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Articolo realizzato con la collaborazione dell'avv. Valeria Pollinzi
Resta a margine la questione oggetto dell'originario giudizio che segue la decisione della Corte d'Appello di Roma in materia di opposizione a decreto ingiuntivo. Il Supremo Collegio si sofferma infatti su una questione pregiudiziale che la porta alla formulazione della proposta di definizione anticipata ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., con la quale viene prospettata l'improcedibilità del ricorso. Al decreto fa seguito la richiesta di decisione che il ricorrente formula nel presumibile intento di controvertere sulle criticità delle motivazioni esposte nel provvedimento interinale. La decisione della Corte di Cassazione contiene due rilevanti principi di diritto:
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La decisione in commento si sviluppa sui due profili processuali sopra riassunti. Preliminare e pregiudiziale è quello afferente alla questione di improcedibilità del ricorso che la Corte sviluppa attraverso la disamina del ricorso introduttivo e del relativo fascicolo. Il primo viene notificato alle controparti mediante procedimento con posta elettronica certificata, il secondo viene depositato con modalità analogiche (cartaceo) e comprende unilaterale dichiarazione, resa dal difensore della parte ricorrente, contenente l'indicazione della data di notifica della sentenza della corte territoriale. Tale dichiarazione – rileva la Cassazione (richiamando l'autorevole precedente reso dalla Sezioni Unite nella sentenza 21349/2022) - costituisce l'attestazione di un fatto processuale idoneo a far decorrere il termine breve di impugnazione ex art. 325 c.p.c. e, in quanto manifestazione dell'autoresponsabilità della parte, la impegna a subire le conseguenze di quanto dichiarato, facendo sorgere in capo alla stessa, ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., l'onere di depositare, nel termine ivi previsto, non solo la copia della sentenza munita della relata di notifica (per come stabilito dalle SU sopra menzionate), ma anche la prova che la notifica sia avvenuta in una data certa. Nel caso di specie, essendo stata la procedura eseguita mediante comunicazione di posta elettronica certificata (PEC), detta dimostrazione può ritenersi realizzata solo attraverso la produzione delle copie delle due ricevute emesse dal sistema informatico di posta certificata (di accettazione e di consegna), associate – se il deposito è effettuato con documenti cartacei - all'attestazione della loro conformità agli originali informatici generati dal gestore della PEC. Non è sufficiente, a tal fine, limitarsi alla sola annotazione della data di notificazione della sentenza pur rinvenibile nella relazione di notifica del ricorso per cassazione; e ciò perché «…la qualifica di pubblico ufficiale e i relativi poteri certificatori del difensore che attesta la conformità della copia cartacea all'originale digitale di un atto è limitata, ai sensi dell'art. 16-undecies, comma 3-bis, del dl n° 179/2012, all'attestazione di conformità, ossia alla certificazione della corrispondenza dell'atto cartaceo a quello digitale, e non si estende anche al contenuto di tale ultimo atto o ad altri fatti non risultanti dai documenti depositati». Altro principio che la Corte elabora attiene invece alla vicenda del procedimento di legittimità in cui sia stata formulata proposta per la definizione anticipata ai sensi dell'art. 382-bis c.p.c.. Rileva il Collegio che, qualora essa venga disattesa dal ricorrente che si dichiari interessato alla decisione, e quest'ultima «…definisca il giudizio in conformità alla proposta, debbono trovare applicazione il terzo e il quarto comma dell'articolo 96 c.p.c.» entrambi produttivi di effetti sul trattamento delle spese di causa. In applicazione del disposto di cui al comma 3 della norma sopra citata, potrà quindi essere pronunciata la condanna della parte al pagamento di una somma ulteriore in favore del controricorrente, da quantificarsi equitativamente, e suscettibile di essere ulteriormente integrata dall'ulteriore sanzione (non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 5.000,00) prevista al 4.o comma dell'art. 96 c.p.c. di cui beneficerà, in questo caso, la Cassa delle ammende. |
