Sulla base del diritto europeo, infatti, non può farsi alcuna differenziazione tra cittadini non europei, soggiornanti di lungo periodo e con permesso unico di lavoro, e cittadini italiani in sede di accesso al beneficio dell'ANF.
Con la sentenza n. 67 dell'11 marzo 2022, la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dalla Corte di Cassazione sull'
Secondo la Corte, infatti, i cittadini non europei soggiornanti di lungo periodo in possesso di permesso unico di lavoro non possono essere trattati in modo diverso rispetto ai cittadini italiani in vista dell'accesso al beneficio dell'ANF, anche se alcuni componenti del nucleo familiare risiedono in via temporanea nel Paese di origine, e la parità di trattamento deve essere garantita dai giudici, i quali sono tenuti ad applicare il diritto europeo.
La CGUE aveva già ritenuto incompatibile la disciplina italiana in materia di ANF con le due direttive europee (
Del resto, come precisa la Consulta, la procedura pregiudiziale concorre a rafforzare e a garantire il primato del diritto europeo, a fronte del quale i giudici comuni sono tenuti a disapplicare all'occorrenza le disposizioni con esso contrastanti. Ciò in quanto la competenza esclusiva della CGUE in sede di interpretazione e di applicazione dei Trattati comporta che le decisioni adottate siano vincolanti, prima di tutto nei confronti del giudice che ha disposto il rinvio.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 8 febbraio 2022) 11 marzo 2022, n. 67
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza dell’8 aprile 2021, iscritta al n. 110 del registro ordinanze 2021, la Corte di cassazione, sezione lavoro ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153, per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 2, paragrafo 1, lettere a), b), e), e 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, nella parte in cui, anche «per i cittadini non appartenenti all’Unione europea titolari di permesso di lungo soggiorno», prevede che non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6, del medesimo art. 2, il coniuge, i figli ed equiparati che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale, diversamente da quanto previsto per gli altri beneficiari dell’assegno per il nucleo familiare non cittadini stranieri.
2.– Dinanzi al giudice a quo pende il procedimento introdotto dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per la cassazione della sentenza con la quale la Corte d’appello di Brescia ha confermato l’accoglimento del ricorso di R. M, cittadino pakistano titolare di permesso di lungo soggiorno, che ha domandato l’accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’assegno per nucleo familiare nel periodo compreso tra settembre 2011 ed aprile 2014, durante il quale i suoi familiari erano rientrati nel Paese d’origine, e la condanna dell’INPS e del datore di lavoro al pagamento delle relative somme, con predisposizione di un piano di rimozione degli effetti negativi della discriminazione, ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69).
2.1.– La Corte rimettente riferisce che la sentenza oggetto del ricorso per cassazione ha riconosciuto a R. M. l’assegno per il nucleo familiare anche nei periodi di assenza dei familiari dal territorio italiano, previa disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, in quanto norma contrastante con il diritto dell’Unione europea.
Il giudice di merito ha rilevato che l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri di riconoscere al soggiornante di lungo periodo il medesimo trattamento previsto dalla disciplina nazionale per i cittadini, quanto alle prestazioni sociali, all’assistenza sociale e alla protezione sociale, e che la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare applicabile al cittadino italiano, contenuta nell’art. 2, comma 2, del d.l. n. 69 del 1988, riconosce detto assegno indipendentemente dal luogo di residenza dei componenti il nucleo stesso.
Con l’art. 1 del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), il legislatore è intervenuto sull’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), prevedendo, al comma 12, che lo straniero titolare del permesso di soggiorno di lungo periodo può usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale ed altro, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale.
Infine, il giudice di merito ha escluso che l’assegno per il nucleo familiare rientri tra le misure per le quali la direttiva 2003/109/CE ha riconosciuto agli Stati membri la facoltà di limitare l’equiparazione.
2.2.– La Corte rimettente dà conto altresì del contenuto del ricorso dell’INPS.
L’Istituto ha censurato la decisione di merito per violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, anche in relazione all’art. 12 delle Preleggi. Ha anche contestato che l’assegno per il nucleo familiare abbia natura assistenziale ed essenziale, tale da impedire la derogabilità all’obbligo di parità di trattamento, evidenziando peraltro che il dubbio interpretativo riguardo alla facoltà del legislatore statale di limitare la parità di trattamento avrebbe comportato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, oppure il promovimento della questione di legittimità costituzionale.
2.3.– La Corte rimettente riferisce di avere disposto, con ordinanza n. 9021 del 2019, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, per chiarire la portata dell’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, essendo sorto il «dubbio interpretativo relativo alla eventualità che il principio di parità di trattamento ivi previsto comporti che i familiari del cittadino di Paese terzo lungo soggiornante e titolare del diritto alla erogazione dell’assegno per il nucleo familiare di cui alla legge n. 153 del 1988, art. 2, pur risiedendo di fatto fuori dal territorio dello Stato membro ove questi presta la sua attività, siano inclusi nel novero dei familiari sostanziali beneficiari del trattamento». Si deve ritenere, infatti, che il nucleo familiare individuato dall’art. 2 della legge n. 153 del 1988, non è solo preso in considerazione per la base di calcolo dell’importo relativo al trattamento familiare in oggetto, ma ne è anche il beneficiario, per il tramite del titolare della retribuzione o della pensione cui lo stesso accede (pag. 5 dell’ordinanza di rimessione).
2.3.1.– Nel rinvio pregiudiziale, prosegue la Corte rimettente, è stato precisato che l’assegno per il nucleo familiare si configura, dal punto di vista strutturale, come integrazione economica di cui beneficiano tutti i prestatori di lavoro presenti nel territorio italiano (nonché i titolari di pensioni e di prestazioni economiche previdenziali derivanti da lavoro subordinato, i lavoratori assistiti da assicurazione contro le malattie, i dipendenti e i pensionati degli enti pubblici), purché abbiano un nucleo familiare che produce redditi non superiori ad una determinata soglia; che l’importo dell’assegno viene quantificato in proporzione al numero dei componenti, al numero dei figli e al reddito familiare; che l’assegno ha natura sia previdenziale, per il meccanismo finanziario che ne è alla base (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 7 marzo 2008, n. 6179), sia assistenziale, tenuto conto dell’incidenza del numero e delle condizioni psico-fisiche dei componenti del nucleo familiare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 30 marzo 2015, n. 6351 e 9 febbraio 2018, n. 3214).
In conclusione, si tratterebbe di prestazione che rientra nell’ambito della previsione di cui all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE.
2.4.– Il giudice rimettente riferisce, quindi, che la Corte di giustizia, con la sentenza 25 novembre 2020, in causa C-303/109, INPS, ha dichiarato che l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione come l’art. 2, comma 6-bis, della legge n. 153 del 1988, secondo il quale non fanno parte del nucleo familiare di cui a tale legge il coniuge nonché i figli ed equiparati di cittadino di paese terzo che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica italiana, salvo reciprocità o convenzione internazionale, posto che la Repubblica italiana non si è avvalsa della deroga consentita dall’art. 11, paragrafo 2, della medesima direttiva, non essendo stata espressa una tale intenzione in sede di recepimento della direttiva 2003/109/CE nel diritto nazionale.
