La Corte costituzionale rivolge un monito al Legislatore affinchè intervenga sulla disciplina prevista dal Jobs Act per garantire tutele adeguate in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese.
«È indifferibile la riforma della disciplina dei licenziamenti, materia di importanza essenziale per la sua connessione con i diritti della persona del lavoratore e per le sue ripercussioni sul sistema economico complessivo».
È questo il monito che la Corte costituzionale rivolge al Legislatore con la sentenza n. 183 del 22 luglio 2022, nonostante dichiari inammissibili le censure del Tribunale di Roma sull'indennità prevista dal cd. Jobs Act per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.
La Corte ha rilevato che «un'indennità costretta entro l'esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l'esigenza di adeguarne l'importo alla specificità di ogni singola vicenda» e non rappresenta un rimedio congruo e coerente con i requisiti di adeguatezza e dissuasività.
Il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge, prosegue la Consulta, «conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti». Tale criterio «non è indicativo della effettiva forza economica del datore di lavoro e non offre neppure elementi significativi per determinare l'ammontare dell'indennità secondo le peculiarità di ogni singola vicenda».
Spetta dunque al Legislatore valutare quali sono le soluzioni più appropriate per garantire tutele adeguate. Lo stesso Tribunale di Roma ne ha suggerite alcune, tra cui la ridefinizione di un criterio distintivo, incentrato sul numero degli occupati, l'eliminazione del regime speciale e la ridefinizione delle soglie.
«Il protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile» scrive la Corte. Pertanto, qualora la questione fosse riproposta, essa stessa provvederà direttamente a intervenire sulla disciplina censurata.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 23 giugno 2022) 22 luglio 2022, n. 183
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 26 febbraio 2021, iscritta al n. 84 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.
La disposizione è censurata limitatamente alle parole «ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, […] l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, […] è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».
1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere sul ricorso proposto da una lavoratrice, licenziata per giustificato motivo oggettivo da un datore di lavoro che non raggiunge i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).
Il rimettente ritiene che non sia stata dimostrata la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, dedotto in termini generici e tautologici, e che il rapporto di lavoro, instaurato dopo il 7 marzo 2015, sia assoggettato alle previsioni degli artt. 3 e 9 del d.lgs. n. 23 del 2015, che dimezzano l’indennizzo spettante al lavoratore ingiustamente licenziato e pongono il limite invalicabile delle sei mensilità dell’ultima retribuzione percepita.
1.2.– L’indennità dovrebbe essere individuata «nello stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità» e sarebbe inidonea, pertanto, «a soddisfare il test di adeguatezza» e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata.
Il tenore letterale della disposizione censurata sarebbe inequivocabile e non si presterebbe ad alcuna interpretazione costituzionalmente orientata, che consenta di salvaguardare l’adeguatezza e la dissuasività del rimedio previsto dal legislatore.
Il rimettente prospetta il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea.
Le censure muovono dal rilievo che la distinzione delle tutele in base ai requisiti occupazionali del datore di lavoro sia fondata «su un elemento che risulta esterno al rapporto di lavoro» e si giustifichi alla luce del carattere più problematico del riassorbimento del lavoratore nelle realtà di piccole dimensioni.
La tutela del diritto al lavoro, che si tradurrebbe nell’imposizione di limiti al potere di recesso del datore di lavoro, potrebbe essere anche affidata a un meccanismo monetario, a condizione che sia garantita la complessiva adeguatezza del risarcimento, prescritta anche dall’art. 24 della Carta sociale europea.
Il rimettente assume che «la previsione di un indennizzo così esiguo», non superiore alle sei mensilità e senza neppure «l’alternativa della riassunzione», non attui un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. La previsione censurata, difatti, «nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo», non garantirebbe «un’equilibrata compensazione» e «un adeguato ristoro» del pregiudizio e non svolgerebbe la necessaria funzione deterrente.
Secondo il giudice a quo, l’art. 24 della Carta sociale europea, nell’imporre un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione nel caso di licenziamento intimato senza un valido motivo, vieterebbe in linea di principio la predeterminazione di un tetto massimo, che svincola l’indennità dal danno subìto e non presenta un carattere sufficientemente dissuasivo.
La «funzione compensativa» e «l’efficacia deterrente della tutela indennitaria» sarebbero compromesse, inoltre, dalla previsione di un’indennità «ricompresa in un divario fra tre e sei mensilità», che rappresenterebbe «una forma pressoché uniforme di tutela» e finirebbe per attribuire rilievo esclusivo al «numero degli occupati». Si tratterebbe di «criterio trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale economia», che non consentirebbe alcun adeguamento dell’importo riconosciuto alle peculiarità del caso concreto e, in particolare, alla «gravità della violazione», al più significativo criterio delle dimensioni dell’impresa, legato anche ai «dati economico finanziari ricavabili dai bilanci».
