|
Le questioni che erano state poste alla Corte di Appello di Roma (e che sono state decise con due sentenze del 24 gennaio 2024) hanno avuto riguardo alla questione dell'indicazione “padre” e “madre” in luogo di quella di “genitore” (dizione che nella vulgata era diventata “genitore 1” e “genitore 2”) voluta dal Ministero dell'Interno che, all'epoca del decreto ministeriale del 2019, era Matteo Salvini. In primo grado, in entrambi i procedimenti, il Tribunale di Roma aveva riconosciuto la fondatezza delle domande proposte. |
Quel decreto ministeriale del 2019, che molto aveva fatto discutere specialmente su sollecitazione e protesta delle famiglie arcobaleno per la mancata considerazione delle “relazioni genitoriali esistenti”, era stato anche oggetto di un ricorso al TAR Lazio. Ebbene, avverso le due sentenze il Ministero dell’Interno aveva proposto appello. |
|
Mentre in un caso la Corte di Appello ha dichiarato inammissibile l'impugnazione del Ministero per tardività (e, quindi, non è entrata nel merito), nell'altro caso la Corte di Appello di Roma ha avuto modo di affrontare nel merito la delicata problematica dell'indicazione che compare sulla carta di identità elettronica circa i genitori del minore. Secondo il modello predisposto dal Ministero dell'Interno le uniche indicazioni possibili possono essere quelle di “padre” e “madre”. La Corte di Appello ha, invece accolto, parzialmente l'appello incidentale «nella parte in cui [il provvedimento impugnato] impone le modalità con le quali debba essere assicurato il diritto del minore ad ottenere la carta di identità elettronica ed in particolare la dicitura “padre/genitore madre/genitore». |
Corte d’Appello di Roma, sez. I Civile, sentenza 24 gennaio 2024
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Il Ministero dell'Interno ha impugnato l'ordinanza ex art. 702 bis c.p.c. emessa dal Tribunale di Roma in data 9 settembre 2022, con la quale era stata accolta la domanda, proposta dalle signore (omissis) e (omissis), anche nell'interesse della minore (omissis), di rettificazione della nota dell'Anagrafe del Comune di Roma del 28/5/2019, con cui era stata rifiutata la loro indicazione quali "madre" e "madre" della minore nella carta di identità di quest'ultima.
L'appellante ha preliminarmente addotto, quanto al mezzo di impugnazione proponibile avverso il suddetto provvedimento, l'ammissibilità del proprio "reclamo/appello".
In proposito ha lamentato come inopinatamente il Tribunale avesse disposto il mutamento del rito cui era soggetto il giudizio in oggetto, ovvero quello di cui agli artt. 95 e 96 del d.p.r. 396/2000, disponendo che lo stesso fosse soggetto al rito sommario di cognizione, trattandosi di una pronuncia contraria al disposto di legge; tanto premesso ha rilevato come in ragione dell'errore commesso dal Giudice la gravata ordinanza, sebbene formalmente pronunciata ai sensi dell'art. 702 quater c.p.c., fosse da riqualificare come decreto ex artt. 737 e ss. c.p.c., dal che discenderebbe l'inapplicabilità del criterio dell’”apparenza" nella scelta del mezzo di impugnazione, valendo l'opposto criterio della prevalenza della sostanza degli atti processuali sulla loro forma.
Alla luce di tali considerazioni ha addotto la reclamabilità del provvedimento dinanzi alla Corte d'Appello, ai sensi dell'art. 739 c.p.c., nel termine di dieci giorni dalla notificazione (nella fattispecie mai avvenuta) e comunque nel rispetto del termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c., non ancora decorso.
Tanto premesso in rito, il Ministero dell'Interno ha lamentato: la nullità dell'impugnato provvedimento, a fronte della pretermissione del Pubblico Ministero, della pronuncia da parte del Tribunale in composizione monocratica anziché collegiale e della ritenuta abnormità del richiamato provvedimento di mutamento del rito.
