relazione all’art.360, co. 1, n.3, c.p.c.
Si sostiene che il decreto in questione non avrebbe minimamente tenuto conto delle ragioni dell’opposizione, omettendo ogni necessaria valutazione circa il valore della controversia.
Infatti, il giudice di merito avrebbe dovuto far riferimento alle cause di valore indeterminabile, tenuto conto delle questioni dibattute nel giudizio presupposto (opposizione di un genitore alla richiesta dell’altro genitore di rilascio del passaporto in favore della figlia minore), così che in base all’art. 5 VI co.,
del DM n.55/2014, “…le cause di valore indeterminabile si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a euro 26.000,00 e non superiore a euro 260.000,00, tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia…”.
Dall’importo prescelto per la liquidazione, tratto dalla Tabella 7 del DM, si ricava che il Tribunale abbia inteso fare riferimento e applicare alla controversia lo scaglione più basso (quello da 0 a 5.200 €) destinato, invero, alle sole questioni di valore economico determinabile, violando la norma in questione e, in particolare, il comma VI dell’art. 5, che è da considerarsi un vero e proprio parametro normativo vincolante di fonte legale e, come tale, non derogabile dal giudice. Peraltro, la stessa giurisprudenza di legittimità nell’interpretare le norme in esame ha affermato che “…la frase ‘di valore non inferiore a 26.000 euro’ non sta a significare che i 26.000 euro rappresentano il valore massimo, ma, contrario, il valore da cui partire per individuare lo scaglione applicabile…” (così Cass. Civ., Sez. VI, Ord. 25/VI/2018, n.16671).
Ne consegue che i compensi professionali relativi a causa (di volontaria giurisdizione) di valore indeterminabile devono essere sempre calcolati secondo lo scaglione tariffario che va dai 26 mila ai 260 mila €, con la conseguente erronea individuazione della base di partenza per la determinazione del compenso dovuto.
Il secondo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 del DM n.55/2014, come modif. dal DM n.37/2018 quanto all’arbitraria e immotivata esclusione di taluni parametri discrezionali.
Infatti, il provvedimento impugnato ha preso in esame solo quei parametri discrezionali negativi per il difensore, e cioè quelli comportanti una diminuzione del compenso, senza che tale scelta sia stata adeguatamente supportata dal punto di vista logico e motivazionale.
Sono stati trascurati la complessità delle questioni di fatto, l’urgenza dell’affare, il positivo risultato conseguito dal cliente ed il valore intrinseco dell’affare.
Il terzo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo con riferimento alla questione di fatto dedotta quale parametro di oggettiva complessità della controversia.
Infatti, anche a voler convenire che la questione sub iudice non abbia comportato la disamina di complesse questioni di diritto, non altrettanto può dirsi in relazione alla questione di fatto che essa implicava, essendosi posta la necessità di impedire che la richiedente il passaporto per la figlia potesse in tal modo procedere al definitivo trasferimento della minore all’estero, ed in un paese di cui occorreva verificare l’effettiva adesione a trattati internazionali sulla protezione dalla sottrazione illegittima di minori.
I motivi, che possono essere congiuntamente espianti per la loro connessione, sono infondati.
Quanto alla determinazione del valore della controversia, non ignora il Collegio come nella giurisprudenza di questa Corte sia stato affermato il principio secondo cui (Cass. n. 16671/2018) l’espressione "Di valore non inferiore a 26.000 euro" non sta a significare che i 26.000 euro rappresenterebbero il valore massimo ma, al contrario, il valore da cui partire per individuare lo scaglione applicabile (conf. Cass. n. 24076/2019; Cass. n. 22330/2020), tuttavia deve tenersi conto proprio della formulazione letterale della norma de qua ( art. 5 co. 6 del DM n. 55/2014 nella formulazione applicabile ratione temporis, prima delle modifiche di cui al DM n. 147/2022), secondo cui “Le cause di valore indeterminabile si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a euro 26.000,00 e non superiore a euro 260.000,00, tenuto conto dell'oggetto e della complessità della controversia. Qualora la causa di valore indeterminabile risulti di particolare importanza per lo specifico oggetto, il numero e la complessità delle questioni giuridiche trattate, e la rilevanza degli effetti ovvero dei risultati utili, anche di carattere non patrimoniale, il suo valore si considera di regola e a questi fini entro lo scaglione fino a euro 520.000,00.
