di Avv. Federico Manfredi
Premessa
Normalmente, la sede “naturale” di svolgimento della prestazione lavorativa – quale elemento discretivo della subordinazione - è quella dedotta nel contratto di assunzione e resta invariata per tutta la sua durata.
Tuttavia, in corso di rapporto di lavoro, il luogo della prestazione lavorativa può subire un mutamento – in conformità con i fabbisogni aziendali - per unilaterale disposizione del datore di lavoro.
Quando la variazione unilaterale del luogo di lavoro assume una forma tendenzialmente definitiva (anche se, ovviamente, reversibile per effetto di eventuali successivi provvedimenti modificativi) si parla di trasferimento del lavoratore.
In ogni caso, il potere di trasferimento (rientrante nel più ampio potere direttivo datoriale) non è indiscriminato, ma è soggetto a limiti che trovano la propria disciplina nell'art. 2103, comma 8, c.c. – così come modificato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori – e nelle specifiche disposizioni della contrattazione collettiva.
In particolare, la disciplina codicistica prevede una tecnica limitativa incentrata su una clausola generale (analoga a quella prevista per il giustificato motivo oggettivo di licenziamento) finalizzata a trovare un punto di equilibrio tra interessi contrapposti di entrambe le parti del rapporto: da un lato la tutela del diritto all'inamovibilità del lavoratore (rispondente alle esigenze familiari e personali dello stesso) e, dall'altro, la garanzia di una flessibilità organizzativa confacente alle esigenze economiche e produttive dell'azienda.
Condizioni generali di legittimità del trasferimento
La norma-base da cui è desumibile la disciplina generale della materia è costituita dall'
art. 2103, comma 8, c.c. (disposizione non soggetta a modifiche da parte del Jobs Act), in base alla quale il lavoratore
«non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive».
Dalla formulazione letterale della norma in esame – che pur riconoscendo l'effettiva esistenza del potere datoriale, pone l'accento sul diritto all'inamovibilità del lavoratore – si può desumere:
- l'ascrivibilità della disciplina limitativa al solo trasferimento da un'unità produttiva ad un'altra;
- la necessaria sussistenza di una giustificazione tecnico-organizzativa alla base del trasferimento;
- l'obbligo di preventiva comunicazione del trasferimento a carico del datore di lavoro senza previsione di alcun onere formale (nonostante tale carenza sia di sovente sopperita dalle specifiche disposizioni dei contratti collettivi di lavoro);
- l'esclusione della necessità dell'obbligo di consenso da parte del lavoratore (salvo particolari categorie di lavoratori e casi particolarissimi previsti dalla contrattazione collettiva, come l'anzianità anagrafica o professionale del prestatore ).
Con riferimento alla
nozione di trasferimento di cui all'
art. 2103, comma 8, c.c.:
|
sono assoggettate al limite della giustificazione obiettiva le sole modificazioni del luogo di lavoro che comportino l'adibizione del lavoratore ad un'unità produttiva diversa da quella di provenienza.
|
|
Tuttavia, in taluni casi il datore di lavoro è tenuto a provare il rispetto di un'ulteriore condizione a prescindere dalla qualificazione del nuovo luogo di lavoro quale unità produttiva. Si tratta delle ipotesi in cui la contrattazione collettiva preveda, ai fini della legittimità del provvedimento datoriale, la c.d. mobilità su piazza, circoscrivendo il trasferimento all'interno del medesimo territorio comunale.
|
La giurisprudenza definisce l'unità produttiva – la cui nozione può trovare specificazione nella contrattazione collettiva - come ogni articolazione autonoma dell'impresa avente, sotto l'aspetto funzionale e finalistico, idoneità ad espletare in tutto o in parte l'attività di produzione di beni o di servizi propri dell'impresa stessa, della quale costituisca una componente organizzativa connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale.
|
Talvolta, tuttavia, l'individuazione dell'unità produttiva non risulta agevole. Si pensi, ad esempio, al lavoratore che non abbia un luogo di lavoro fisso ma adempia alla prestazione in modo itinerante (viaggiatori, piazzisti e addetti ai trasporti). In tali ipotesi, la giurisprudenza ha ovviato alla problematica della mancanza di un posto di lavoro fisso, facendo coincidere l'unità produttiva con il territorio in cui devono essere eseguite le prestazioni di lavoro.
|
Come già accennato, il presupposto delle due differenti unità produttive trova la propria ratio nella valorizzazione dell'interesse ad una relativa inamovibilità del lavoratore, salvaguardandolo da effettivi disagi familiari e personali che possano derivare da considerevoli variazioni geografiche del luogo di lavoro.
Può tuttavia accadere che, a causa della ridotta distanza tra l'unità produttiva di provenienza e quella di destinazione, il trasferimento non determini un disagevole allontanamento del centro dell'attività lavorativa da quello della vita familiare del lavoratore.
|
Per tale motivo, la giurisprudenza ha individuato nell'apprezzabilità dello spostamento topografico un ulteriore (e sufficiente) requisito - non richiesto dall'art. 2103, comma 8, c.c. - per l'applicazione della disciplina protettiva.