Nel merito ha contestato il fondamento della pronuncia adottata dal Tribunale, di cui ha addotto l'erroneità, alla luce della normativa e giurisprudenza in materia. Sulla base dei suddetti rilevi l'appellante ha concluso in via principale per l'annullamento dell'impugnata ordinanza, con remissione del giudizio al Tribunale in composizione collegiale, o in subordine la sua riforma, con reiezione dell'avversa domanda.
Le signore (omissis) e (omissis), si sono costituite nel presente giudizio in proprio e nella loro qualità di madri della minore.
Le appellate hanno in primo luogo eccepito la palese tardività dell'appello, proposto ben oltre il termine di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento impugnato, che a seguito dell'emissione dell'ordinanza il 9 settembre 2022 e della sua comunicazione il successivo 14 settembre, era decorso già dal 14 ottobre 2022, mentre l'opposizione era stata proposta con atto notificato il 27 gennaio 2023 (e dunque con oltre tre mesi di ritardo).
Per l'effetto hanno formulato eccezione di giudicato ed hanno dunque richiesto, in principalità, la declaratoria di inammissibilità del gravame.
In via meramente subordinata le appellate hanno contestato le avverse deduzioni relative a pretesi errores in procedendo e in iudicando ed hanno concluso per la conferma del provvedimento emesso dal Tribunale di Roma, di cui hanno addotto l'assoluta correttezza e condivisibilità.
Per entrambe le ipotesi hanno richiesto la condanna dell'appellante alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio e, considerata la palese infondatezza delle tesi prospettate dal Ministero, al pagamento di una somma ai sensi dell'art. 96, terzo comma, c.p.c.
Si è altresì costituita Roma Capitale.
L'appellata ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, evidenziando come si discutesse dell'esercizio di funzioni proprie dello Stato, rispetto alle quali era esclusivamente competente il Ministro dell'Interno, con conseguente propria estraneità al giudizio.
Nel merito Roma Capitale ha rilevato la correttezza del proprio agire, essendo esclusa per legge, in capo all'Ufficiale dell'anagrafe, la possibilità di modificare il modello di carta d'identità definito dal Ministero dell'Interno, non essendo consentito il rilascio di un documento da esso difforme.
Roma Capitale ha dunque concluso per la conferma dell'ordinanza impugnata limitatamente al capo di pronuncia con il quale era stato dichiarato il suo difetto di legittimazione passiva, mentre per il resto si è rimessa al prudente apprezzamento della Corte di Appello adita.
La causa è stata trattenuta in decisione all'udienza del 10 gennaio 2024, senza assegnazione di termini per gli scritti conclusivi.
L'appello è inammissibile, in quanto tardivamente proposto.
L'ordinanza emessa dal Tribunale di Roma ai sensi del previgente art. 702 ter c.p.c. è stata comunicata alle parti il 14 settembre 2022, talché sarebbe dovuta essere impugnata entro trenta giorni, secondo quanto previsto dall'art. 702 quater c.p.c. all'epoca vigente, cosa che non è avvenuta (posto che, come indicato in narrativa, l'appello è stato proposto a fine gennaio 2023).
La circostanza ha determinato il passaggio in giudicato della pronuncia impugnata, il che preclude ogni valutazione circa la sussistenza di pretesi errori in procedendo ed in iudicando.
Le contrarie considerazioni formulate dall'appellante non possono essere condivise.
Il Ministero dell'Interno, pur dichiarandosi "consapevole del principio espresso dai Giudici di legittimità …. secondo cui nella scelta del mezzo di impugnazione deve applicarsi il criterio della "apparenza" (secondo il quale l'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va operata con riferimento esclusivo alla qualificazione giuridica della azione effettuata dal giudice nello stesso provvedimento)", ritiene che tale principio non sia nella specie applicabile, posto che in questa sede non si discuterebbe "della scelta del mezzo di impugnazione proponibile dinanzi a Giudici diversi ma della corretta qualificazione giuridica dell'impugnazione proponibile... dinanzi alla Corte di Appello... , in base al corretto regime processuale applicabile".