La dizione letterale ha quindi legittimato l’affermazione del principio di diritto, al quale la Corte intende assicurare continuità, secondo cui l'art. 5, comma 6, del D.M. 55 del 2014 - secondo cui le cause di valore indeterminabile si considerano normalmente di valore non inferiore ad euro 26.000 e non superiore ad euro 260.000 - non impedisce al giudice di scendere al di sotto dei detti limiti, e pertanto allo scaglione immediatamente inferiore, quando il valore effettivo della controversia non rifletta i parametri "di regola" predisposti dal legislatore, ossia quando sussistano particolarità della singola lite che rendano giustificato il ricorso ad uno scaglione più basso, in rapporto "all'oggetto e alla complessità della controversia" (Cass. n. 968/2022; Cass. n. 38466/2021, secondo cui alla lettera della norma va assegnato il significato di individuare uno scaglione cui il giudice deve in genere attenersi, ad eccezione dei casi in cui sussistano particolarità della singola lite che rendano giustificato il ricorso ad uno scaglione più basso, in rapporto "all'oggetto e alla complessità della controversia", di tal che lo scaglione tariffario per le cause di valore indeterminabile di bassa complessità può essere quello compreso tra € 5201,00- 26000,00; conf. Cass. 29821/2019; Cass. 11887/2019).
L'art. 5, comma 6, D.M. 55/2014 non impedisce - dunque - al giudice di scendere al di sotto dei limiti indicati dalle disposizioni, allorquando il valore effettivo della controversia non rifletta i parametri "di regola" predisposti dal legislatore, impregiudicato il dovere di dare adeguatamente conto in motivazione delle ragioni delle decisione (Cass. 11887/2019), dovere che nello specifico il tribunale ha compiutamente assolto, evidenziando la particolare modestia delle questioni trattate e la sollecita definizione del procedimento.
Una volta quindi ritenuto soddisfatto l’iter argomentativo per giustificare l’applicazione dello scaglione sulla cui scorta il Tribunale ha individuato il compenso base, ne consegue altresì che si palesino prive di fondamento le ulteriori due censure del ricorrente che investono evidentemente apprezzamenti di merito, quali la mancata valutazione di concorrenti circostanze che avrebbero dovuto indurre ad una valutazione diversa circa la complessità e la delicatezza della controversia, questioni che risultano evidentemente sottratte al sindacato del giudice di legittimità.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art.4 comma 1 del DM n.55/2014, come modif. dal DM n.37/2018 nonché dell’art.24 della L. n.794/1942 quanto all’applicazione di una duplice diminuzione e, comunque, all’errata percentuale di diminuzione.
Si lamenta che il provvedimento impugnato ha operato una duplice diminuzione, non consentita dall’art. 4 citato, in quanto sull’importo determinato in misura corrispondente ai minimi parametrici, il Tribunale ha operato un’ulteriore riduzione di oltre la metà in termini percentuali, che però non è consentita a seguito delle modifiche apportat6e al DM n. 55/2014 dal DM n. 37/2018. In subordine si deduce che il provvedimento impugnato ha operato una diminuzione del 62,5%, percentuale priva di conforto normativo e che si discosta dalla percentuale massima di riduzione che le norma fissa nel 50%, stante anche l’assenza di una suddivisione dell’attività per fasi quanto ai procedimenti di volontaria giurisdizione.
Il motivo è fondato.
Il motivo pone quindi all’attenzione della Corte la questione circa la possibilità per il giudice, nel caso di assenza di accordo tra le parti circa la determinazione del compenso, ovvero in caso di liquidazione delle spese di lite a carico del soccombente, ovvero in caso di liquidazione del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, di poter derogare, sia pure in maniera motivata, ai minimi dettati dai parametri dettati in base alla previsione di cui all’art. 13 della legge n. 247/2012, per effetto della novella del DM n. 55 del 2014, operata dal DM n. 37 del 2018, e confermata dalle previsioni di cui al DM n. 147 del 2022.