2.5.– Conclusa la descrizione della fattispecie sottoposta al suo giudizio, la Corte di cassazione argomenta sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, osservando in primo luogo che «occorre dare esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia», stante il vincolo da essa derivante per la definizione della controversia principale (sono richiamate le sentenze 3 febbraio 1977, in causa C-52/76, Benedetti, e 5 marzo 1986, in causa C-69/85, Wünsche Handelsgesellschaft).
Sul tema specifico della rimozione degli effetti discriminatori derivanti da atti normativi, la rimettente richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 14 marzo 2018, in causa C-482/2016, Stollwitzer), che ha riconosciuto la discrezionalità del legislatore nella scelta dei rimedi, e quindi osserva che nella fattispecie in esame, «ai fini dell’eliminazione dell’effetto discriminatorio, non è tanto significativa la condotta osservata dall’INPS nel negare la prestazione economica dell’assegno per il nucleo familiare oggetto di ricorso, quanto la formulazione della disposizione italiana che disciplina la fattispecie concreta».
Secondo il giudice a quo, il rilevato contrasto tra l’art. 2, comma 6-bis e il diritto dell’Unione non potrebbe essere risolto facendo ricorso all’interpretazione conforme, poiché non esiste margine di scelta tra due interpretazioni possibili della norma interna, che presenta significato chiaro ed univoco, e sarebbe impraticabile anche la tecnica della disapplicazione della norma interna, in assenza di una disciplina self executing direttamente applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio principale. Il diritto dell’Unione, infatti, non disciplina direttamente la materia dei trattamenti di famiglia.
La direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri di non differenziare il trattamento degli stranieri con permesso di lungo soggiorno da quello riservato ai propri cittadini, ma «non contiene una disciplina completa che consenta di affermare in via diretta il primato della (inesistente) disciplina euro unitaria sulla disciplina nazionale».
In conclusione, in assenza dei presupposti per realizzare la sostituzione della norma interna con la disciplina dettata dall’Unione, la disapplicazione della norma interna si risolverebbe in una «modifica della norma nazionale mediante sostituzione del criterio della reciprocità ovvero della specifica convenzione internazionale con quello della parità di trattamento, ove i destinatari diretti della prestazione siano cittadini di paesi non europei titolari di un permesso di lungo soggiorno ai sensi della citata direttiva». Si tratterebbe di un intervento manipolativo non consentito al giudice di legittimità, con la conseguente necessità di promuovere l’incidente di costituzionalità.
2.6.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, la rimettente osserva che l’incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988 con il diritto dell’Unione, come accertata dalla Corte di giustizia, renderebbe evidente il contrasto della norma interna con i parametri evocati.
È richiamata la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 227 del 2010, n. 232 del 1975, n. 183 del 1973, n. 98 del 1965 e n. 14 del 1964) che ha individuato nell’art. 11 Cost. il parametro di riferimento nel rapporto tra ordinamento nazionale e diritto europeo, riconoscendo il principio di prevalenza di quest’ultimo, ed il conseguente potere-dovere in capo al giudice di dare immediata applicazione alla norma provvista di effetto diretto, ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione del predetto parametro quando la norma interna contrasti con la norma comunitaria sprovvista di effetto diretto. L’obbligo del rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo è stato poi ribadito dal novellato art. 117, primo comma, Cost., confermando espressamente quanto già ricollegato in via interpretativa all’art. 11 Cost.
La Corte rimettente segnala poi che la stessa giurisprudenza costituzionale ha negato efficacia diretta all’art. 12 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea (CEE), firmato a Roma il 25 marzo 1957, entrato in vigore il 1° gennaio 1958, oggi art. 18 TFUE, che vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità nel campo di applicazione del Trattato, ritenendo necessario il promovimento della questione di legittimità costituzionale per rimuovere la discriminazione. In particolare, si è affermato (sentenza n. 227 del 2010) che il contrasto con il principio di non discriminazione non sarebbe «sempre di per sé sufficiente» a consentire la disapplicazione della norma interna confliggente, dal momento che il legislatore nazionale può prevedere limitazioni alla parità di trattamento tra il proprio cittadino ed il cittadino di altro Stato membro, a condizione che la limitazione sia proporzionata e adeguata.
2.7.– Alla luce degli argomenti svolti, la Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis citato, che assoggetta ad un regime peculiare, regolato dal principio della reciprocità o della apposita convenzione, i beneficiari dell’assegno per il nucleo familiare non cittadini italiani (o europei) che non risiedono nel territorio nazionale, per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione alla direttiva 2003/109/CE, che all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), prevede il diritto dei cittadini di paesi terzi titolari del permesso di lungo soggiorno e dei loro familiari di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettere a), b) ed e), di beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
3.– Con atto depositato il 6 settembre 2021, si è costituito nel giudizio incidentale l’INPS, parte ricorrente nel giudizio principale, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.
3.1.– L’Istituto ricostruisce la normativa nazionale e quella dell’Unione per evidenziare, a sostegno dell’inammissibilità, che il giudizio di cassazione avrebbe potuto essere definito senza sollevare la questione di costituzionalità.
La norma censurata, comunque, si sottrarrebbe ai prospettati dubbi di legittimità costituzionale, in quanto rispettosa dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, oltre che giustificata nelle finalità.
3.2.– Muovendo dal presupposto che beneficiari sostanziali dell’assegno per il nucleo familiare siano i componenti del nucleo stesso che fanno riferimento al lavoratore, l’INPS ritiene che la norma censurata legittimamente esiga la loro presenza effettiva nel territorio nazionale, ai fini del riconoscimento della prestazione.
In ogni caso, fuori dell’ambito dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, il principio di eguaglianza può avere «un’operatività più sfumata», in ragione della diversità del rapporto che il cittadino e lo straniero instaurano con lo Stato.
L’Istituto rileva quindi che in sede di attuazione della direttiva 2003/109/CE, avvenuta con il d.lgs. n. 3 del 2007, che ha riformulato l’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, il legislatore nazionale ha espressamente previsto, al comma 12, lettera c), del citato art. 9, che il titolare di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo può «usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale […] salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale».
L’Istituto sottolinea che l’integrazione dei cittadini dei Paesi terzi, che costituisce la finalità della direttiva citata, si può realizzare soltanto se i familiari soggiornano anch’essi regolarmente nel territorio nazionale.
3.3.– Sotto diverso profilo, l’INPS richiama il principio dell’equilibrio di bilancio previsto dall’art. 81 Cost., nel quadro dei valori di rilievo costituzionale, in funzione del quale il legislatore nazionale può prevedere la graduazione degli interventi assistenziali sulla base del maggiore radicamento territoriale del nucleo familiare.
In tale contesto, e con riferimento alle limitazioni alla parità di trattamento consentite dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE, si sarebbe già espressa questa Corte nella sentenza n. 222 del 2013, in cui si è affermato l’obbligo di rispettare la parità di trattamento tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extracomunitari dall’altro, riguardo a servizi e prestazioni che soddisfano un bisogno primario dell’individuo, ovvero, secondo quanto precisato dalla successiva sentenza n. 50 del 2019, «riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona».
Nella prospettiva indicata, sarebbe esclusa la violazione dell’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, essendo consentito al legislatore nazionale di riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti nel territorio nazionale, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione delle provvidenze (sono citate le sentenze n. 222 del 2013, n. 308 e n. 148 del 2008).