In forza di tale assunto non sarebbe invocabile "il criterio dell'apparenza, idoneo, per sua natura, a regolare la scelta del mezzo d'impugnazione - tra i vari astrattamente percorribili - ma non anche a decidere dell'impugnabilità o meno del provvedimento giudiziale; per tale questione valendo l'opposto criterio della prevalenza della sostanza degli atti process11ali sulla loro forma"; il "crisma del principio dell'apparenza' non potrebbe qui che "risultare recessivo rispetto al diverso principio “sostanzialistico" più volte ritenuto operante anche dalla Giurisprudenza di legittimità, posto che "soltanto il criterio della prevalenza della sostanza degli atti processuali rispetto alla loro forma consente in tali ipotesi di garantire alla parte ti diritto di impugnazione, pregiudicato dall'eventuale errore di qualificazione commesso dal giudice e, dunque, di rispettare il diritto di difesa ed i canoni del giusto processo (Cass.Sez. Lav., Ord. 25401/2020)".
La necessità di "garantire la effettività della tutela giurisdizionale ai "diritti "fatti valere in un giudizio attraverso il "giusto processo"", non potendosi "ipotizzare (in un'opzione ermeneutica costituzionalmente orientata e ragionevole rispetto ai valori espressi dagli artt. 24 e 111 Cost) che sia il ''diritto" a recedere (nel giudizio) alla luce di un errore procedimentale in cui è incorso il Giudice a quo", renderebbe dunque necessaria l'applicazione del principio della prevalenza della sostanza degli atti sulla loro forma che sarebbe il solo idoneo a consentire, "nelle ipotesi in cui dalla qualificazione formalmente operata dal giudice derivi la inoppugnabilità della decisione adottata, l'esperibilità del mezzo di impugnazione corrispondente alla sostanza degli atti processuali".
Tanto premesso, ritiene questa Corte che le deduzioni sopra richiamate non siano in alcun modo recepibili.
Nella fattispecie, infatti, la "qualificazione" fornita dal Tribunale al giudizio, id est la disposta trasformazione del rito di cui si duole l'appellante, corretta o meno che fosse, non ha all'evidenza in alcun modo pregiudicato la possibilità di impugnazione del provvedimento con il quale è stato definito il giudizio ovvero in altri termini non ha comportato l'inoppugnabilità del provvedimento adottato e la sua sottrazione al gravame, posto che tale facoltà è al contrario espressamente prevista ex lege.
Parafrasando le pronunce richiamate dall'appellante, se "il criterio dell'apparenza è idoneo a regolare la scelta del mezzo dell'impugnazione, ma ai fini dell'impugnabilità o meno del provvedimento vale il criterio cd. della prevalenza della sostanza sulla forma degli atti processuali", per definizione qui va applicato il primo dei suddetti principi, posto appunto che non si discute affatto della possibilità di impugnazione, o meno, dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Roma ai sensi dell'art. 702 ter c.p.c. bensì, nella prospettiva dell'appellante, della sua impugnabilità nelle forme di cui all'art. 739 c.p.c. invece che nelle forme e nel termine all'epoca previsto dall'art. 702 quater c.p.c.
In questa ipotesi, dunque, vale proprio il criterio dell'apparenza, secondo il quale "l'impugnazione di un provvedimento giurisdizionale deve essere proposta nelle forme previste dalla legge per la domanda così come è stata qualificata dal giudice, a prescindere dalla correttezza o meno di tale q11alifìcazione, e non come le parti ritengano che debba essere qualificata, costituendo l'interpretazione della domanda giudiziale operazione riservata al giudice del merito" (Cass., ss.uu., 25.2.2011, n. 4617), assolutamente consolidato nelle giurisprudenza di legittimità e dal quale questa Corte non ha motivo alcuno di discostarsi.