Occorre a tal fine ricordare che il codice del 1942 affida la determinazione del compenso dei professionisti intellettuali ai criteri individuati dall'art. 2233 c.c., ordinati secondo una specifica gerarchia entro la quale figurano anche le tariffe. La peculiarità di queste ultime, nell’ambito della professione forense, in passato, emergeva dall'art. 24, l. 13 giugno 1942, n. 794, il quale, a pena di nullità, imponeva l'inderogabilità degli onorari minimi, divieto che, fra l'altro, veniva interpretato in maniera rigorosa dalla giurisprudenza, che riteneva che in tal modo fosse assicurato il rispetto del criterio di adeguatezza al decoro della professione posto dall'art. 2233, comma 2, c.c., per garantire una libera concorrenza sul mercato e per proteggere i clienti dall'imposizione di compensi eccessivamente elevati.
La c.d. riforma Bersani (d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. n. 248/2006), ha comportato l'abrogazione di tutte le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano, con riferimento alle prestazioni professionali, « l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime », sul presupposto che tale scelta fosse imposta dalla normativa di rango comunitario, che non tollerava più un’imposizione vincolante delle tariffe professionali, essendo incompatibile con i principi comunitari di libera concorrenza e libera circolazione delle persone e dei servizi (e ciò sebbene, come si dirà oltre, tale incompatibilità della precedente disciplina con gli obblighi derivanti non avesse avuto seguito nella giurisprudenza della Corte di Giustizia).
L'art. 9, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, ha provveduto all'abrogazione delle tariffe (comma 1), sostituendole con i parametri (comma 2), ed a tale intervento normativo fece seguito l'emanazione della l. 31 dicembre 2012, n. 247, recante la nuova disciplina dell'ordinamento forense e dunque concernente, a differenza del d.l. n. 1/2012, soltanto gli avvocati e non anche le altre figure di professionisti, ma l'art. 13, commi 6 e 7, di tale legge riprende i parametri già introdotti per tutte le professioni intellettuali dal d.l. n. 1/2012.
Nelle more dell’emanazione della legge n. 247/2012, stante l’avvenuta abrogazione delle tariffe, era stato però emanato il DM n. 140/2012, volto a fissare i nuovi criteri di determinazione dei compensi dei professionisti forensi.
Per quanto rileva ai fini della questione in esame il decreto n. 140 contiene l'esplicita affermazione del carattere sussidiario della liquidazione giudiziale del compenso rispetto all'accordo delle parti e della possibilità di ricorrere all'analogia per risolvere i casi non espressamente menzionati nel regolamento (entrambi esplicitati nell'art. 1, comma 1), nonché l'affermazione della non vincolatività delle soglie indicate per la determinazione del compenso, nelle tabelle allegate al regolamento, anche a mezzo di percentuale sia nei minimi che nei massimi.
L’art. 13 della legge n. 247/2012, per ciò che attiene alla determinazione dei compensi, al comma 6, dispone che: “I parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”, ed al successivo comma 7 precisa che: “I parametri sono formulati in modo da favorire la trasparenza nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali e l’unitarietà e la semplicità nella determinazione dei compensi”.
In attuazione di tale norma è stato poi emesso il DM 10 marzo 2014, n. 55, che sostituito integralmente, per gli esercenti la professione forense, sia la parte generale che quella che era loro specificamente dedicata (artt. 2 – 14) del DM 20 luglio 2012 n. 140.
La novella, pur avendo lasciato immutato il criterio di liquidazione, per le quattro fasi processuali distinte già individuate, secondo una ripartizione valida per tutti gli organi giurisdizionali davanti ai quali venga svolta l'attività, e onnicomprensive, ha però nella sostanza confermato la possibilità di deroga ai valori minimi e massimi, quali scaturenti dalle percentuali di aumento e diminuzione massimi che il giudice può apportare ai valori medi, essendo stato valorizzato l'utilizzo dell'inciso “di regola” per indicare l'entità dell'aumento o della diminuzione, in quanto volto a sottendere come tali indicazioni non sono vincolanti per il giudice che può quindi anche discostarsi da esse nella misura che ritenga adeguata al caso specifico, purché ne dia conto in motivazione.
A conforto di tale conclusione si pone anche la relazione illustrativa al DM n. 55/2014 che chiarisce tale aspetto laddove, nella parte dedicata ad illustrare la proposta del CNF, (par. b), affermando che il predetto inciso, così come l'avverbio “orientativamente”, erano stati introdotti al fine di sottolineare la non vincolatività dei parametri, in linea di continuità con quanto disposto dall'art. 1, comma 7, del DM n. 140/2012.