4.– R. M., parte resistente nel giudizio di cassazione, si è costituita nel giudizio incidentale, con atto depositato il 7 settembre 2021, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, o, in subordine, fondata.
4.1.– La difesa della parte privata osserva che la definizione generale di nucleo familiare contenuta nell’art. 2, comma 6, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, è priva di riferimenti, sia alla nazionalità dei componenti, sia al luogo di residenza degli stessi. L’art. 2, al comma 6-bis oggetto di censura, individua invece un “sottogruppo”, costituito dai nuclei familiari per i quali il richiedente l’assegno sia cittadino straniero (compresi i cittadini UE), e ad esso riserva un regime diverso.
La questione sollevata dalla Corte rimettente avrebbe dunque a oggetto una norma che definisce diversamente, e con conseguenze meno vantaggiose, la nozione di nucleo familiare a seconda della nazionalità del componente-richiedente.
Si tratta di questione che non è mai stata esaminata dai giudici comuni con riferimento all’eventuale contrasto con gli artt. 3 e 31 Cost., ma soltanto sotto il profilo della conformità con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE. Tale profilo, risolto dai giudici di merito prevalentemente nel senso della non conformità, ha costituito l’oggetto del rinvio pregiudiziale disposto nel giudizio principale, definito dalla Corte di giustizia nel senso della incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis citato con il diritto dell’Unione.
Il giudizio incidentale promosso dalla stessa Corte di cassazione si caratterizzerebbe, quindi, per il fatto che la non conformità della norma interna con quella dell’Unione è stata già accertata in maniera incontrovertibile e vincolante e pertanto, come chiarito dalla stessa rimettente, occorre “soltanto” dare esecuzione alla sentenza della CGUE.
4.2.– La difesa della parte privata reputa la questione di legittimità costituzionale inammissibile in quanto, dopo la sentenza nella causa 303/19 della Corte di giustizia, l’art. 2, comma 6-bis non potrebbe trovare applicazione nel giudizio principale, in ragione del vincolo sorto dalla richiamata sentenza.
Nella fattispecie in esame, del resto, non verrebbe in evidenza una ipotesi di “doppia tutela”, in cui «la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione» (sono citate l’ordinanza n. 117 del 2019 e la sentenza n. 20 del 2019 di questa Corte).
La violazione e la tutela invocate nel giudizio principale atterrebbero unicamente al diritto derivato dell’Unione, in particolare al rispetto dell’obbligo di parità di trattamento, che costituisce uno dei capisaldi del diritto europeo, anche in materia di immigrazione.
Con l’attribuzione ai soggiornanti di lungo periodo del diritto ad un trattamento eguale ai cittadini dello Stato membro, l’Unione disciplina i diritti di costoro, esercitando le competenze ad essa attribuite dall’art. 79, comma 2, lettera b), TFUE.
4.3.– Nel contesto normativo così delineato, secondo la parte privata, la Corte di cassazione avrebbe erroneamente ricercato una disciplina compiuta dell’Unione in grado di sostituirsi a quella nazionale dei trattamenti di famiglia, anziché valorizzare il diritto alla parità di trattamento previsto dalla direttiva, e disapplicare la disciplina nazionale là dove questa prevede un trattamento “diseguale” per i cittadini stranieri.
In questa prospettiva, la verifica dei requisiti richiesti ai fini della diretta applicazione delle norme dell’Unione – precetto chiaro, preciso e incondizionato – avrebbe dovuto essere condotta con riferimento all’obbligo della parità di trattamento, che sicuramente tali caratteri possiede.
La diversa ricostruzione fatta propria dalla Corte rimettente condurrebbe al risultato inaccettabile e comunque contrario ai dicta della Corte di giustizia, che il diritto dell’Unione non possa mai autonomamente garantire un trattamento uguale a due gruppi sociali, se non nelle materie oggetto di specifica disciplina da parte del diritto derivato.
4.4.– La difesa della parte privata esamina poi la citata sentenza della Corte di giustizia Stollwitzer, richiamata dalla Corte rimettente a sostegno della discrezionalità del legislatore nazionale nella individuazione delle modalità di rimozione delle discriminazioni, ed osserva che il tema della discrezionalità non è pertinente. Nella fattispecie oggi in discussione il legislatore non ha ancora adottato misure che ristabiliscano la parità di trattamento, pertanto il senso e l’efficacia dell’obbligo di parità di trattamento può essere garantito solo attraverso l’estensione ai soggetti svantaggiati del trattamento riservato ai soggetti privilegiati.
4.5.– Ulteriormente la difesa della parte privata contesta l’affermazione del giudice rimettente, secondo cui sarebbe consentito al legislatore di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino straniero, purché adeguata e proporzionata.
Nella fattispecie oggi in esame non verrebbe in rilievo il divieto di discriminazione di cui all’art. 18 TFUE, richiamato dalla Corte rimettente, ma l’obbligo di parità di trattamento previsto dall’art. 11, paragrafo 1, lettera d) della direttiva 2003/109/CE, che non consente deroghe “purché proporzionate”, ma esclusivamente deroghe a condizione che la relativa facoltà sia stata espressamente esercitata. La sentenza della Corte di giustizia nella causa C-303/19 ha accertato che l’Italia non ha esercitato la facoltà di deroga.
5.– Con atto depositato il 7 settembre 2021, è intervenuto nel giudizio incidentale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere il rigetto della questione.
5.1.– Dopo avere proceduto alla ricostruzione del contesto normativo interno e dell’Unione, richiamando in particolare l’art. 9, commi 1 e 12, del d.lgs. n. 286 del 1998, la disciplina dell’assegno familiare contenuta nell’art. 2 del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, e la direttiva 2003/86/CE del 22 settembre 2003 del Consiglio, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, la difesa statale concentra l’attenzione sul tema della adeguatezza e proporzionalità della norma censurata, e della possibile limitazione alla parità di trattamento, secondo quanto previsto dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE, come riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza resa in causa C-303/19, che ha definito il rinvio pregiudiziale.
La difesa dello Stato richiama quindi l’ordinanza di rimessione (in particolare, il paragrafo 27) e con essa la giurisprudenza costituzionale ivi citata, per sottolineare che l’incompatibilità della norma interna con il principio di non discriminazione potrebbe derivare solo da un difetto di proporzionalità e di adeguatezza del trattamento differenziato rispetto alle finalità della direttiva e degli altri valori costituzionali e del diritto dell’Unione. Nella specie, non vi sarebbero i presupposti per ritenere manifestamente irragionevole il trattamento differenziato riguardo al riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare.
5.2.– In particolare, la difesa statale osserva che all’assegno in oggetto, in quanto misura rientrante nel novero delle prestazioni sociali, si applica l’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE, che consente agli Stati membri di limitare la parità di trattamento garantita ai soggiornanti di lungo periodo «ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui questi chiede la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio».
Tale previsione sarebbe connessa al considerando n. 2 della direttiva 2003/109/CE, che configura la parità di trattamento in termini non assoluti ma tendenziali e, soprattutto, in stretto collegamento con il requisito della residenza effettiva del cittadino straniero nello Stato membro, presupposto quest’ultimo necessario per ottenere lo status di lungo soggiornante e per conservarlo.