2.– Si è costituita in giudizio la parte ricorrente nel giudizio principale e ha chiesto di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Roma.
2.1.– In punto di ammissibilità, la parte evidenzia che il giudice a quo ha esposto in modo esauriente i fatti di causa e ha offerto un’adeguata motivazione circa la rilevanza delle questioni e l’impraticabilità di una interpretazione adeguatrice. Il petitum sarebbe stato formulato in termini inequivocabili e solleciterebbe a questa Corte un intervento «a rime obbligate».
2.2.– Quanto al merito delle questioni, la disposizione censurata non consentirebbe di adeguare l’ammontare dell’indennità, «ridotto fra tre e sei mensilità», alle particolarità del caso concreto, in base ai criteri valorizzati dalla stessa giurisprudenza di questa Corte. Nel caso di specie, sarebbe soltanto il numero degli occupati, poco significativo ai fini della valutazione dell’effettiva forza economica dell’impresa, a determinare l’ammontare dell’indennità.
La tutela riconosciuta dalla legge, con un indennizzo di «misura esigua», non sarebbe né adeguata, né dissuasiva.
A sostegno della razionalità del criterio individuato dal legislatore, non si potrebbero neppure invocare le considerazioni di questa Corte, che ha reputato compatibile con la Costituzione, nelle imprese più piccole, un regime di tutela esclusivamente indennitaria. In tali fattispecie, si coglierebbero ragioni legate all’esigenza di salvaguardare la natura fiduciaria del rapporto di lavoro e di non gravare tali imprese di costi eccessivi. Ragioni che non si adatterebbero a un sistema di tutela eminentemente indennitaria.
La parte rileva, inoltre, che la disciplina censurata si applica alla «quasi totalità delle imprese nazionali» e alla «gran parte dei lavoratori». L’accoglimento delle questioni, nei termini prospettati dal rimettente, varrebbe a conferire portata generale alla regola di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, che già consentirebbe di attribuire rilievo alle dimensioni dell’impresa. Ove tale strada non apparisse percorribile, si potrebbe comunque caducare la fissazione del tetto massimo delle sei mensilità, senza incidere sulla regola del dimezzamento dell’importo delle indennità.
3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibili, irrilevanti o comunque manifestamente infondate le questioni sollevate dal Tribunale di Roma.
3.1.– In linea preliminare, l’interveniente reputa le questioni inammissibili, in quanto si tratterebbe di «scegliere tra più opzioni normative», in un ambito riservato alla discrezionalità del legislatore. Lo stesso rimettente non avrebbe indicato soluzioni alternative atte a rideterminare l’indennità in diversa, e più adeguata, misura.
Ulteriore profilo di inammissibilità si riscontrerebbe nella carente motivazione in ordine alla rilevanza. Il rimettente non avrebbe illustrato le ragioni dell’inadeguatezza dell’indennizzo che è chiamato a liquidare nel caso di specie.
3.2.– Nel merito, le questioni non sarebbero comunque fondate.
Spetterebbe alla discrezionalità del legislatore la scelta dei tempi e dei modi della tutela contro i licenziamenti illegittimi, tutela che ben potrebbe essere esclusivamente monetaria. Il dimezzamento previsto per i «contesti occupazionali di minori dimensioni» sarebbe coerente con un apparato di tutele che attribuisce rilievo alle dimensioni dell’impresa. Peraltro, all’interno dell’intervallo fra le tre e le sei mensilità, il giudice ben potrebbe modulare l’indennità alla stregua dei criteri enucleati da questa Corte.
Né si potrebbe invocare, in senso contrario, la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’11 febbraio 2020, che non terrebbe conto della possibilità di ottenere il risarcimento di danni ulteriori rispetto a quelli prodotti dal licenziamento illegittimo e neanche della necessità di una predeterminazione dell’importo massimo, al fine di attuare il «necessario bilanciamento fra gli opposti interessi».
4.– Hanno presentato opinioni scritte, come amici curiae, l’Associazione Comma2 - Lavoro è dignità e la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL).
Le opinioni sono state ammesse con decreto del Presidente del 2 maggio 2022, sentito il Giudice relatore.
5.– In prossimità dell’udienza, ha depositato memoria illustrativa la parte, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate.
5.1.– Non sarebbero fondate le eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa dello Stato.