La successiva giurisprudenza di legittimità ha avallato tale lettura della norma, essendo pervenuta reiteratamente ad affermare che, nella vigenza delle previsioni di cui al DM n. 55/2014, l'esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso (Cass. n. 14198 del 05/05/2022; Cass. n. 19989 del 13/07/2021; Cass. n. 89 del 07/01/2021, Cass. n. 2386 del 31/01/2017; Cass. n. 11601 del 14/05/2018).
Resta però in ogni caso precluso al giudice di poter liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione» (cfr. ex plurimis Cass. civ., 31 gennaio 2017, n. 2386; Cass. civ., 31 luglio 2018, n. 20183; contra, Cass. civ., 17 gennaio 2018, n. 1018 e Cass. civ., 5 novembre 2018, n. 28267).
Il quadro normativo ha poi subito un’ulteriore variazione a seguito dell’emanazione del DM n. 37/2018, entrato in vigore il 27 aprile 2018, che ha modificato solo alcune delle previsioni del DM n. 55/2014.
Ai fini che rilevano la modifica ha integrato i parametri per la determinazione dei compensi, sia per l'attività giudiziale che per quella stragiudiziale (rispettivamente artt. 4 e 19) precisando che la riduzione, rispetto al valore medio di liquidazione non può essere superiore alla misura del 50 % (per la sola fase istruttoria fino al 70 %) mentre l'aumento può essere anche superiore alla percentuale fissata di regola nell'80 %, eliminando per il potere di riduzione l’espressione “di regola” che aveva appunto giustificato l’interpretazione volta a consentire, sia pure con motivazione, la liquidazione anche al di sotto dei minimi tariffari.
La significatività della modifica del testo delle norme richiamate si ricava anche dalle argomentazioni spese dal Consiglio di Stato nel parere reso sullo schema del decreto del 2018 (parere numero 02703/2017 del 27/12/2017), nel quale si sottolinea come tra gli obiettivi del Ministero vi fosse anche quello di “superare l’incertezza applicativa ingenerata dalla possibilità, nell’attuale sistema parametrale, che il giudice provveda alla liquidazione del compenso dell’avvocato senza avere come riferimento alcuna soglia numerica minima, rendendo inadeguata la remunerazione della prestazione professionale”, limitando quindi “…. il perimetro di discrezionalità riconosciuto al giudice, individuando delle soglie minime percentuali di riduzione del compenso rispetto al valore parametrico di base al di sotto delle quali non è possibile andare”.
Nel parere, inoltre, si rimarcava come la modifica proposta non si palesasse in contrasto neanche con la normativa europea in materia anche alla luce delle argomentazioni contenute nella sentenza n. 427 del 23 novembre 2017 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Nella specie, si segnalava che, rispetto alla vicenda vagliata dal giudice eurounitario, il provvedimento che fissa i parametri, oltre che essere adottato non da un’organizzazione di rappresentanza della categoria forense ma dal Ministro della giustizia, rispondeva anche all’esigenza di perseguire precisi criteri d’interesse pubblico stabiliti dalla legge quali la trasparenza e l’unitarietà nella determinazione dei compensi professionali.
La necessità di interpretare le novellate previsioni per effetto del DM n. 37 del 2018 come intese a ribadire l’inderogabilità da parte del giudice, chiamato a liquidare i compensi a carico del soccombente ovvero in assenza di preventivo accordo tra le parti, dei minimi fissati dal DM n. 55/2014, rinviene poi un argomento di carattere sistematico nella pressoché coeva introduzione della disciplina in tema di equo compenso per le attività professionali svolte in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, previsto dall'art. 13-bis, comma 1, della legge forense, come inserito dall'art. 19-quaterdecies, comma 1, d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, recante “Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili”, convertito con modificazioni dalla legge 4 dicembre 2017, n. 172.
In particolare, il secondo comma dispone che “si considera equo il compenso determinato nelle convenzioni di cui al comma 1 quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché' al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'articolo 13, comma 6”, aggiungendo al comma 4 che “si considerano vessatorie le clausole contenute nelle convenzioni di cui al comma 1 che determinano, anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell'avvocato”.
Infine, il comma 10 dispone che “Il giudice, accertate la non equità del compenso e la vessatorietà di una clausola a norma dei commi 4, 5 e 6 del presente articolo, dichiara la nullità della clausola e determina il compenso dell'avvocato tenendo conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'articolo 13, comma 6”.