Quanto ai familiari dello straniero, la medesima direttiva, all’art. 2, lettera e), li definisce attraverso il rinvio alla direttiva 2003/86/CE, relativa al ricongiungimento familiare. Ciò comporta che costoro possono essere presi in considerazione al fine del diritto alle prestazioni in materia familiare soltanto se «ricongiunti», vale a dire se stabilmente conviventi con il soggiornante nel territorio dello Stato membro (direttiva 2003/86/CE, considerando n. 4 e art. 2).
Del resto, prosegue la difesa statale, la Corte di giustizia, nella sentenza nella causa 303/19 (punto 29), ha chiarito che l’assenza del familiare dal territorio nazionale non può precludere il diritto all’assegno per il nucleo familiare se è riferibile ad un periodo «che può essere temporaneo», laddove l’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, esclude il diritto all’assegno familiare nei soli casi in cui l’assenza da temporanea sia diventata definitiva.
Sotto tale profilo, la norma interna non contrasterebbe con il sistema e con la finalità della direttiva 2003/109/CE, in quanto proporzionata e adeguata, mentre sarebbe apodittica l’affermazione contenuta al punto 35 della sentenza 303/19, secondo cui sarebbero irrilevanti le difficoltà di controllo della condizione reddituale dei soggetti rientrati nei paesi d’origine, e non pertinente il richiamo alla sentenza della Corte GCE 26 maggio 2016, in causa C-300/15, Kholl e Kholl-Schlesser, in materia di discriminazioni fiscali al diritto fondamentale alla libera circolazione tra gli Stati membri. Nella fattispecie in esame, infatti, non si discute di libertà fondamentali garantite dal Trattato, come nel precedente richiamato, ma di diritti particolari riconosciuti dal diritto derivato, e di movimenti tra Unione e Paesi terzi.
5.3.– La proporzionalità della disciplina nazionale sarebbe confermata, secondo la difesa statale, anche dal fatto che essa non nega in toto il trattamento – come nel caso deciso dalla sentenza della CGUE 21 giugno 2017, in causa C-449/16, Martinez Silva, – ma si limita a ridurre nel quantum la prestazione previdenziale.
La norma censurata sarebbe proporzionata e adeguata al diritto dell’Unione, e rispettosa di altri valori costituzionali e del diritto dell’Unione, primo tra tutti l’equilibrio di bilancio di cui all’art. 81 Cost., attuativo a sua volta di precisi vincoli europei. L’art. 153, paragrafo 4, TFUE stabilisce, infatti, che le disposizioni del diritto dell’Unione in materia di politica sociale non compromettono la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale, e non devono incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso.
5.4.– La difesa statale contesta poi che la deroga al principio della parità di trattamento, prevista dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE non sarebbe applicabile, in quanto non vi è stata espressa dichiarazione dello Stato di volersene avvalere in sede di recepimento della direttiva, operato con il d.lgs. n. 3 del 2007.
In realtà, al momento del recepimento della direttiva 2003/109/CE, la condizione procedurale consistente nella dichiarazione espressa di volersi avvalere della deroga non esisteva, essendo stata introdotta solo in via giurisprudenziale con la sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj, (punto 87), e comunque, stante l’assenza di termini, la deroga sarebbe ancora esercitabile, sicché, come ritenuto nell’ordinanza di rimessione, qualsiasi intervento sulla norma interna avrebbe contenuto manipolativo.
5.5.– Con riferimento ai parametri evocati, la difesa dello Stato reputa erroneo il richiamo all’art. 11 Cost., poiché si discuterebbe di una competenza ripartita, quella inerente alla disciplina dell’immigrazione, ai sensi dell’art. 79, paragrafo 2, lettera b), TFUE, che non comprenderebbe, come rilevato anche dalla Corte rimettente, la disciplina della prestazione sociale dell’assegno per il nucleo familiare.
6.– In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria per illustrare gli argomenti già svolti nell’atto di intervento a sostegno della non fondatezza della questione.
7.– Ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, l’ASGI – Associazione studi giuridici sull’immigrazione ha depositato opinione scritta a titolo di amicus curiae.
L’opinione, ammessa con decreto presidenziale del 4 gennaio 2022, richiama il quadro normativo e giurisprudenziale anche con riferimento al più ampio contenzioso riguardante il diritto dei cittadini di Paesi terzi alle prestazioni di assistenza e sicurezza sociale, e quindi si associa alle argomentazioni svolte dalla difesa della parte privata in punto di inammissibilità della questione, per difetto di rilevanza.
8.– Con ordinanza in data 8 aprile 2021, iscritta al n. 111 del registro ordinanze 2021, la Corte di cassazione, sezione lavoro ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento e del Consiglio del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro.
L’art. 2, comma 6-bis citato è oggetto di censura nella parte in cui, «anche per i cittadini non appartenenti all’Unione europea titolari di permesso unico di soggiorno e di lavoro, prevede che non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6, il coniuge ed i figli ed equiparati […] che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia, diversamente dagli altri beneficiari non cittadini stranieri».
8.1.– Dinanzi alla rimettente pende il procedimento introdotto dall’INPS per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Torino che ha accolto il ricorso con il quale S. B.G., cittadino srilankese titolare di permesso unico di soggiorno e di lavoro, ha chiesto l’accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’assegno del nucleo familiare per il periodo gennaio-giugno 2014 e giugno-luglio 2016, durante il quale i suoi familiari erano rientrati nel Paese d’origine, e la conseguente condanna dell’INPS e del datore di lavoro al pagamento delle relative somme. Ha chiesto anche che siano rimossi gli effetti negativi della discriminazione, ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011.
8.2.– La Corte rimettente riferisce che la sentenza oggetto di ricorso per cassazione ha riconosciuto l’assegno per il nucleo familiare previa disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, sul rilievo che la norma indicata sarebbe discriminatoria.
Il giudice di merito ha rilevato che l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, prevede che i lavoratori di paesi terzi di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, quanto ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004. L’assegno per il nucleo familiare rientrerebbe nei settori della sicurezza sociale, come confermato dalla Corte di giustizia nella sentenza Martinez Silva, riguardante l’analoga misura di cui all’art. 65 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo).
Il giudice di merito ha rilevato, inoltre, che il legislatore nazionale non aveva esercitato la facoltà di deroga prevista dall’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98/UE, e che la disposizione contenuta nell’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva sarebbe sufficientemente precisa e priva di condizioni, tale da imporre la disapplicazione della norma interna contrastante.
8.3.– La Corte rimettente richiama in sintesi il contenuto del ricorso per cassazione dell’INPS, che ha censurato la sentenza di merito per violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, 12 della direttiva 2011/98/UE e del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 40 (Attuazione della direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro), anche in relazione all’art. 12 delle Preleggi.
In particolare, l’Istituto ha contestato l’interpretazione della direttiva 2011/98/UE alla base della sentenza di merito, avuto riguardo alla diversa posizione dei titolari di permesso unico di soggiorno e di lavoro rispetto ai titolari di permesso di lungo soggiorno di cui alla direttiva 2003/109/CE, e ha osservato che l’assegno per il nucleo familiare ha natura previdenziale, non assistenziale.
8.4.– La Corte rimettente riferisce di avere disposto, con ordinanza n. 9022 del 2019, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, per chiarire la portata del principio fissato dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, che prevede che i lavoratori di Paesi terzi beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, avuto riguardo ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento n. 883 del 2004.
