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22 luglio 2024 Civile e processo
Obbligo del ricorrente di dare prova, pena improcedibilità, della notificazione della sentenza impugnata
Con l'ordinanza in commento la Suprema Corte chiarisce quali sono gli effetti derivanti dall'omessa prova della data di notificazione della sentenza di appello impugnata in sede di legittimità: definizione del processo ed eventuale “abuso del processo”.
di Avv. Fabrizio Sigillò
Il caso

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Articolo realizzato con la collaborazione dell'avv. Valeria Pollinzi

La Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, con ordinanza del 15 luglio 2024 n. 19328 si pronuncia sugli effetti discendenti dall'omessa prova della data di notificazione della sentenza di secondo grado impugnata in sede di legittimità.

Resta a margine la questione oggetto dell'originario giudizio che segue la decisione della Corte d'Appello di Roma in materia di opposizione a decreto ingiuntivo. Il Supremo Collegio si sofferma infatti su una questione pregiudiziale che la porta alla formulazione della proposta di definizione anticipata ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., con la quale viene prospettata l'improcedibilità del ricorso.

Al decreto fa seguito la richiesta di decisione che il ricorrente formula nel presumibile intento di controvertere sulle criticità delle motivazioni esposte nel provvedimento interinale.

La decisione della Corte di Cassazione contiene due rilevanti principi di diritto:

  1. il ricorrente deve dare tempestivamente ed a pena di improcedibilità la dimostrazione completa dell'avvenuta notifica della sentenza d'appello. Se questa è trasmessa a mezzo PEC, questa prova deve essere accompagnata dalla produzione delle relative ricevute telematiche;
  2. se la parte, dopo la proposizione della definizione anticipata, insiste nel chiedere la decisione del procedimento che si risolve con una pronuncia che conferma il precedente e sintetico provvedimento, debbono trovare applicazione tanto la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art.96, comma 3 c.p.c., al pagamento in favore delle controparti di una somma equitativamente determinata in misura pari all'importo delle spese processuali, quanto l'ulteriore pronuncia prevista dall'art. art. 96 comma 4 c.p.c. e consistente nell'obbligo di corresponsione di una ulteriore importo in favore della Cassa delle ammende.
Il diritto

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La decisione in commento si sviluppa sui due profili processuali sopra riassunti.

Preliminare e pregiudiziale è quello afferente alla questione di improcedibilità del ricorso che la Corte sviluppa attraverso la disamina del ricorso introduttivo e del relativo fascicolo.

Il primo viene notificato alle controparti mediante procedimento con posta elettronica certificata, il secondo viene depositato con modalità analogiche (cartaceo) e comprende unilaterale dichiarazione, resa dal difensore della parte ricorrente, contenente l'indicazione della data di notifica della sentenza della corte territoriale.

Tale dichiarazione – rileva la Cassazione (richiamando l'autorevole precedente reso dalla Sezioni Unite nella sentenza 21349/2022) - costituisce l'attestazione di un fatto processuale idoneo a far decorrere il termine breve di impugnazione ex art. 325 c.p.c. e, in quanto manifestazione dell'autoresponsabilità della parte, la impegna a subire le conseguenze di quanto dichiarato, facendo sorgere in capo alla stessa, ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., l'onere di depositare, nel termine ivi previsto, non solo la copia della sentenza munita della relata di notifica (per come stabilito dalle SU sopra menzionate), ma anche la prova che la notifica sia avvenuta in una data certa

Nel caso di specie, essendo stata la procedura eseguita mediante comunicazione di posta elettronica certificata (PEC), detta dimostrazione può ritenersi realizzata solo attraverso la produzione delle copie delle due ricevute emesse dal sistema informatico di posta certificata (di accettazione e di consegna), associate – se il deposito è effettuato con documenti cartacei - all'attestazione della loro conformità agli originali informatici generati dal gestore della PEC.

Non è sufficiente, a tal fine, limitarsi alla sola annotazione della data di notificazione della sentenza pur rinvenibile nella relazione di notifica del ricorso per cassazione; e ciò perché «…la qualifica di pubblico ufficiale e i relativi poteri certificatori del difensore che attesta la conformità della copia cartacea all'originale digitale di un atto è limitata, ai sensi dell'art. 16-undecies, comma 3-bis, del dl n° 179/2012, all'attestazione di conformità, ossia alla certificazione della corrispondenza dell'atto cartaceo a quello digitale, e non si estende anche al contenuto di tale ultimo atto o ad altri fatti non risultanti dai documenti depositati».

Altro principio che la Corte elabora attiene invece alla vicenda del procedimento di legittimità in cui sia stata formulata proposta per la definizione anticipata ai sensi dell'art. 382-bis c.p.c..

Rileva il Collegio che, qualora essa venga disattesa dal ricorrente che si dichiari interessato alla decisione, e quest'ultima «…definisca il giudizio in conformità alla proposta, debbono trovare applicazione il terzo e il quarto comma dell'articolo 96 c.p.c.» entrambi produttivi di effetti sul trattamento delle spese di causa.

In applicazione del disposto di cui al comma 3 della norma sopra citata, potrà quindi essere pronunciata la condanna della parte al pagamento di una somma ulteriore in favore del controricorrente, da quantificarsi equitativamente, e suscettibile di essere ulteriormente integrata dall'ulteriore sanzione (non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 5.000,00) prevista al 4.o comma dell'art. 96 c.p.c. di cui beneficerà, in questo caso, la Cassa delle ammende.

La lente dell'autore

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A commento della decisione sopra esposta pare opportuno premettere come la sua portata possa ritenersi – sia pure in parte – gradualmente ridimensionata dalla codificazione dell'obbligo di deposito telematico degli atti processuali anche davanti alla Corte di Cassazione, introdotta dalla recente riforma Cartabia.