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A commento della decisione sopra esposta pare opportuno premettere come la sua portata possa ritenersi – sia pure in parte – gradualmente ridimensionata dalla codificazione dell'obbligo di deposito telematico degli atti processuali anche davanti alla Corte di Cassazione, introdotta dalla recente riforma Cartabia. Discende da essa tanto l'obbligo di notificazione telematica a mezzo PEC del ricorso introduttivo diretto al difensore delle parti costituite nel giudizio di merito, quanto la successiva iscrizione a ruolo telematica del relativo procedimento, comprensiva della produzione (anch'essa telematica) della documentazione della fase di notifica degli atti, costituita dalle ricevute “di accettazione” e “di consegna” prodotte contestualmente alla richiesta di invio del messaggio di posta elettronica certificata. Questa documentazione assume una propria autonomia nel contesto della busta telematica in cui è compresa l'intera produzione processuale e si risolve nell'allegazione dei file delle suddette ricevute nel loro formato nativo, contrassegnate – nella gran parte dei casi - dall'estensione “ *.eml” ovvero – laddove si utilizzi una specifica applicazione per la gestione della posta elettronica – “ *.msg”. Al netto della scelta sovente adottata di procedere alla produzione congiunta tanto dei file informatici quanto della versione stampata e convertita in formato PDF, deve dirsi che solo l'allegazione dei file informatici possa ritenersi idonea a fornire prova incontrovertibile dell'intera procedura di notifica eseguita a mezzo pec e quindi anche della data e dell'orario in cui essa è stata eseguita, ed ancora dell'intera documentazione allegata, reperibile all'interno della “ricevuta di consegna”. È a dirsi come il procedimento che qui si commenta si sviluppi a cavallo di un momento per alcuni versi storico e coinciso con l'istituzionalizzazione del deposito telematico degli atti processuali anche in Corte di Cassazione, reso facoltativo dalla data del 31 marzo 2021 in forza del provvedimento del direttore generale della DGSIA del 27 gennaio 2021, recante «Attivazione presso la Corte di cassazione, settore civile, del servizio di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte dei difensori delle parti, ai sensi dell'art. 221, comma 5, del d.l. n. 34 del 2020». Fino a quella data (ed al netto del periodo di emergenza epidemiologica) questa possibilità era meramente eventuale e potrebbe aver determinato la scelta del difensore del ricorrente alla produzione di copia analogica (cartacea) delle ricevute di notifica a mezzo PEC, associandole all'unilaterale «asseverazione di conformità della copia cartacea dell'atto notificato in formato telematico via p.e.c.» con cui viene letteralmente attestato che «…l'antescritto atto, composto di 3 pagine e 6 facciate» – espressione che fa riferimento alla sentenza di secondo grado ed alla relata di notifica di essa – è copia conforme, in formato analogico, dell'atto che è stato notificato in formato digitale a mezzo posta elettronica certificata mediante invio in data: «03/02/2021 alle ore: 17:38:24 (+0100) di messaggio di posta elettronica certificata coi relativi allegati firmati digitalmente dalla casella p.e.c.: xxx@pec.it: alla casella di posta elettronica certificata: aaa@pec.it, ecc…» L'attestazione sopra trascritta è però cosa diversa dalla produzione richiesta dalla consolidata giurisprudenza di legittimità e che impone l'allegazione delle copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione (in parte acquisibile anche dal controricorrente secondo Cass. n. 3466/2020 e 19695/2019); essa non è quindi satisfattiva delle prescrizioni codicistiche, ancor più ove mancanti – come rileva il Collegio – delle dichiarazioni di conformità dell'analogico “cartaceo” al digitale notificato. La rigorosa applicazione del disposto di cui all'art. 369 comma 2 sub 2 c.p.c. secondo cui «Insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità:… 2) copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta…», conduce all'inevitabile declaratoria di rigetto che, nel caso di specie, spiega la sua rilevanza anche sul trattamento delle spese del processo. La decisione sul punto sembrerebbe, in questo caso, compatibile con quegli intenti dissuasivi da anni introdotti nel sistema del contenzioso giudiziale, preordinati a circoscriverne il ricorso e solitamente realizzati mediante periodico aumento dei costi di giustizia; ricorso esasperato alle procedure obbligatorie di alternative justice e – spesso – attraverso l'aumento consistente di preclusioni processuali. La decisione in esame pare sposare quest'ultimo profilo, sanzionando severamente la parte che, non appagata dalla sommaria seppur autorevole valutazione preliminare di improcedibilità del ricorso, abbia sollecitato la decisione completa di una procedura altrimenti risolvibile nelle forme della decisione “anticipata”. Rileva in proposito il Supremo Collegio che «…se la parte ha chiesto la decisione dopo la comunicazione della proposta di definizione anticipata e la Corte definisce il giudizio in conformità alla proposta, debbono trovare applicazione il terzo e il quarto comma dell'articolo 96 cod.proc.civ.» e che in caso di conformità tra detta proposta e successiva decisione finale «…sussistono i presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma, cod.proc.civ.) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 5.000,00 (art. 96, quarto comma).» Si tratta di una previsione idonea a codificare una fattispecie di abuso del processo che viene idealmente collocato nel generale istituto processuale del divieto di lite temeraria, non di libera applicazione ma assoggettata ad una valutazione delle caratteristiche del caso di specie (Sez. Un. n. 36069 del 27.12.2023) che ne legittimi una concreta applicazione perfettamente conforme ai princìpi Costituzionali. Nel caso in commento questa valutazione si risolve negativamente per il ricorrente che viene quindi condannato al pagamento delle spese di giudizio, al versamento dell'importo del contributo unificato, raddoppiato a titolo di sanzione processuale, all'aggravio di spese, in favore delle controparti di una somma equitativamente determinata in misura pari all'importo delle spese processuali (rif. art. 96, comma 3, c.p.c.), nonché al pagamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma pari ad € 2.500,00. Un totale che, in rapporto al rilevante valore della causa, assomma ad oltre 60.000 euro. |
Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza (ud. 10 luglio 2024) 15 luglio 2024, n. 19328
Svolgimento del processo
1.- Con sentenza n° 2360 del 28 gennaio 2021 la Corte d’appello di Roma confermava la sentenza di primo grado emessa dal tribunale della medesima città con la quale venivano accolte le due distinte opposizioni (poi riunite) al medesimo decreto ingiuntivo ottenuto dal G.R. s.r.l. (gestore della Omissis, con sede nell’omonimo Comune) per euro 1.115.199,27: decreto col quale era stato ingiunto in solido alla Regione Lazio ed alla Asl Viterbo il pagamento di prestazioni sanitarie erogate dalla ricorrente in regime asseritamente convenzionato.
Osservava la Corte territoriale in via preliminare che le domande formulate dalla R. nel giudizio di opposizione a decreto ingiunti- vo, fondate sul disposto degli artt. 2041 e 1337 c.c. erano state correttamente dichiarate inammissibili dal primo giudice, non potendo il creditore in monitorio formulare domande nuove rispetto a quella di adempimento contrattuale posta alla base del ricorso, salvo quelle conseguenti alle domande ed alle eccezioni in senso stretto proposte dall'opponente.
Quanto al merito, pur essendo l’appello fondato su vari motivi, poteva farsi applicazione del principio della ragione più liquida.
In base ad esso, “rilievo assorbente” aveva il mancato accreditamento per la riabilitazione post acuzie: donde l’impossibilità di porre a carico della Regione alcun onere di erogazione di prestazioni sanita- rie, come peraltro già statuito da Cass. 7019/2020, Cass. 17588/2018 e Cass. 12392/2014.
2.- Ricorre per cassazione il G.R. affidando il gravame a tre motivi.
Resistono la Regione Lazio e l’Asl Viterbo, che concludono per la reiezione dell’impugnazione.
La C. s.r.l., procuratrice di I. s.r.l., intervenuta nel primo grado quale cessionaria del credito di R., non si è costituita nonostante la regolare notifica a mezzo p.e.c. del ricorso presso l’indirizzo indicato dai difensori nel grado d’appello.
3.- Con provvedimento del 15 dicembre 2023 il consigliere delega- to ha formulato proposta di decisione accelerata, osservando che la G.R. s.r.l. aveva dichiarato che la sentenza impugnata era stata notificata il 3 febbraio 2021 e che, tuttavia, non era stata depositata la relativa relazione di notificazione da parte della ricorrente: donde l’improcedibilità del gravame.
Con istanza 22 gennaio 2024, ex art. 380-bis, secondo comma, la ricorrente ha chiesto la decisione, facendo osservare che “la notifica- zione della sentenza impugnata è stata effettuata a mezzo di posta elettronica certificata e la relazione di notificazione telematica, contrariamente a quanto affermato nella proposta di definizione anticipata, è presente in atti, sebbene priva di data per determinazione dell’avvocato notificante (nella prassi, molti avvocati sono soliti apporre la dicitura “data di notificazione” o non specificare alcunché)”. A tale allegazione ha replicato la Asl Viterbo con memoria del 28 giugno 2024, asserendo che “la notifica della sentenza è stata effettuata a mezzo pec e pertanto, a pena di improcedibilità rilevabile d’ufficio, doveva essere prodotta nel presente giudizio copia analogica con attestazione di conformità del messaggio di posta elettronica certificata ricevuto, nonché della relazione di noti- fica e del provvedimento impugnato allegati al messaggio”.
Motivi della decisione
4.- Col primo motivo, formulato ex art. 360 n° 4 c.p.c., la ricorrente si duole della violazione del combinato disposto degli artt. 645, secondo comma, 167, secondo comma, e 183, quinto comma, c.p.c. derivante dall’erronea declaratoria di inammissibilità delle domande di condanna al risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. e al pagamento dell'indennizzo ex art. 2041 c.c., formulate dalla G.R. in comparsa di risposta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo a seguito delle eccezioni di inesistenza di un titolo contrattuale sollevate dalle opponenti Regione Lazio e dall’Asl.