Il «dubbio interpretativo» riguardava l’eventualità che il principio di parità di trattamento previsto dall’art. 11, paragrafo 1, lettera d), comportasse che i familiari del cittadino di Paese terzo lungo soggiornante e titolare del diritto alla erogazione dell’assegno per il nucleo familiare, pur risiedendo di fatto fuori dal territorio dello Stato membro ove questi presta la sua attività, fossero inclusi nel novero dei familiari sostanziali beneficiari del trattamento, e ciò sul presupposto che il nucleo familiare individuato dall’art. 2, del d.l. n. 69 del 1988, non rileva soltanto quale base di calcolo dell’importo relativo al trattamento familiare, ma ne è anche il beneficiario, per il tramite del titolare della retribuzione o della pensione cui lo stesso accede.
8.5.– Lo schema argomentativo del rinvio pregiudiziale risulta in larga parte coincidente con quello adottato nel rinvio avente ad oggetto la direttiva 2003/109/CE, richiamato nell’ordinanza di rimessione n. 110 del 2021.
8.6.– Il giudice a quo riferisce che la Corte di giustizia, con la sentenza 25 novembre 2020 in causa C-302/109, INPS, ha dichiarato che l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i familiari del titolare di permesso unico di soggiorno e di lavoro, ai sensi dell’art. 2, lettera c), della stessa direttiva, che risiedano non già nel territorio di tale Stato membro, bensì in un Paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino di detto Stato membro residenti in un Paese terzo.
8.7.– All’esito del rinvio pregiudiziale, e sulla base di argomentazioni coincidenti con quelle esposte nell’ordinanza n. 110 del 2021, in precedenza sintetizzate, la Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, d.l. n. 69 del 1988, come convertito, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.
9.– Con atto depositato il 6 settembre 2021 si è costituito nel giudizio incidentale l’INPS, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.
9.1.– Come già dedotto nell’atto di costituzione depositato nel giudizio incidentale promosso con l’ordinanza n. 110 del 2021 (sintetizzato al punto 3), l’Istituto ritiene che la Corte rimettente avrebbe dovuto senz’altro accogliere il ricorso per cassazione, dal momento che il giudice di merito aveva fatto ricorso alla tecnica della disapplicazione in assenza di una disciplina eurounitaria direttamente applicabile.
L’INPS svolge rilievi critici alla sentenza C-302/19 della CGUE, e conclusivamente evidenzia che la natura previdenziale della prestazione in oggetto, al di fuori del novero delle prestazioni essenziali a tutela dei diritti fondamentali della persona, imporrebbe di ritenere che il legislatore nazionale possa graduare il riconoscimento di tale prestazione in funzione del radicamento territoriale del nucleo familiare, anche alla luce del criterio dell’equilibrio di bilancio previsto dall’art. 81 Cost.
10.– Con atto depositato il 7 settembre 2021, si è costituita nel giudizio incidentale la parte privata S. B.G., resistente nel giudizio principale, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per carenza di rilevanza o, in subordine, fondata.
10.1.– L’atto di costituzione si presenta coincidente con quello depositato nel giudizio incidentale promosso con l’ordinanza n. 110 del 2021, alla cui sintesi si può rinviare (punto 4).
11.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio incidentale con atto depositato il 7 settembre 2021, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata sulla base delle medesime argomentazioni esposte a sostegno della non fondatezza della questione sollevata con l’ordinanza n. 110 del 2021, già sintetizzate (punto 5).
12.– In prossimità della decisione, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria illustrativa di contenuto coincidente con quello della memoria depositata nel giudizio incidentale promosso con l’ordinanza n. 110 del 2021.
Motivi della decisione
1.– Con le ordinanze indicate in epigrafe (r.o. n. 110 e n. 111 del 2021), la Corte di cassazione, sezione lavoro, solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153.
La disposizione censurata, collocata all’interno della disciplina dell’assegno per il nucleo familiare, prevede che «non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge, i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che lo Stato di cui lo straniero è cittadino riservi un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia».
1.1.– L’ordinanza n. 110 del 2021 prospetta la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 2, paragrafo 1, lettere a), b), c), e 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva n. 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.
1.2.– Anche l’ordinanza n. 111 del 2021 prospetta la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b), e c), e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa ad una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro.
1.2.1. Né l’una né l’altra ordinanza evocano la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in particolare l’art. 34.
1.3.– Come riferito dalla Corte rimettente, il contrasto della norma censurata con il diritto dell’Unione è stato accertato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, adita con rinvio pregiudiziale nel corso di entrambi i giudizi a quibus.
1.3.1. – Con la sentenza 25 novembre 2020, nella causa C-303/19, INPS, la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo le prestazioni di sicurezza sociale alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro, qualora lo Stato – come accaduto per la Repubblica italiana – non abbia espresso, in sede di recepimento della direttiva, l’intenzione di avvalersi della deroga alla parità di trattamento consentita dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva stessa.
1.3.2.– Con la sentenza 25 novembre 2020, in causa C-302/19, INPS, la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, del 13 dicembre 2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, deve essere interpretato nel senso che esso impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi titolari di permesso unico le prestazioni di sicurezza sociale, tra cui rientra l’assegno per il nucleo familiare, alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro.
2.– Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di cassazione con le due ordinanze, sostanzialmente analoghe, si prestano a una trattazione congiunta mediante la riunione dei giudizi.
3.– Preliminarmente si dà atto che, con decreto del Presidente della Corte costituzionale del 4 gennaio 2022, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, sono state ammesse le opinioni scritte presentate dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), in qualità di amici curiae, opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto a questa Corte.
4.– Le ordinanze di rimessione sono state pronunciate nell’ambito di due giudizi introdotti dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per la cassazione delle relative sentenze di merito, che hanno riconosciuto il diritto all’assegno per il nucleo familiare a due cittadini di paesi terzi, l’uno proveniente dal Pakistan e l’altro dallo Sri Lanka, titolari rispettivamente di permesso di lungo soggiorno e di permesso unico di soggiorno e di lavoro, anche per il periodo in cui i loro familiari avevano fatto rientro nei paesi d’origine.
I giudici di merito avevano proceduto alla disapplicazione della disposizione contenuta nell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, ostativa al riconoscimento del diritto all’assegno per il nucleo familiare per i periodi di assenza dei familiari dal territorio italiano, in quanto contrastante con il diritto derivato dell’Unione, che, all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e all’art. 12, paragrafo 1, lettera e) della direttiva 2011/98/UE, impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi il medesimo trattamento previsto per i propri cittadini in materia di prestazioni sociali.
4.1.– Nei giudizi dinanzi a questa Corte si sono costituiti l’INPS e le parti private.
4.2.– L’Istituto ha chiesto che le prospettate questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate, assumendo l’erroneità delle decisioni di merito che hanno proceduto a disapplicare la norma interna e la legittimità del trattamento differenziato, una volta che i familiari del richiedente l’assegno si siano allontanati dal territorio nazionale.
4.3.– Le parti private hanno chiesto la declaratoria di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza o, in subordine, l’accoglimento delle stesse.