Emerge quindi la evidente volontà del legislatore di assimilare i parametri minimi fissati dall’apposito decreto alla misura dell’equo compenso, trattandosi di esigenza che trova un suo fondamento costituzionale nell’art. 35, e che si giustifica al fine di impedire la conclusione di accordi volti a mortificare la professionalità dell’esercente la professione forense, con la fissazione di compensi meramente simbolici e non consoni al decoro della professione.
La misura risulta poi approntata in vista non solo della tutela delle esigenze del professionista, ma anche, di riflesso, delle esigenze dell’utente delle prestazioni stesse, in quanto solo la previsione di un compenso non irrisorio o mortificante risulta in grado di assicurare il mantenimento di standard di professionalità e diligenza essenziali in vista della tutela anche del diritto di difesa, ove, come nella maggioranza dei casi, il ricorso alle prestazioni del professionista sia funzionale alla difesa in giudizio.
Non viene quindi in rilievo solo l'interesse (privato) del professionista a percepire un compenso equo, ma anche un interesse generale (pubblico) di tutela dell'indipendenza e dell'autonomia del professionista, atto a garantire la qualità e il livello della prestazione offerta nonché la buona e corretta amministrazione della giustizia, a loro volta indispensabili per assicurare il pieno esplicarsi del diritto di difesa, tanto più meritevole di tutela in quanto sancito a livello costituzionale (art. 24 Cost.).
L’assimilazione tra i minimi tariffari e l’equo compenso, perlomeno nei casi rientranti nella previsione di cui al citato art. 13 bis, trova poi supporto nel rilievo per cui la versione originaria dell'art. 13-bis, comma 2, imponesse, fra gli altri criteri, affinché il compenso risultasse equo, di «tenere conto» dei parametri previsti dal decreto ministeriale, così che è stato sottolineato come l'attuale formulazione, risultante dalla modifica apportata dalla l. n. 205/2017, secondo cui il compenso deve essere « conforme » ai parametri, corrisponde ad un ampliamento della tutela degli avvocati, in quanto determina una più stringente corrispondenza fra le convenzioni contrattuali ed i parametri legali.
La conclusione per l’inderogabilità dei minimi tariffari in sede di liquidazione giudiziale, ed in assenza di diversa convenzione non appare in alcun modo attinta dalle modifiche apportate al DM n. 55 del 2014 del recente DM n. 147/2022, che, come si evince anche dal parere reso dal Consiglio di Stato sul relativo schema (affare n. 00183/2022, reso all’esito dell’adunanza del 17 febbraio 2022), ha previsto la soppressione, in tutti i commi in cui ricorrono, delle parole “di regola”, e ciò nel dichiarato intento (cfr. relazione illustrativa del Ministero della Giustizia) di ridurre il margine di discrezionalità dell’autorità giudiziaria nella liquidazione dei compensi, rendere più omogena l’applicazione dei parametri e garantire maggiore coesione interna alla categoria degli esercenti la professione forense.
Deve poi recisamente negarsi ogni dubbio circa la compatibilità della soluzione in punto di inderogabilità dei minimi tariffari con la normativa comunitaria.
Giova in tal senso ricordare come l’analogo dubbio postosi in relazione alla disciplina previgente la riforma del 2006 è stato ritenuto insussistente dalla giurisprudenza della CGUE, che con la sentenza del 19 febbraio 2002 C-35/99 (cd. caso Arduino), adito dal pretore di Pinerolo in merito alla paventata violazione dell'art. 85 trattato CE da parte della normativa italiana in materia di tariffe forensi, in quanto adottate da un ente qualificabile come associazione di imprese (il Consiglio nazionale forense), ha escluso la ricorrenza di intese restrittive della libertà di concorrenza.
La risposta dei giudici di Lussemburgo è però stata nel senso della piena compatibilità dei sistemi tariffari con il diritto comunitario della concorrenza, e ciò in quanto gli artt. 5 e 85 del Trattato CE (divenuti artt. 10 CE e 81 CE) non ostano all'adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale sia adottata.