Discende da essa tanto l'obbligo di notificazione telematica a mezzo PEC del ricorso introduttivo diretto al difensore delle parti costituite nel giudizio di merito, quanto la successiva iscrizione a ruolo telematica del relativo procedimento, comprensiva della produzione (anch'essa telematica) della documentazione della fase di notifica degli atti, costituita dalle ricevute “di accettazione” e “di consegna” prodotte contestualmente alla richiesta di invio del messaggio di posta elettronica certificata.

Questa documentazione assume una propria autonomia nel contesto della busta telematica in cui è compresa l'intera produzione processuale e si risolve nell'allegazione dei file delle suddette ricevute nel loro formato nativo, contrassegnate – nella gran parte dei casi - dall'estensione “ *.eml” ovvero – laddove si utilizzi una specifica applicazione per la gestione della posta elettronica – “ *.msg”.

Al netto della scelta sovente adottata di procedere alla produzione congiunta tanto dei file informatici quanto della versione stampata e convertita in formato PDF, deve dirsi che solo l'allegazione dei file informatici possa ritenersi idonea a fornire prova incontrovertibile dell'intera procedura di notifica eseguita a mezzo pec e quindi anche della data e dell'orario in cui essa è stata eseguita, ed ancora dell'intera documentazione allegata, reperibile all'interno della “ricevuta di consegna”.

È a dirsi come il procedimento che qui si commenta si sviluppi a cavallo di un momento per alcuni versi storico e coinciso con l'istituzionalizzazione del deposito telematico degli atti processuali anche in Corte di Cassazione, reso facoltativo dalla data del 31 marzo 2021 in forza del provvedimento del direttore generale della DGSIA del 27 gennaio 2021, recante «Attivazione presso la Corte di cassazione, settore civile, del servizio di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte dei difensori delle parti, ai sensi dell'art. 221, comma 5, del d.l. n. 34 del 2020».

Fino a quella data (ed al netto del periodo di emergenza epidemiologica) questa possibilità era meramente eventuale e potrebbe aver determinato la scelta del difensore del ricorrente alla produzione di copia analogica (cartacea) delle ricevute di notifica a mezzo PEC, associandole all'unilaterale «asseverazione di conformità della copia cartacea dell'atto notificato in formato telematico via p.e.c.» con cui viene letteralmente attestato che «…l'antescritto atto, composto di 3 pagine e 6 facciate» – espressione che fa riferimento alla sentenza di secondo grado ed alla relata di notifica di essa – è copia conforme, in formato analogico, dell'atto che è stato notificato in formato digitale a mezzo posta elettronica certificata mediante invio in data: «03/02/2021 alle ore: 17:38:24 (+0100) di messaggio di posta elettronica certificata coi relativi allegati firmati digitalmente dalla casella p.e.c.: xxx@pec.it: alla casella di posta elettronica certificata: aaa@pec.it, ecc…»

L'attestazione sopra trascritta è però cosa diversa dalla produzione richiesta dalla consolidata giurisprudenza di legittimità e che impone l'allegazione delle copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione (in parte acquisibile anche dal controricorrente secondo Cass. n. 3466/2020 e 19695/2019); essa non è quindi satisfattiva delle prescrizioni codicistiche, ancor più ove mancanti – come rileva il Collegio – delle dichiarazioni di conformità dell'analogico “cartaceo” al digitale notificato.

La rigorosa applicazione del disposto di cui all'art. 369 comma 2 sub 2 c.p.c. secondo cui «Insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità:… 2) copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta…», conduce all'inevitabile declaratoria di rigetto che, nel caso di specie, spiega la sua rilevanza anche sul trattamento delle spese del processo.

La decisione sul punto sembrerebbe, in questo caso, compatibile con quegli intenti dissuasivi da anni introdotti nel sistema del contenzioso giudiziale, preordinati a circoscriverne il ricorso e solitamente realizzati mediante periodico aumento dei costi di giustizia; ricorso esasperato alle procedure obbligatorie di alternative justice e – spesso – attraverso l'aumento consistente di preclusioni processuali.

La decisione in esame pare sposare quest'ultimo profilo, sanzionando severamente la parte che, non appagata dalla sommaria seppur autorevole valutazione preliminare di improcedibilità del ricorso, abbia sollecitato la decisione completa di una procedura altrimenti risolvibile nelle forme della decisione “anticipata”.

Rileva in proposito il Supremo Collegio che «…se la parte ha chiesto la decisione dopo la comunicazione della proposta di definizione anticipata e la Corte definisce il giudizio in conformità alla proposta, debbono trovare applicazione il terzo e il quarto comma dell'articolo 96 cod.proc.civ.» e che in caso di conformità tra detta proposta e successiva decisione finale «…sussistono i presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma, cod.proc.civ.) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 5.000,00 (art. 96, quarto comma).»

Si tratta di una previsione idonea a codificare una fattispecie di abuso del processo che viene idealmente collocato nel generale istituto processuale del divieto di lite temeraria, non di libera applicazione ma assoggettata ad una valutazione delle caratteristiche del caso di specie (Sez. Un. n. 36069 del 27.12.2023) che ne legittimi una concreta applicazione perfettamente conforme ai princìpi Costituzionali.

Nel caso in commento questa valutazione si risolve negativamente per il ricorrente che viene quindi condannato al pagamento delle spese di giudizio, al versamento dell'importo del contributo unificato, raddoppiato a titolo di sanzione processuale, all'aggravio di spese, in favore delle controparti di una somma equitativamente determinata in misura pari all'importo delle spese processuali (rif. art. 96, comma 3, c.p.c.), nonché al pagamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma pari ad € 2.500,00.

Un totale che, in rapporto al rilevante valore della causa, assomma ad oltre 60.000 euro.

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