Esse assumono che l’antinomia tra la norma interna e il diritto derivato dell’Unione, già accertata dalla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale, debba essere risolta con la disapplicazione della norma interna. Per un verso, l’obbligo di parità di trattamento, previsto dalle direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE sarebbe dotato di effetto diretto, per altro verso, non residuerebbe alcuna discrezionalità del legislatore con riferimento alla rimozione della discriminazione già realizzata. Quanto poi alla possibilità per il legislatore di prevedere limitazioni all’obbligo di parità di trattamento purché adeguate e proporzionali – prospettata dal giudice rimettente – la difesa delle parti private evidenzia che la Corte di giustizia ha chiarito che la facoltà di deroga prevista dalle citate direttive non risulta essere stata esercitata in sede di recepimento.
In subordine, la stessa difesa insiste per l’accoglimento delle questioni sulla base dell’accertamento dell’incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988 con il diritto dell’Unione, effettuato in sede di rinvio pregiudiziale.
5.– Prima di procedere all’esame delle questioni, è opportuno richiamare brevemente la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare.
5.1.– Istituito dalla legge n. 153 del 1988, di conversione e parzialmente modificativa del d.l. n. 69 del 1988, l’assegno per il nucleo familiare (da ora: ANF) è una prestazione economica a sostegno del reddito delle famiglie dei lavoratori dipendenti o dei pensionati da lavoro dipendente, calcolata in relazione alla dimensione del nucleo familiare e alla sua tipologia, nonché in considerazione del reddito complessivo prodotto al suo interno.
La legge n. 153 del 1988, nel segnare un passaggio terminologico da «assegni familiari» (d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, recante «Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari») ad «assegni per il nucleo familiare», ne accentua la duplice natura previdenziale e di sostegno a situazioni di bisogno (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 7 marzo 2008, n. 6179; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 30 marzo 2015, n. 6351).
In luogo del requisito della «vivenza a carico», condizione per la concessione della provvidenza, è lo stato di bisogno del nucleo nel suo complesso, che qualifica il nucleo stesso quale destinatario della tutela.
L’assegno in oggetto, funzionale all’integrazione del reddito del nucleo familiare, e quindi corrisposto non in favore dei familiari singolarmente considerati come beneficiari, ma in favore del nucleo complessivamente considerato, si calcola in relazione a un accertamento in concreto del reale bisogno economico della famiglia, riferito al rapporto tra il numero dei suoi componenti e l’ammontare del reddito complessivo.
I soggetti, in relazione ai quali il nuovo trattamento è stato riconosciuto, sono qualificati dall’appartenenza al nucleo familiare, anche se non conviventi e non a carico del richiedente, poiché fruitori di redditi propri. Ciò che rileva, ai fini della percezione della prestazione in capo al richiedente, è il reddito familiare complessivamente considerato.
5.2.– La normativa in esame individua la nozione di nucleo familiare, con valenza generale, all’art. 2, comma 6, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, che prevede: «[i]l nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati, ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. 26 aprile 1957, n. 818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro. Del nucleo familiare possono far parte, alle stesse condizioni previste per i figli ed equiparati, anche i fratelli, le sorelle ed i nipoti di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti».
Lo stesso art. 2, al comma 6-bis, introduce una diversa nozione di nucleo familiare riferita ai cittadini stranieri, prevedendo che «[n]on fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia. L’accertamento degli Stati nei quali vige il principio di reciprocità è effettuato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentito il Ministro degli affari esteri».
Pertanto, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno familiare, il requisito della residenza nel territorio italiano non è richiesto per i familiari del cittadino italiano, mentre lo è per i familiari del cittadino straniero, salvo che sussista un regime di reciprocità o sia in vigore una convenzione internazionale con il paese d’origine di quest’ultimo.
5.3.– Il legislatore è recentemente intervenuto a disciplinare nuovamente la materia. La legge 1° aprile 2021, n. 46 (Delega al Governo per riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale), «[a]l fine di favorire la natalità», ha delegato il Governo all’adozione di «uno o più decreti legislativi volti a riordinare, semplificare e potenziare, anche in via progressiva, le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale», improntato a un «principio universalistico» e modulato – secondo un criterio di progressività – in rapporto alle condizioni economiche del nucleo familiare (art. 1).
La delega è stata attuata con il decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230 (Istituzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1° aprile 2021, n. 46), che, a decorrere dal 1° marzo 2022, ha istituito «l’assegno unico e universale per i figli a carico, che costituisce un beneficio economico attribuito, su base mensile, per il periodo compreso tra marzo di ciascun anno e febbraio dell’anno successivo, ai nuclei familiari sulla base della condizione economica del nucleo» (art. 1).
5.3.1.– Le nuove norme in tema di assegno unico universale – prestazione, come si è detto, erogata a decorrere dal 1° marzo 2022 – non incidono sui giudizi a quibus, concernenti fattispecie che si sono perfezionate nel vigore della disciplina anteriore.
6.– La Corte di cassazione ha chiarito, sia in sede di rinvio pregiudiziale, sia nelle ordinanze che sollevano le questioni di legittimità costituzionale, che l’ANF presenta caratteristiche tali da essere ricompreso nell’ambito delle previsioni di cui agli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.
Entrambe le disposizioni citate impongono la parità di trattamento tra le categorie in esse indicate e i cittadini italiani, avuto riguardo alle prestazioni sociali.
L’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE prevede che «il soggiornante di lungo periodo» gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale.
L’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE prevede che «i lavoratori dei paesi terzi di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c)» beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883 del 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
7.– Nel contesto normativo delineato, connotato dalla perdurante vigenza dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, anche dopo il recepimento delle direttive richiamate, avvenuto rispettivamente con il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo) e con il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 40 (Attuazione della direttiva 2011/98/UE, relativa ad una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro), la Corte di cassazione si è rivolta alla Corte di giustizia, con lo strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, e ha posto un quesito riguardo alla compatibilità del citato art. 2, comma 6-bis, con le direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE.
8.– In entrambe le sentenze rese a seguito del duplice rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia ha concluso nel senso della incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, con le disposizioni contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, e con l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.
8.1– Nella sentenza nella causa C-303/19, riferita alla direttiva 2003/109/CE, si afferma che il diritto dell’Unione non limita la facoltà degli Stati membri di organizzare i loro sistemi di sicurezza sociale. Tuttavia, nell’esercitare tale facoltà, essi sono tenuti a conformarsi al diritto dell’Unione (punto 20).
La Corte di giustizia ha chiarito che, in favore dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, l’art. 11 della direttiva prevede, come regola generale, il diritto alla parità di trattamento nei settori individuati e alle condizioni ivi previste, ed elenca poi le deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno facoltà di stabilire. Tali deroghe devono essere interpretate restrittivamente e possono essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione della direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse (punto 23, con richiamo alla sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj).
La Corte ha quindi accertato che non è stata espressa l’intenzione di avvalersi della deroga in sede di recepimento della direttiva nel diritto italiano (punti 37 e 38).
Quanto al dubbio prospettato dal giudice del rinvio, la Corte di giustizia ha precisato che, «se è vero che sono i familiari che beneficiano di detto assegno, ciò che costituisce l’oggetto stesso di una prestazione familiare […], risulta che l’assegno è versato al lavoratore o pensionato, componente a propria volta del nucleo familiare» (punto 36).