Pur essendosi posto in rilevo che l'adozione di tariffe a livello nazionale può incidere sulla concorrenza e che, sebbene l'allora art. 85 del Trattato CE (ora art. 101 TFUE) riguardasse solo la condotta delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari, ciò non toglieva che tale disposizione, in combinato disposto con l'art. 5 del Trattato (ora art. 5 TUE), obbligasse gli Stati membri a non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei ad eliminare l'effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese, tuttavia la Corte ha specificato che l'elaborazione di un progetto di tariffa per le prestazioni professionali non priva automaticamente la tariffa del suo carattere di normativa statale se, come nel caso italiano, lo Stato membro non rinunci ad esercitare il suo potere di decisione in ultima istanza o a controllare l'applicazione della tariffa stessa (punto 40), posto che al CNF era riservato soltanto il ruolo di proporre un progetto di tariffe, le quali venivano poi emanate dal ministero della Giustizia, sentito il parere del CIP e previa consultazione obbligatoria del Consiglio di Stato (secondo quindi un procedimento di formazione del tutto analogo a quello attuale).
Sebbene nella sentenza si qualifichi il CNF come associazione di imprese, la Corte ha poi evidenziato che, in forza della lettura combinata dell'art.101 TFUE con il principio di leale cooperazione di cui all'art. 4, par. 3, TFUE, gli Stati membri devono astenersi dall'imporre o dall'agevolare la conclusione di accordi in contrasto con l'art. 101, astenersi dal rafforzare gli effetti di siffatti accordi, ed astenersi dal privare la normativa nazionale rilevante del suo carattere pubblico, delegando ad operatori privati la responsabilità di adottare decisioni d'intervento in materia economica.
Nella vicenda è stato però ritenuto che lo Stato italiano non avesse rinunciato ad esercitare un controllo decisionale sull'approvazione ed applicazione della tariffa, il escludeva che vi fosse una violazione del diritto UE rilevante.
L’arresto del giudice di Lussemburgo è stato poi favorevolmente recepito dalla giurisprudenza nazionale, in quanto a far data da Cass. n. 7094 del 28 marzo 2006 è stato ribadito che, in tema di tariffe professionali degli avvocati, è valida la disposizione statale che fissa il principio della normale inderogabilità dei minimi degli onorari (conf. Cass. n. 15666/2007; Cass. n. 27090 del 15/12/2011; Cass. n. 15666 del 13/07/2007, che ha esteso la soluzione anche alla inderogabilità dei minimi delle tariffe professionali dei dottori commercialisti; Cass. n. 15963/2011, quanto alle tariffe notarili).
La soluzione del 2002 ha poi ricevuto continuità con la sentenza della Corte di Giustizia del 5 dicembre 2006 (cd. caso Cipolla e altri) nelle cause riunite C-94/04 e C-202/04, che ha escluso anche la sussistenza di un profilo di incompatibilità dell'ordinamento della professione, avvalendosi delle medesime argomentazioni formulate nel suo precedente. Il tema della compatibilità delle tariffe professionali legali connotate da inderogabilità con i principi della legislazione comunitaria è stato successivamente oggetto della sentenza della Corte di Giustizia del 29 marzo 2011 nella causa C- 565/08, avente ad oggetto il ricorso per inadempimento, che ha però escluso che vi fosse la prova che la previsione di tariffe massime per gli avvocati, anche dopo la legge Bersani, violasse gli artt. 43 e 49 del Trattato.
Un altro intervento del giudice di Lussemburgo è stato quello dell’8 dicembre 2016 nelle cause riunite C-532/15 e C- 538/15, nel quale, pronunciando su rinvio pregiudiziale della Corte distrettuale di Saragoza, ha stabilito la conformità al diritto UE della determinazione di tariffe fissate per legge per i servizi prestati da procuratori legali senza possibilità di negoziazione tra le parti, stabilendo infine che le tariffe fisse non vanno ad inficiare la libera concorrenza.
In particolare, il giudice remittente aveva posto i seguenti quesiti:
«1) Se l'esistenza di una normativa dettata dallo Stato, che prevede il controllo di quest'ultimo nella fissazione dei diritti dei procuratori legali, precisandone per via regolamentare l'importo esatto e obbligatorio e attribuendo agli organi giurisdizionali, specialmente in caso di condanna alle spese, la competenza a controllare in ogni singolo caso la fissazione di tali diritti, benché siffatto controllo sia limitato a verificare la rigorosa applicazione della tariffa, senza che sia possibile, in casi eccezionali e con decisione motivata, derogare ai limiti stabiliti dalla normativa tariffaria, sia conforme agli articoli 4, paragrafo 3, TUE e 101 TFUE.