Né infine sono fornite di fondamento le deduzioni, ventilate dall'appellante, circa pretese compromissioni del diritto di difesa e del "giusto processo", non potendo ritenersi che la modalità di impugnazione già prevista dalla legge con riguardo al rito sommario di cognizione, nella parte in cui faceva decorrere il termine breve dalla comunicazione, oltre che dalla notificazione, del provvedimento finale, minasse in alcun modo l’”effettività" della tutela giurisdizionale.
La pronuncia sulle spese del presente grado di giudizio, liquidate come dispositivo, segue la soccombenza, nei rapporti tra l'appellante e le appellate (omissis) e (omissis).
Nei rapporti processuali tra l'appellante e Roma Capitale, invece, le spese possono essere integralmente compensate, considerate le conclusioni formulate dall'appellata, la quale non si è opposta all'accoglimento del gravame ma si è rimessa a giustizia.
Infine, in ragione del carattere personalissimo dei diritti delle parti ed in aderenza all'espressa richiesta dalle stesse formulata nell'atto introduttivo del giudizio ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 196/2003, si ordina l'oscuramento di ogni dato identificativo delle parti, in caso di riproduzione o diffusione della sentenza.
P.Q.M.
dichiara l'inammissibilità dell'appello;
condanna l'appellante alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore delle appellate (omissis) e (omissis), che liquida, d'ufficio, in complessivi euro 6.000,00 per compenso professionale, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge;
compensa, nei rapporti tra il Ministero dell'Interno e Roma Capitale, le spese di lite da ciascuna di tali parte sostenute;
ordina l'oscuramento dei dati identificativi delle parti ricorrenti m caso di riproduzione o diffusione della presente sentenza, ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 196/2003.
Corte d’Appello di Roma, sez. I Civile, sentenza 24 gennaio 2024
Motivi della decisione
Il Ministero dell'Interno ha proposto appello avverso la sentenza in oggetto che aveva così statuito: " -accoglie la domanda attrice e, per l'effetto, previa disapplicazione per illegittimità del decreto ministeriale del 31/01/2019, ordina al Ministero dell'Interno, in persona del Ministro p.t., di indicare sulla carta d'identità elettronica del minore(omissis), "genitore", o in alternativa "padre/genitore madre/genitore" in corrispondenza dei nomi
-rigetta la domanda risarcitoria;
-compensa le spese;
-ordina l'oscuramento delle generalità, dei dati personali e degli altri dati identificativi della parte attrice in caso di diffusione della presente sentenza ai sensi dell'art. 52 del D.lgs n. 196/2003.
A tal fine la Cancelleria applicherà la disposizione di cui al comma 3 dello stesso art. 52 del D.lgs n. 196/2003.
Manda alla cancellaria per le comunicazioni e gli adempimenti di rito conseguenti. "
Si è costituita in giudizio ROMA CAPITALE deducendo il proprio difetto di legittimazione passiva.
Si sono costituiti in giudizio (omissis) in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio (omissis) instando per il rigetto dell'appello e proponendo appello incidentale.
Precisate le conclusioni, la causa è stata trattenuta in decisione all'udienza in epigrafe con i termini di cui all'art.190 c.p.c.
Per quanto attiene alla ricostruzione della vicenda si richiama per relationem l'impugnata sentenza.
L'appello principale è infondato.
I primi tre motivi di appello, concernenti questioni processuali ed il quarto motivo, possono essere congiuntamente esaminati.
Il Ministero lamenta: "l il giudizio di primo grado, erroneamente instaurato con atto di citazione e non con ricorso ex artt. 95 e 96 D.P.R. 396/2000, ha seguito - sempre erroneamente - la disciplina del rito ordinario e non quella del rito speciale (artt. 737 e segg), previsto dalle disposizioni de quibus, concludendosi con sentenza in luogo del richiesto decreto ex art. 96 cit.;
II. il Tribunale ha pretermesso illegittimamente il Pubblico Ministero, litisconsorte necessario ai sensi della precitata disciplina nonché dell'art. 70 c.p.c.;
III. in ragione della necessaria presenza del P.M, il Tribunale avrebbe dovuto decidere in composizione collegiale ai sensi dell'art. 50 bis c.p.c."