Pertanto, in assenza di esercizio della facoltà di deroga consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, il beneficio di una prestazione di sicurezza sociale al soggiornante di lungo periodo non può essere rifiutato o ridotto per il motivo che i suoi familiari o taluni di essi risiedano in un paese terzo, quando invece tale beneficio è riconosciuto ai cittadini italiani indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari risiedono.
8.2.– Nella sentenza nella causa C-302/19, avente ad oggetto la direttiva 2011/98/UE, dopo avere svolto argomentazioni analoghe quanto alla facoltà degli Stati membri di organizzare i propri regimi di sicurezza sociale, la Corte di giustizia ha richiamato l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), che impone agli Stati membri di far beneficiare della parità di trattamento, nei settori della sicurezza sociale di cui al regolamento n. 883/2004, i cittadini di paesi terzi ammessi a fini lavorativi, quali sono i titolari di un permesso unico, ai sensi dell’art. 2, lettera c), della direttiva medesima.
L’assegno per il nucleo familiare costituisce, infatti, una prestazione di sicurezza sociale, che rientra nel novero delle prestazioni familiari di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004 (punto 40, con richiamo alla sentenza 21 giugno 2017, in causa C-449/16 Martinez Silva).
Analogamente a quanto riferito con riguardo alla sentenza nella causa C-303/19, la Corte di giustizia ha chiarito che, se anche si ritenga che i sostanziali beneficiari dell’assegno in oggetto siano i familiari, è vero altresì che l’assegno è versato al lavoratore o pensionato, componente a propria volta del nucleo familiare (punto 45).
A proposito della limitazione del diritto alla parità di trattamento, la Corte ha precisato anche in questo caso che le deroghe elencate dalla direttiva, da interpretare restrittivamente, sono invocabili solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione della direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersene (punto 26, con richiamo alla sentenza Martinez Silva).
La stessa Corte ha poi affermato che «non risulta da alcuna delle deroghe ai diritti conferiti dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, previste all’art. 12, paragrafo 2, di quest’ultima, una possibilità per gli Stati membri di escludere dal diritto alla parità di trattamento il lavoratore titolare di un permesso unico i cui familiari risiedono non già nel territorio dello Stato membro interessato, bensì in un paese terzo» (punto 27).
Richiamate le finalità della direttiva, la Corte ha sottolineato che, nel garantire un obbligo di parità di trattamento dei lavoratori provenienti da paesi terzi, si riconosce il contributo di costoro all’economia dell’Unione, attraverso «il loro lavoro e i loro versamenti di imposte», e si contrasta la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi causata dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi (punti 34 e 35).
9.– Concluso l’iter del rinvio pregiudiziale con le due decisioni della Corte di giustizia, la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, per contrasto con i parametri che sovraintendono al rapporto tra l’ordinamento nazionale e il diritto dell’Unione, gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo con l’interposizione delle direttive indicate.
10.– Le questioni così prospettate devono essere dichiarate inammissibili per carenza di rilevanza, come eccepito anche dalla difesa delle parti private.
10.1.– La Corte rimettente assume di non poter dare attuazione al diritto dell’Unione, come interpretato nelle sentenze rese dalla Corte di giustizia in risposta al duplice rinvio pregiudiziale da essa stessa disposto.
Dopo avere escluso il ricorso allo strumento dell’interpretazione conforme, per l’univoco contenuto della disciplina di cui all’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, la Corte di cassazione ritiene di non poter procedere alla disapplicazione della disposizione citata poiché, con riferimento alla prestazione sociale in oggetto, il diritto europeo non detta una disciplina in sé compiuta, da applicare in luogo di quella dichiarata incompatibile.
10.2.– Per confutare quest’ultimo argomento, è opportuno prendere le mosse dalla scelta, operata dalla Corte di cassazione, di rivolgersi alla Corte di Lussemburgo, prima di sollevare la questione di costituzionalità dinanzi a questa Corte.
Tale scelta si colloca all’interno di una procedura che identifica nella Corte di giustizia l’interprete del diritto dell’Unione, al fine di garantirne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri (art. 267 TFUE).
La competenza esclusiva della Corte di giustizia nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati, riconosciuta da questa Corte in sede di rinvio pregiudiziale (da ultimo ordinanze n. 116 e n. 117 del 2021, rispettivamente punto 8 e punto 7 del Considerato; ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.2. del Considerato), comporta, in virtù del principio di effettività delle tutele, che le decisioni adottate sono vincolanti, innanzi tutto nei confronti del giudice che ha disposto il rinvio (Corte di giustizia, sentenza 16 giugno 2015, in causa C-62/14, Gauweiler e altri, punto 16; e già sentenza 3 febbraio 1977, in causa 52/76, Benedetti, punto 26).
Nel sistema così disegnato, la procedura pregiudiziale, oltre a rappresentare un canale di raccordo fra giudici nazionali e Corte di giustizia per risolvere eventuali incertezze interpretative, concorre ad assicurare e rafforzare il primato del diritto dell’Unione.
A partire dalla sentenza Simmenthal (sentenza 9 marzo 1978, in causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato), la Corte di giustizia ha affermato che il giudice nazionale ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle norme europee dotate di effetto diretto, «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (punto 24).
In tempi molto più vicini, la stessa Corte è tornata ad affermare la centralità del rinvio pregiudiziale, al fine di garantire piena efficacia al diritto dell’Unione e assicurare l’effetto utile dell’art. 267 TFUE, cui si salda il potere di «disapplicare» la contraria disposizione nazionale (sentenza 20 dicembre 2017, in causa C-322/16, Global Starnet Ltd., punti 21 e 22; sentenza 24 ottobre 2018, in causa C-234/17, XC e altri, punto 44; sentenza 19 dicembre 2019, in causa C-752/18, Deutsche Umwelthilfe, punto 42; sentenza 16 luglio 2020, in causa C-686/18, OC e altri, punto 30). La Corte di giustizia ha inoltre precisato che la mancata disapplicazione di una disposizione nazionale ritenuta in contrasto con il diritto europeo viola «i principi di uguaglianza tra gli Stati membri e di leale cooperazione tra l’Unione e gli Stati membri, riconosciuti dall’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE, con l’articolo 267 TFUE, nonché […] il principio del primato del diritto dell’Unione» (sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS, punto 88).
11.– Il principio del primato del diritto dell’Unione e l’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE costituiscono dunque l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi. Questa Corte, ha costantemente affermato tale principio, valorizzandone gli effetti propulsivi nei confronti dell’ordinamento interno. In tale sistema il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato dall’art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo (sentenza n. 269 del 2017, punti 5.2 e 5.3 del Considerato; sentenza n. 117 del 2019, punto 2 del Considerato), ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate.
12.– Nella prospettiva del primato del diritto dell’Unione, diversamente da quanto assume la Corte di cassazione, alle norme di diritto europeo contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, deve riconoscersi effetto diretto nella parte in cui prescrivono l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano.
Si tratta di un obbligo cui corrisponde il diritto del cittadino di paese terzo –rispettivamente titolare di permesso di lungo soggiorno e titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro – a ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro. La tutela riconosciuta al diritto in questione e la sua azionabilità richiamano le condizioni che la costante giurisprudenza della Corte di giustizia individua per affermare l’efficacia diretta delle disposizioni su cui tali diritti si fondano (a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich).