Col secondo mezzo, del pari formulato ai sensi dell’art. 360 n° 4 c.p.c., la ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., in ragione dell'omessa pronuncia sul terzo motivo di appello proposto, col quale la G.R. si era doluta in secondo grado della declaratoria di nullità del contratto tra essa e l’Asl Viterbo per mancanza di forma scritta, nonostante esistesse già un rapporto contrattuale, derivante dalla Delibera della giunta regionale n° 143 del 22 marzo 2006 (che, sebbene adottata in difformità dall’iter formativo previsto dalla legge regionale, era stata nondimeno pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione) e dalla prosecuzione delle prestazioni con indicazione dei tetti di spesa.
Con la terza doglianza, ancora una volta fondata sull’art. 360 n° 4 c.p.c., la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., in ragione dell'omessa pronuncia sul secondo motivo di appello, col quale era stata predicata la legittimazione P.va della Regione Lazio in base al disposto dell’art. 3, decimo comma, del dl n° 324/1993.
5.- Preliminarmente va esaminata la questione segnalata nella proposta di definizione accelerata, che – essendo fondata – determina l’improcedibilità del presente giudizio.
La ricorrente, infatti, si è costituita depositando un ricorso cartaceo (o analogico) nel quale ha dichiarato (pagina 2) che la sentenza della Corte territoriale le sarebbe stata “notificata a mezzo pec e ad istanza dell'Avv. M.R.R.V. nell'interesse della AZIENDA SANITARIA LOCALE DI VITERBO in data 03.02.2021 (cfr. ALL. N. 2)”.
Ora, come stabilito da Cass. S.U. 21349/2022, tale dichiarazione costituisce l'attestazione di un fatto processuale idoneo a far decorrere il termine breve di impugnazione ex art. 325 c.p.c. e, in quanto manifestazione della autoresponsabilità della parte, la impegna a subire le conseguenze di quanto dichiarato, facendo sorgere, in capo ad essa, ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n° 2, c.p.c., l'o- nere di depositare, nel termine ivi previsto, non solo la copia della sentenza munita della relata di notifica (come stabilito dalle SU citate), ma – deve ritenersi – anche la prova che la notifica p.e.c. della decisione di secondo grado sia avvenuta nella data enunciata. Sennonché, dal controllo del fascicolo analogico (a cui questa Corte può e deve procedere, trattandosi di questione processuale) è emerso che la G.R. ha depositato le copie cartacee della sentenza di secondo grado e della relata di notifica a mezzo p.e.c. effettuata dal difensore della controparte Asl Viterbo (avvocato M.R.R.), nonché una “asseverazione di conformità della copia cartacea dell'atto notificato in formato telematico via p.e.c., nella quale il difensore della odierna ricorrente, avvocato M.P., ha attestato che “l’antescritto atto, composto di 3 pagine e 6 facciate” – espressione che fa riferimento alla sentenza di secondo grado ed alla relata di notifica di essa – “(…) è copia conforme, in formato analogico, dell'atto che è stato notificato in formato digitale a mezzo posta elettronica certi- ficata mediante invio in data: 03/02/2021 alle ore: 17:38:24 (+0100) di messaggio di posta elettronica certificata coi relativi allegati firmati digitalmente dalla casella p.e.c.: omissis; alla casella di posta elettronica certificata: omissis”
Mancano, però, in atti le copie analogiche delle due ricevute emesse dal sistema informatico di posta certificata: quella di accettazione della p.e.c. inviata dal difensore dell’Asl Viterbo e, soprattutto, quella di consegna di tale p.e.c. alla casella di destinazione p.e.c. intestata all’avvocato M.P..
Copie che, ovviamente, dovevano essere accompagnate dall’attestazione della loro conformità agli originali informatici generati dal sistema informatico del gestore della p.e.c..
Sussistendo tali carenze, non può dirsi fornita nel termine perentorio fissato dalla legge processuale a pena di improcedibilità del ricorso la dimostrazione dell’intervenuta ricezione della p.e.c. di notifica della sentenza d’appello in data 3 febbraio 2021.
Ed a tale carenza non può supplire la dichiarazione contenuta nella relazione di notifica del ricorso per cassazione – nella quale il difensore della G.R., avvocato P., dichiara che la sentenza d’appello gli sarebbe stata notificata il 3 febbraio 202 – sol che si consideri che la qualifica di pubblico ufficiale e i relativi poteri certificatori del difensore che attesta la conformità della copia cartacea all’originale digitale di un atto è limitata, ai sensi dell’art. 16-undecies, comma 3-bis, del dl n° 179/2012, all’attestazione di conformità, ossia alla certificazione della corrispondenza dell’atto cartaceo a quello digitale, e non si estende anche al contenuto di tale ultimo atto o ad altri fatti non risultanti dai documenti depositati.