2) Se la delimitazione delle nozioni di "motivi imperativi d'interesse generale", "proporzionalità" e "necessità" di cui agli articoli 4 e 15 della direttiva 2006/123, operata dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, consenta ai giudici nazionali – nei casi in cui la fissazione della tariffa dei servizi sia prevista da una normativa dello Stato e in cui sussista una dichiarazione tacita (per assenza di disposizioni nella normativa di trasposizione) sull'esistenza di motivi imperativi di interesse generale, benché un confronto con la giurisprudenza comunitaria non consenta di affermarlo – di ritenere che in un caso particolare sussista una limitazione non giustificata dall'interesse generale e, pertanto, di disapplicare o adeguare la normativa che disciplina i compensi dei procuratori legali.
3) Se l'applicazione di una normativa avente tali caratteristiche possa contrastare con il diritto a un equo processo come interpretato dalla Corte di giustizia».
Anche in tale caso la risposta data al primo quesito (essendosi la Corte ritenuta incompetente sugli altri due) è stata però nel senso della compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’Unione, e ciò proprio facendo leva sull’intervento dello Stato nell’adozione della tariffa, come appunto ribadito nei propri precedenti.
Un altro rilevante tassello del mosaico giurisprudenziale si rinviene nella sentenza della Corte giustizia UE sez. I, 23/11/2017, n.427, che ha affermato che l'articolo 101, paragrafo 1, TFUE, in combinato disposto con l'articolo 4, paragrafo 3, TUE, dev'essere interpretato nel senso che una normativa nazionale che, da un lato, non consenta all'avvocato e al proprio cliente di pattuire un onorario d'importo inferiore al minimo stabilito da un regolamento adottato da un'organizzazione di categoria dell'ordine forense, a pena di procedimento disciplinare a carico dell'avvocato medesimo, e, dall'altro, non autorizzi il giudice a disporre la rifusione degli onorari d'importo inferiore a quello minimo, è idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno ai sensi dell'articolo 101, paragrafo 1, TFUE, ma che spetta comunque al giudice del rinvio verificare se tale normativa, alla luce delle sue concrete modalità applicative, risponda effettivamente ad obiettivi legittimi e se le restrizioni così stabilite siano limitate a quanto necessario per garantire l'attuazione di tali legittimi obiettivi.
Inoltre, è stato altresì affermato che è contrario alle regole Ue in materia di libera concorrenza un sistema nazionale che attribuisce a un'organizzazione di categoria di professionisti, senza alcun intervento dell'autorità pubblica, il potere di stabilire le tariffe minime inderogabili, ma che spetta ai giudici nazionali verificare se un simile sistema possa essere giustificato dal perseguimento di un obiettivo legittimo.
La rimessione alla Corte di Giustizia era stata occasionata dalla normativa bulgara, nella quale le tariffe, senza un intervento ovvero un controllo dell’autorità statale (se non quello di conformità dei regolamenti adottati dal Consiglio degli avvocati con la Costituzione e la legge bulgare), erano direttamente fissate da parte del Consiglio superiore dell'ordine forense, con la previsione degli importi minimi delle parcelle degli avvocati. La sentenza dopo aver precisato che il Consiglio superiore dell'ordine forense doveva essere qualificato come associazione di imprese, e dopo aver ribadito la necessità di dover attivare il controllo sul rispetto del divieto di cui all'art. 101, par. 1, TFUE, pur reputando che la determinazione degli importi minimi degli onorari d'avvocato, resi obbligatori da una normativa nazionale, come quella oggetto di esame, equivaleva alla determinazione orizzontale di tariffe minime imposte, risultando pertanto, idonea a produrre una compressione della concorrenza nel mercato interno, ha però rimesso al giudice nazionale la verifica della effettiva compatibilità della disciplina interna con il diritto dell’UE.
A tal fine è stato evidenziato come l'idoneità potenziale non è sufficiente per supporre una violazione conclamata del diritto della concorrenza, occorrendo tenere conto anche del principio di ragionevolezza, tenuto conto del contesto globale nel quale la decisione della associazione di imprese è stata adottata o è chiamata a produrre i suoi effetti, oltre che gli obiettivi che essa persegue. Inoltre, è stato sottolineato come, tra le verifiche demandate al giudice del rinvio, vi fosse anche quella, in ossequio al principio di proporzionalità, circa il fatto che gli effetti prodotti sul gioco della concorrenza non eccedano quanto necessario per il perseguimento degli obiettivi meritori di tutela.