Non è quindi la disciplina delle prestazioni sociali – nella specie dell’assegno per il nucleo familiare – l’oggetto delle direttive citate. Come ha chiarito la Corte di giustizia nelle sentenze rese a seguito del duplice rinvio pregiudiziale, l’organizzazione dei regimi di sicurezza sociale rientra tra le competenze degli Stati membri, che possono conformare e modificare il sistema delle provvidenze in coerenza con esigenze interne di sostenibilità complessiva.
Le richiamate direttive si limitano a prescrivere l’obbligo di parità di trattamento, in forza della previsione di cui all’art. 79, comma 2, lettera b), TFUE, che consente al Parlamento europeo e al Consiglio, in sede di procedura legislativa ordinaria, di adottare misure nel settore della «definizione dei diritti dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro».
L’intervento dell’Unione si sostanzia, dunque, nella previsione dell’obbligo di non differenziare il trattamento del cittadino di paese terzo rispetto a quello riservato ai cittadini degli stati in cui essi operano legalmente.
Si tratta di un obbligo imposto dalle direttive richiamate in modo chiaro, preciso e incondizionato, come tale dotato di effetto diretto.
12.1.– In relazione a prestazioni in favore di talune categorie di cittadini di paesi terzi, questa Corte si è, peraltro, già espressa per dichiarare la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate. In particolare, con riferimento all’art. 65, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), come modificato dall’art. 13, comma 1, della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013), e dell’art. 74, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2021 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), è stata evidenziata l’incompleta ricostruzione del quadro normativo, poiché il rimettente non aveva preso in esame la direttiva 2011/98/UE – in particolare il principio di parità di trattamento (art. 12) riconosciuto a determinate categorie di cittadini di paesi terzi, come interpretato dalla Corte di giustizia europea – e non ne aveva valutato l’applicabilità nel caso sottoposto al suo giudizio (ordinanza n. 52 del 2019).
12.2.– Alla luce di quanto sin qui detto, si può affermare che le disposizioni censurate, ritenute dalla Corte di giustizia incompatibili con il diritto europeo, si prestano a essere disapplicate dal giudice rimettente.
13.– L’ulteriore argomento prospettato dalla Corte di cassazione, a sostegno della impraticabilità della disapplicazione della norma interna in contrasto con il diritto dell’Unione, risiede nella valorizzazione della discrezionalità del legislatore. A quest’ultimo spetterebbe la scelta dei rimedi con cui rimuovere gli effetti discriminatori e quella di limitare la parità di trattamento.
Anche questo argomento non può essere condiviso.
13.1.– Ben può il legislatore scegliere le modalità con cui eliminare l’accertata discriminazione anche per il passato. Tuttavia, il compito della rimozione degli effetti discriminatori già verificatisi rimane affidato al giudice.
Come affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza 14 marzo 2018, in causa C-482/16, Stollwitzer punto 30, l’eliminazione della discriminazione deve essere assicurata mediante il riconoscimento alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. Il regime applicato alla categoria privilegiata costituisce il solo riferimento normativo da prendere in considerazione fino a quando il legislatore nazionale non abbia provveduto a ristabilire la parità di trattamento, e con essa la conformità del diritto interno a quello dell’Unione.
13.2.– Quanto poi ai possibili limiti da apporre alla parità di trattamento, la Corte di cassazione richiama una decisione di questa Corte in cui si è affermato che «il contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 12 del Trattato CE, non è sempre di per sé sufficiente a consentire la “non applicazione” della confliggente norma interna da parte del giudice comune», e «[a]l legislatore dello Stato membro […] è consentito di prevedere una limitazione di parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata» (sentenza n. 227 del 2010).
Il richiamo non è pertinente.
13.3.– La sentenza n. 227 del 2010, citata dalla Corte rimettente, aveva a oggetto l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2005/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna degli Stati membri).
Diversamente da tale decisione quadro, priva di effetti diretti, le direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE impongono come regola generale la parità di trattamento, in relazione alla prestazione sociale in esame, e riconoscono agli Stati membri la facoltà di limitare tale parità, esprimendo chiaramente l’intenzione di volersi avvalere della facoltà di deroga.
A tale proposito, la Corte di giustizia, nel rispondere ai rinvii pregiudiziali, ha accertato che il legislatore nazionale non si è avvalso della facoltà di limitare il trattamento paritario prevista dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE (sentenza nella causa C-303/19, punto 38), ed ha osservato che l’art. 12, paragrafo 2, della direttiva 2011/98/UE non consente di escludere dal diritto alla parità di trattamento il lavoratore titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro i cui familiari risiedono non già nel territorio dello Stato membro interessato, bensì in un paese terzo (sentenza C-302/19, punto 27, che richiama il punto 24).
Il vincolo, generato dalle sentenze della Corte di giustizia nei confronti dei giudici del rinvio, riguarda anche tali affermazioni, che concorrono a sorreggere il giudizio di incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, con il diritto derivato dell’Unione.
14.– Si può inoltre osservare che, sul tema delle deroghe alla parità di trattamento previste dalla direttiva 2011/98/UE, la difesa statale ha segnalato che nella sentenza della Grande camera 2 settembre 2021, in causa 350/20, O.D. e altri, successiva alla sentenza nella causa C-302/19, è stato affermato che «la Repubblica italiana non si è avvalsa della facoltà offerta agli Stati membri di limitare la parità di trattamento come previsto dall’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98» (punto 64). Vi sarebbe pertanto sul punto una contraddizione interna alla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Dopo la pronuncia della Corte di giustizia ora citata, resa a seguito di rinvio pregiudiziale, questa Corte ha affermato che l’esercizio della facoltà di deroga «si correla non soltanto alla salvaguardia dell’effetto utile della direttiva, ma anche a una fruttuosa e trasparente fase di recepimento, che lo stesso legislatore dell’Unione europea vuole contraddistinta dall’impegno degli Stati membri a una costante interlocuzione con la Commissione» (sentenza n. 54 del 2022, punto 9.4.1 Considerato in diritto).
Peraltro, nel senso appena indicato – del mancato esercizio della facoltà di deroga in sede di recepimento della direttiva 2011/98/UE – la Corte di giustizia si era pronunciata già nella sentenza Martinez Silva (punto 30), precisando che la normativa limitativa del diritto alla parità di trattamento era contenuta in disposizioni adottate prima del recepimento della direttiva (art. 65 della legge n. 448 del 1998), che non potevano essere considerate istitutive delle limitazioni consentite dalla medesima direttiva.
Una situazione analoga si registra con riferimento alla disciplina dell’ANF prevista dal d.l. n. 69 del 1988, come convertito, anch’essa antecedente al recepimento della direttiva, sicché, in assenza di deroga, la disposizione contenuta nell’art. 2, comma 6-bis, del citato decreto realizza una discriminazione in contrasto con il diritto dell’Unione.
15.– In conclusione, questa Corte deve rilevare che nei giudizi a quibus ricorrono le condizioni per fare luogo alla disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito. Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto tale disposizione devono essere dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153, sollevate, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 2, paragrafo 1, lettere a), b), e c), e 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, e agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b), e c), e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa ad una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro – dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con le ordinanze indicate in epigrafe.