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24 settembre 2021 Deontologia forense
Il diritto di difesa non giustifica l’uso di espressioni sconvenienti ed offensive da parte del legale
Secondo il CNF «nell'ambito della propria attività difensiva, l'avvocato deve e può esporre le ragioni del proprio assistito con rigore, utilizzando tutti gli strumenti processuali di cui dispone, ma il diritto della difesa incontra un limite insuperabile nella civile convivenza, nel diritto della controparte o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato».
di La Redazione

Il CDD del Molise deliberava l'apertura del procedimento disciplinare nei confronti di un avvocato che aveva tenuto comportamenti compromettenti l'immagine della professione forense in quanto nell'atto di opposizione alla richiesta di archiviazione prodotto in un procedimento penale aveva utilizzato espressioni sconvenienti ed offensive nei confronti del Pubblico Ministero. In tal modo, aveva dunque violato i doveri di lealtà, correttezza, probità, decoro e dignità nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense.

La vicenda trae origine da una famiglia di imprenditori che denunciava la pubblicazione di alcuni post diffamatori sui social da parte di un assessore. Il Pubblico Ministero archiviava la loro denuncia in quanto riteneva che i post contestati non permettevano di risalire ai destinatari dell'offesa.
L'avvocato degli imprenditori proponeva opposizione all'archiviazione davanti al GIP e usava uno stratagemma per avvalorare la fondatezza della sua opposizione: rivolgeva al PM le stesse espressioni utilizzate dall'assessore querelato verso i suoi assistiti, inserendo al posto delle loro iniziali quelle del Pubblico Ministero.
Il GIP accoglieva l'opposizione, ma segnalava al Consiglio dell'Ordine la parafrasi in questione ritenendola non adeguata.

Nel corso del procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti, l'avvocato si rammaricava per le espressioni usate. Considerato ciò, il CDD sanzionava in forma lieve il professionista, ma giudicava i fatti deontologicamente scorretti in quanto «esiste un limite non superabile nell'esercizio del diritto di difesa e di critica, e consiste nel rispetto dell'altrui personalità».

Avverso tale decisione, l'avvocato propone ricorso davanti al CNF. Nelle sue argomentazioni difensive spiega che le parole utilizzate non erano sue, ma dell'indagato, e richiama alcuni precedenti del CNF che invitano a valutare l'offensività dello scritto tenendo presente lo scopo e il significato complessivo dell'atto giudiziario.

Con sentenza n. 84 del 28 aprile 2021, il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso ribadendo che «l'autorevolezza di un avvocato, consapevole del suo ruolo, risieda non solo e non tanto nella sua preparazione, nel suo personale talento ma nell'onestà e correttezza del suo comportamento. La corrispondenza di quest'ultimo ai canoni deontologicamente stabiliti è a tutela non del singolo avvocato, ma dell'intera avvocatura, ed è per tale motivo che il comportamento del professionista non soltanto debba essere rispettoso di tali canoni, ma debba altresì sempre apparire tale e non pare che il ricorrere a giochi di parole nel corso di un atto giudiziario con riferimento al nome dell'autore del provvedimento impugnato possa essere letto da soggetti terzi come rispettoso della figura professionale dell'avvocato ed apparire necessario e corretto».
Secondo il CNF, dunque, sono rilevanti non solo le espressioni considerabili «offensive» ma anche quello che il lettore dell'atto percepisce come «sconvenienti».

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