Ciò comporta che:
- il datore di lavoro non è tenuto a provare la sussistenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento, qualora si tratti di meri spostamenti in unità produttive situate nello stesso stabile o poco distanti l'una dall'altra;
- la nozione di trasferimento del lavoratore in senso tecnico non è configurabile quando lo spostamento venga attuato nell'ambito della medesima unità produttiva, salvo i casi in cui l'unità produttiva comprenda uffici notevolmente distanti tra loro;
- la notevole distanza tra i due diversi luoghi di lavoro - quello di provenienza e quello di destinazione - comporta l'applicazione dell'art. 2103 c.c. anche in mancanza del presupposto delle due diverse unità produttive.
|
|
Inoltre, qualora la distanza tra le due unità produttive sia tale da determinare una radicale modifica del contesto familiare e sociale - con ovvie ricadute sulle esigenze di cura familiare – a causa delle obiettive difficoltà connesse al trasferimento e per l'inevitabile sradicamento dal centro affettivo, dalla modifica unilaterale del luogo di lavoro risulta ritenersi ragionevole, come prevedibile conseguenza, la cessazione del rapporto lavorativo .
In tal senso, adeguandosi al consolidato indirizzo della giurisprudenza eurounitaria, si è recentemente pronunciata la Suprema Corte: «Alla luce di una corretta interpretazione dell'art. 1, par. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 98/59/CE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo».
|
Per quanto concerne, invece, il requisito della sussistenza di una
giustificazione tecnico-organizzativa:
|
il trasferimento del lavoratore da un'unità produttiva ad un'altra può avvenire solo in presenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive».
|
Si tratta di un giustificato motivo oggettivo che riporta, per certi versi, a quello previsto in materia di licenziamento, tale da determinare la giurisprudenza a valorizzare i poteri unilaterali del datore di cui all'
art. 41 Cost.. Per tale ragione, il giudice, al fine di verificare l'eventuale arbitrarietà del provvedimento datoriale, deve limitarsi a vagliare la sussistenza del nesso di causalità fra la scelta tecnico-produttiva ed il trasferimento, senza poter sindacare nel merito le ragioni alla base della scelta , nonché l'opzione del datore di lavoro tra varie ragionevoli soluzioni organizzative .
La normativa di riferimento in materia prevede poi che le ragioni obiettive alla base del provvedimento debbano essere «comprovate».
|
Proprio da tale aggettivo adottato dal legislatore si può desumere che la legittimità del trasferimento dipenda altresì dalla preventiva comunicazione del provvedimento datoriale al lavoratore. Si tratta di un implicito obbligo gravante sul datore di lavoro, il quale può adempiervi libero da qualsivoglia onere formale, salvo che la contrattazione collettiva imponga allo stesso la forma scritta ed eventuali termini di preavviso.
|
Il trasferimento per incompatibilità ambientale
L'
art. 7, comma 4, L. n. 300/1970 nel vietare sanzioni disciplinari comportanti
«mutamenti definitivi del rapporto», escluderebbe il trasferimento dal novero dei provvedimenti irrogabili in risposta al fatto illecito del lavoratore.
|
In base al principio di tipicità delle sanzioni disciplinari, quindi, il trasferimento disciplinare è legittimo soltanto nel caso in cui il CCNL applicabile al rapporto di lavoro preveda la modifica della sede di lavoro come una delle possibili sanzioni disciplinari.
|
|
Ciò nonostante, può accadere che il comportamento del lavoratore - anche quando non integri un illecito disciplinare – possa irrimediabilmente compromettere i rapporti tra lo stesso ed i suoi colleghi e/o superiori o contrasti nell'ambiente di lavoro, pregiudicando, di conseguenza, il regolare svolgimento dell'attività produttiva dell'impresa. Per tale motivo, la giurisprudenza ha elaborato un'ulteriore ragione giustificativa del trasferimento: la c.d. incompatibilità ambientale.
|
|
In ogni caso, la giurisprudenza più recente, al fine di fugare ogni dubbio di coerenza con il divieto disposto dallo Statuto dei lavoratori, ha precisato che il ricorso a siffatta figura di trasferimento sia legittimo solo allorquando l'incompatibilità ambientale provocata dalla condotta del lavoratore si traduca in un'oggettiva ed apprezzabile difficoltà organizzativa e gestionale nell'unità produttiva.
|
Discipline speciali per particolari categorie di lavoratori
Per alcune tipologie di lavoratori, per caratteristiche soggettive o per il ruolo rivestito, la disciplina giuslavoristica prevede limiti più pregnanti in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell'azienda.
In particolare, è prevista una tutela particolarmente rafforzata nei confronti di:
|
-
lavoratrici madri: le quali, ai sensi dell'art. 56, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001, «hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all'inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino». Lo stesso divieto di trasferimento è altresì previsto per le lavoratrici madri ed i lavoratori padri al rientro dai periodi di congedo, permesso e riposo disciplinati dallo stesso testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità (art. 56, comma 3, D.Lgs. n. 151/2001).