IV -ERROR INJUDICANDO: VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 95 E 96 DPR 396/2000.
La pronuncia impugnata si fonda su una serie di valutazioni della normativa in materia, che non possono essere condivise in quanto la normativa dello stato civile si fonda ancora sul concetto di bigenitorialità di sesso diverso e non consente l'apposizione di indicazioni differenti sugli atti di stato civile. "
Le doglianze sono infondate in quanto esse sono incentrate sulla sussumibilità della fattispecie nell'alveo dell'art 95 D.P.R 396/2000 ("Chi intende promuovere... la formazione di un atto omesso o ... intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l'adempimento. 2. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1. 3.". )
In realtà la fattispecie in esame non concerne una questione di stato civile, bensì il mancato rilascio della carta d'identità elettronica valida per l'espatrio del minore per l'ostacolo tecnico della dicitura padre/madre essendo (omissis) figlio naturale di una donna e figlio adottivo di un'altra donna.
Condivisibilmente parte appellata ha controdedotto:
A conclusione del ragionamento, infine non possiamo che ricordare la formula più e più volte ripetuta sia dalla Cassazione che dalla Corte Costituzionale secondo cui: "Il procedimento ... disciplinato dall'art. 96 del D.P.R. 396 del 2000, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto a eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall'atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel suo procedimento di formazione". Orbene appare evidente che il presente giudizio non sia in alcun modo destinato a eliminare una qualche difformità tra la situazione di fatto e ciò che risulta dall'atto dello stato civile. Nei registri dello Stato civile del Comune di Roma risulta adottato dalla madre intenzionale e pertanto figlio di due madri. Le due situazioni, di fatto e di diritto risultano perfettamente allineate e conformi a legge. È la carta d'identità a essere disallineata rispetto allo stato civile di (omissis) e delle sue madri."
Per quanto attiene agli altri motivi di merito si osserva quanto segue: Condivisibilmente parte appellata ha controdedotto:
"Va ricordato con la Corte Costituzionale (sent. n. 79/2022) e con la Corte di Cassazione (sent. n. 38162/2022) che "anche l'adozione del minore in casi particolari produce effetti pieni e fa nascere relazioni di parentela con i familiari dell'adottante. Al pari dell'adozione "ordinaria" del minore di cui alla L. n. 184 del 1983, artt. 6 e ss. l'adozione in casi particolari non si limita a costituire il rapporto di filiazione con l'adottante, ma fa entrare l'adottato nella famiglia dell'adottante. L'adottato acquista lo stato di figlio dell'adottante. Il La sentenza riconosce i legami familiari anche per l'adottato in casi particolari e così realizza il suo inserimento nell'ambiente familiare dell'adottante, in applicazione del principio di unità dello stato di figlio e secondo un approccio teso a considerare unitariamente filiazione e adozione" (Cass. Civ. SS. UU. sent. n. 38162/2022 § 10).
Erra controparte anche dove sostiene che avrebbe In realtà ciò che si contesta al Ministero in questo giudizio - a giusta ragione, anche secondo il giudice di prime cure - è la possibilità di stabilire delle regole in base alle quali sulla carta di identità possano essere indicati dati personali difformi dalle risultanze dei registri da cui quei dati sono estratti. Al netto del fatto che non sia vero che i genitori non possano essere del medesimo sesso e che indicare ''padre" e "madre" indipendentemente dal genere effettivo dei genitori sia espressione del margine di apprezzamento di cui il legislatore gode nel disciplinare la materia della filiazione.