Traendo spunto dalle considerazioni da ultimo richiamate, deve perciò escludersi che la normativa italiana, quale derivante dalle modifiche apportate dal DM n. 37/2018 al Dm n. 55/2014, sia suscettibile di porsi in contrasto con la normativa unionale.
In primo luogo, in quanto le tariffe, seppure approntate da parte del CNF, sono poi sottoposte al vaglio ed al controllo dell’autorità statale, essendo la loro approvazione oggetto di una trasposizione in decreti ministeriali, e con la formulazione di un preventivo parere da parte del Consiglio di Stato.
In secondo luogo, in quanto resta impregiudicata la possibilità per le parti di poter porre in essere degli accordi anche in deroga alle previsioni tariffarie, essendo l’inderogabilità dettata per il caso di assenza di pattuizioni ovvero di liquidazione giudiziale in danno della parte soccombente.
In terzo luogo, perché, come sopra evidenziato, avuto riguardo alla assimilazione sul piano quantitativo dei minimi dettati per i parametri forensi con la disciplina dettata per l’equo compenso, la previsione in punto di inderogabilità trascende il mero interesse privato della categoria professionale, ma assolve alla tutela di interesse di carattere pubblico. Infatti, la previsione di una soglia minima per i compensi al di sotto della quale non è dato scendere assicura una garanzia di tipo economico che si traduce nella tutela dell'indipendenza e dell'autonomia del professionista, e che, oltre ad assicurare la qualità ed il livello della prestazione offerta, si riflette anche nella adeguata assicurazione del diritto di difesa, impedendo che possano essere superati gli standard minimi di diligenza e cura degli interessi del cliente, che viceversa tariffe eccessivamente mortificanti potrebbero compromettere (in tale direzione si veda anche CGUE 4 luglio 2019 causa C-377/17, relativa alla normativa della Germania che prevede tariffe minime obbligatorie per gli architetti e gli ingegneri, ritenute in astratto compatibili con l’art. 15 della direttiva 2006/123, in quanto necessarie e proporzionate alla realizzazione di un motivo imperativo di interesse generale, quale può essere quello di assicurare la qualità delle prestazioni di progettazione, a tutela dei consumatori, della sicurezza delle costruzioni, della salvaguardia della cultura architettonica e della costruzione ecologica, ma che nella specie sono state in concreto reputate incompatibili con il diritto unionale in quanto le prestazioni interessate dalle tariffe e precisamente quelle di progettazione, non erano riservate a determinate professioni soggette alla vigilanza obbligatoria in forza della legislazione professionale o da parte degli ordini professionali, circostanza questa che non ricorre per le prestazioni forensi rese in Italia, in quanto riservate in esclusiva agli iscritti agli ordini professionali).
Deve pertanto essere affermato il seguente principio di diritto:
ai fini della liquidazione in sede giudiziale del compenso spettante all’avvocato nel rapporto col proprio cliente, in caso di mancata determinazione consensuale, come ai fini della liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente, ovvero in caso di liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al beneficio patrocinio a spese dello Stato nella vigenza dell’art. 4, comma 1, e 12, comma 1, del d.m. n. 55 del 2014, come modificati dal d.m. n. 37 del 2018, il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di cui alle tabelle allegate.
Nella specie, il Tribunale, pur avendo individuato il compenso sulla base del valore minimo (già quindi interessato da una riduzione del 50% del valore medio) e sulla base dello scaglione inferiore, ha poi provveduto ad un’ulteriore decurtazione del 62,5 %, come detto non consentita, errando altresì nell’applicare l’ulteriore riduzione dettata per la liquidazione in caso di patrocinio a spese dello Stato, facendo applicazione dell’art. 106 bis del DPR n. 115/2002, norma dettata per il processo penale, e non anche di quella di cui all’art. 130, espressamente prevista per le controversie civili. Il motivo deve quindi essere accolto.
Il provvedimento impugnato deve quindi essere cassato in relazione al motivo accolto, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Grosseto, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quarto motivo di ricorso, e rigettati i primi tre, cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, al Tribunale di Grosseto, in persona di diverso magistrato.