Ne deriva che l’attestazione esplica il suo effetto solo ove sia prodotta la copia dell’atto digitale attestato conforme, senza che le dichiarazioni dell’attestatore possano supplire alla mancata produzione dell’atto stesso, oggetto di attestazione.
6.- Alla improcedibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese in favore della controparte, per la cui liquidazione – fatta in base al valore della lite (euro 1.115.000,00) ed al dm n° 55 del 2014, come modificato dal dm n° 147 del 2022 – si rimanda al dispositivo che segue.
7. - Ai sensi dell’art.380-bis, comma 3, cod.proc.civ., se la parte ha chiesto la decisione dopo la comunicazione della proposta di de- finizione anticipata e la Corte definisce il giudizio in conformità alla proposta, debbono trovare applicazione il terzo e il quarto comma dell'articolo 96 cod.proc.civ. Secondo questa Corte, la novità normativa [introdotta dall'art. 3, comma 28, lett. g), d.lgs. 10.10.2022, n. 149, a decorrere dal 18.10.2022, ai sensi di quanto disposto dall'art. 52, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 149/2022] contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna di una somma equitativamente de- terminata a favore della controparte (art. 96, terzo comma, cod.proc.civ.) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 5.000,00 (art. 96, quarto comma). Risulta così «codificata una ipotesi di abuso del processo, peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale, tant’è che la opzione interpretativa, sulla disciplina intertemporale, ne ha fatto applicazione – in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 35 comma 1 del d.lgs. n. 149/2022 – ai giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1°.1.2023 per i quali non era stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio; anche ai fini della reattività ordinamentale, l’istituto integra il corredo di incentivi e di fattori di dissuasione contenuto nella norma in esame (che sono finalizzati a rimarcare, come chiarito nella relazione illustrativa al D. Lgs. n. 149/2022, la limitatezza della risorsa giustizia, essendo giustificato che colui che abbia contribuito a dissiparla, nonostante una prima delibazione negativa, sostenga un costo aggiuntivo).» (Sez. U, n. 28540 del 13.10.2023; n. 27433 del 27.9.2023; n. 27195 del 22.9.2023; n.28619 del 13.10.2023; n.37069 del 27.12.2023; n.3727 del 9.2.2024; n.3763 del 12.2.2024). Se pur di siffatta ipo- tesi di abuso, già immanente nel sistema processuale, va esclusa una interpretazione che conduca ad automatismi non in linea con una lettura costituzionalmente compatibile del nuovo istituto, sicché l’applicazione in concreto delle predette sanzioni deve rimanere affidata alla valutazione delle caratteristiche del caso di specie (Sez.Un. n.36069 del 27.12.2023), nondimeno nell’ipotesi in esame non si rinviene alcuna ragione per discostarsi dalla suddetta previsione legale: è evidente la complessiva piena «tenuta» del sintetico provvedimento di proposta di definizione anticipata rispetto alla motivazione necessaria per confermare l’improcedibilità del ricorso. La ricorrente deve quindi essere condannata al pagamento, a favo- re delle controparti, ex art.96, comma 3, cod.proc.civ. di una somma equitativamente determinata in misura pari all’importo del- le spese processuali nonché, ex art.96, comma 4, cod.proc.civ. al pagamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma pari ad € 2.500,00.
Da ultimo, va dato atto della sussistenza dei presupposti di cui all’articolo 13, comma 1-quater, del decreto del presidente della repubblica 30 maggio 2002 n° 115, per il raddoppio del contributo unificato a carico della ricorrente, ove dovuto.
P.Q.M.
la Corte dichiara improcedibile il ricorso e dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’articolo 13, comma 1-quater, del decreto del presidente della repubblica 30 maggio 2002 n° 115, per il raddoppio del contributo unificato a carico della ricorrente, ove dovuto. Condanna, inoltre, la ricorrente a rifondere alle controricorrenti le spese del presente giudizio, che liquida a favore di ciascuna in euro 10.000,00 per onorari ed in euro 200,00 per esborsi. Condanna, infine, la ricorrente a pagare a ciascuna delle controricorrenti la somma di euro 10.000,00 ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., ed a versare alla Cassa delle ammende l’ulteriore importo di euro 2.500,00 ex art.96, 4° comma, c.p.c..