Sotto altro aspetto il decreto ministeriale "è un atto privo di carattere normativo" (così TAR Lazio, 9.1.2020, n. 215, resa fra le parti sul caso odierno) e men che meno un atto del legislatore nazionale, il cui potere resta assolutamente intatto. Anzi, l'atto del legislatore nazionale è la norma primaria, l'art. 3 comma 4 TULPS, introdotto dall'art. 10, co. 5, D.L. 13 maggio 2011 n. 70, convertito in legge 12 luglio 2011 n. 106, secondo il quale "La carta di identità valida per l'espatrio rilasciata ai minori di età inferiore agli anni quattordici può riportare, a richiesta, il nome dei genitori o di chi ne fa le veci".
Nel merito in sostanza il Ministero esprime tre ragioni di doglianza.
La prima: nega in radice che i diritti del minore possano essere lesi, sostenendo che:
a) l'indicazione nella carta d'identità del nome di padre e madre (invece che dei genitori) non pregiudicherebbe la corretta identificazione del minore (scopo del documento). Al contrario - a dire di controparte – essa "continua ... a poter essere correttamente ed esattamente rappresentata nel documento d'identità" (p. 12 1° cpv);
b) la richiesta della CIE ordinaria può essere fatta dai genitori disgiuntamente;
e) l'indicazione nominativa dei genitori è meramente facoltativa nella CIE valida per l'espatrio.
La seconda: sostiene che la disapplicazione del DM comporterebbe una violazione del margine di apprezzamento di cui gode il legislatore nazionale, margine riconosciuto dalle convenzioni, dai trattati e dalla stessa Corte EDU.
La terza: sostiene che il Ministero avrebbe perfettamente rispettato i principi di esattezza e minimizzazione dei dati in quanto il DM persegue "unicamente l'esigenza di garantire l'allineamento tra le risultanze dei registri di stati civile nazionali ... e il contenuto della C/E'
Tali doglianze sono manifestamente infondate.
L'effetto finale dell'assunto del Ministero, se condiviso, sarebbe quello di precludere a(omissis) quello di ottenere una carta d'identità valida per l'espatrio, di fatto per le, deficitarie, caratteristiche della stessa, sol perchè figlio naturale di un genitore naturale e di uno adottivo dello stesso sesso: dinanzi a questo irragionevole e discriminatorio effetto, non possono trovare assolutamente ingresso le obiezioni formulate dal Ministero perché in contrasto persino con i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 30 II comma.
Proprio l'esistenza di istituti come l'adozione in casi particolari, che può dar luogo alla presenza dì due genitori dello stesso sesso (l'uno naturale, l'altro adottivo) dimostra che le diciture previste dai modelli ministeriali (padre/madre) non sono rappresentative di tutte le -legittime - conformazioni dei nuclei familiari e della conseguente filiazione imposte dai modelli ministeriali.
Va invece accolto parzialmente accolto l'appello incidentale nella parte in cui impone le modalità con le quali debba essere assicurato il diritto del minore ad ottenere la carta di identità elettronica ed in particolare la dicitura "padre/genitore madre/genitore"
Le spese del grado seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Nel rapporto processuale con ROMA CAPITALE vanno compensate in quanto l'atto di appello è stato notificato ai soli fini della denuntiatio litis.
P.Q.M.
Rigetta l'appello principale, in parziale accoglimento dell'appello incidentale riforma dell'impugnata sentenza così provvede:
-ordina al Ministero dell'Interno, in persona del Ministro p.t., di indicare sulla carta d'identità elettronica del minore (omissis) “genitore" o dizione corrispondente alle risultanze dello stato civile, in corrispondenza dei nomi (omissis); (omissis)
- condanna il Ministero dell'Interno alla rifusione delle spese del grado in favore di (omissis), in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio (omissis) che liquida in € 6.000,00 per compensi, oltre rimborso spese gene rimborso del c.u. compensa le spese del grado nei confronti di ROMA CAPITALE.
-ordina l'oscuramento delle generalità, dei dati personali e degli altri dati identificativi della parte attrice in caso di diffusione della presente sentenza ai sensi dell'art. 52 del D.lgs n. 196/2003.