-
Lavoratori affetti da disabilità particolarmente grave e lavoratori che assistono con continuità un familiare disabile (art. 33, comma 5 e 6, L. n. 104/1992): per i quali le disposizioni speciali in materia prevedono un divieto di trasferimento in altra sede, senza il loro consenso, salvo i casi di soppressione del posto o di altre situazioni di fatto (es. incompatibilità ambientale) insuscettibili di essere diversamente soddisfatte. I lavoratori caregiver possono inoltre chiedere al datore di lavoro, ove possibile, di essere trasferiti in una sede di lavoro più vicina al domicilio del familiare da assistere.
-
Sindacalisti “interni” (dirigenti della rappresentanza sindacale aziendale ovvero candidati e membri di commissione interna): i quali, ai sensi dell'art. 22 L. n. 300/1970, godono di un diritto all'inamovibilità che può essere rimosso esclusivamente tramite nulla-osta dell'associazione sindacale di appartenenza (che non preclude comunque il rispetto delle previsioni di cui all'art. 2103 c.c. da parte del datore di lavoro). Tale vincolo permane durante tutto l'incarico e fino al termine dell'anno successivo a quello in cui cessa la carica di rappresentante sindacale aziendale.
|
Il trasferimento collettivo
Fenomeno che merita separata trattazione è costituito dal trasferimento collettivo che investe problematiche ulteriori attinenti alla sopravvivenza stessa dell'impresa, risultando spesso oggetto di consultazione e/o trattativa con le organizzazioni sindacali a pena di sanzione di illegittimità dello stesso.
|
A tal proposito, orientamento consolidato in giurisprudenza ritiene che ove lo spostamento di una pluralità di lavoratori da una sede ad un'altra dell'impresa non implichi la chiusura del reparto o dell'unità produttiva, il medesimo deve essere regolamentato dalla disciplina vigente in materia di trasferimento individuale e da quella eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva.
|
Strumenti di tutela in caso di trasferimento illegittimo
Il provvedimento di trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda.
Qualora, tuttavia, il trasferimento risulti
prima facie discriminatorio o, in ogni caso, illegittimo poiché sprovvisto dei requisiti di cui all'
art. 2103, comma 8, c.c., il lavoratore può alternativamente:
- rifiutarsi in autotutela di ottemperare al provvedimento datoriale illegittimo, anche senza una pronuncia del giudice sulla nullità del trasferimento;
- contestare giudizialmente il trasferimento intimato in violazione delle disposizioni di legge – previa impugnazione stragiudiziale dello stesso - al fine di ottenere una declaratoria di nullità e l'ordine di reintegrazione in servizio presso la sede originaria.
Con riferimento al
rifiuto del lavoratore di recarsi presso la nuova sede:
|
la giurisprudenza della Suprema Corte ha recentemente enucleato una serie di requisiti di legittimità, in difetto dei quali il rifiuto del lavoratore determina un'assenza ingiustificata che, se protratta nel tempo, può configurare giusta causa di licenziamento.
In particolare, la legittimità dell'opposizione in autotutela del lavoratore dipende:
- dalla sua proporzionalità rispetto all'inadempimento datoriale;
- dall'accompagnamento di una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria;
- dalla sua conformità alla buona fede.
|
Per quanto concerne invece il
rimedio giudiziale:
|
l'art. 32, comma 3, lett. c), L. n. 183/2010– richiamando quanto disposto in materia di licenziamento – prevede un duplice termine di decadenza da rispettare:
-
60 giorni dalla ricezione della comunicazione del trasferimento per l'impugnazione stragiudiziale (con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore);
-
180 giorni dall'impugnazione stragiudiziale per il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale competente.
|
Nonostante il datore di lavoro sia esente dall'obbligo di motivare il provvedimento, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, è
onere del datore di lavoro stesso allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato, non potendo quest'ultimo limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma dovendo comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento.
Conclusioni
Il trasferimento del lavoratore pur garantendo – nel rispetto delle condizioni dettate dalla disciplina vigente – un efficace coordinamento delle contrapposte esigenze delle parti del rapporto di lavoro, vincola il prestatore di lavoro ai luoghi che rientrano nella disponibilità del datore di lavoro (con la ben nota eccezione del lavoro a domicilio). Per tale motivo, in seguito all'emergenza sanitaria COVID-19, diverse imprese hanno cominciato ad adottare regolarmente – ove possibile – un nuovo strumento di flessibilità organizzativa consistente nel lavoro agile (
c.d. smart working) in grado non solo di garantire alle aziende una maggiore efficienza tecnico-produttiva (attraverso una cospicua ottimizzazione dei costi ed una dinamica gestione del personale), ma anche di assicurare al lavoratore una migliore armonizzazione dell'attività lavorativa e delle esigenze di vita privata (attraverso un'autonoma e responsabile scelta di strumenti, orari e luoghi di lavoro).