Il rimettente avrebbe indicato puntualmente l’intervento idoneo a porre rimedio ai vizi denunciati, che consisterebbe nell’eliminazione del dimezzamento e del tetto massimo delle sei mensilità. Questa Corte potrebbe limitarsi a caducare il limite delle sei mensilità, senza incidere sul dimezzamento.
Sarebbe esaustiva anche la motivazione in punto di rilevanza e di inadeguatezza dell’indennizzo. Non si ravviserebbero, pertanto, le lacune segnalate nell’atto di intervento.
5.2.– Nel merito, la difesa dello Stato non avrebbe confutato in maniera convincente le censure mosse dal giudice a quo.
6.– All’udienza del 7 giugno 2022, le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Motivi della decisione
1.– Con l’ordinanza di cui al reg. ord. n. 84 del 2021, il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che regola l’indennità spettante nel caso di licenziamento illegittimo intimato da datori di lavoro che non possiedono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).
Il rimettente denuncia il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.
1.1.– Lo statuto dei lavoratori, all’art. 18, ottavo comma, si riferisce al «datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti».
L’art. 18, nono comma, della legge n. 300 del 1970 puntualizza che, ai fini del computo del numero dei dipendenti, «si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore». Non si computano coniuge e parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
Per i datori di lavoro che non presentano i descritti requisiti occupazionali, l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 prevede una indennità di importo dimezzato rispetto a quello stabilito dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 e comunque determinato «nello strettissimo intervallo fra tre e sei mensilità».
1.2.– Sull’ammontare dell’indennità vertono le censure prospettate nell’odierno giudizio.
Nel condividere le censure di illegittimità costituzionale formulate dalla parte ricorrente, il rimettente argomenta che la previsione di un indennizzo non superiore alle sei mensilità, senza neppure l’alternativa della riassunzione, non attuerebbe un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti.
In particolare, la disposizione censurata, «nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo», non garantirebbe «un’equilibrata compensazione» e «un adeguato ristoro» del pregiudizio e non assolverebbe alla necessaria funzione deterrente.
Un’indennità così modulata rappresenterebbe «una forma pressoché uniforme di tutela» e attribuirebbe rilievo esclusivo al «numero degli occupati», elemento «trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale economia». Non sarebbero valorizzati, al contrario, i molteplici criteri che questa Corte ha individuato nelle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, allo scopo di adeguare il risarcimento alla peculiarità del caso concreto.
Al generico richiamo all’art. 44 Cost., neppure ribadito nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, non corrisponde un’autonoma censura, che concorra a definire il thema decidendum devoluto all’esame di questa Corte.
2.– Occorre, in primo luogo, esaminare le eccezioni preliminari mosse dall’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio in rappresentanza e a difesa del Presidente del Consiglio dei ministri.
3.– Ha priorità logica l’esame dell’eccezione di inammissibilità per carente motivazione in punto di rilevanza. Il giudice a quo non avrebbe spiegato per quali ragioni, nel caso concreto, risulti equo un indennizzo più elevato.
3.1.– L’eccezione deve essere disattesa.
Questa Corte è costante nell’affermare che «[l]’applicabilità della disposizione al giudizio principale è sufficiente a radicare la rilevanza della questione, che non postula un sindacato più incisivo sul concreto pregiudizio ai princìpi costituzionali coinvolti» (sentenza n. 174 del 2016, punto 2.1. del Considerato in diritto).
A tale riguardo, questa Corte ha specificato che, «[a]nche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (sentenza n. 77 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto) e di una più efficace garanzia della conformità della legislazione alla Carta fondamentale, il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 20 del 2018, punto 2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto).
3.2.– Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate in un giudizio di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il datore di lavoro, rimasto contumace, non ha ottemperato all’onere di dimostrare le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, così come stabilisce l’art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali).
Il rimettente evidenzia che il datore di lavoro non possiede i requisiti occupazionali di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, dello statuto dei lavoratori e che al licenziamento è applicabile ratione temporis la disciplina dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.
Il giudice a quo ha dunque illustrato, con motivazione adeguata, le ragioni che rendono necessaria l’applicazione della previsione censurata, requisito necessario e sufficiente ai fini della rilevanza delle questioni sollevate.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato, in secondo luogo, imputa al rimettente di avere demandato a questa Corte la rideterminazione dell’indennizzo adeguato e, conseguentemente, la scelta «tra più opzioni normative, tutte ugualmente conformi a Costituzione», in mancanza di «parametri normativi alternativi». Da questa angolazione, sarebbe evidente lo sconfinamento nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore.
4.1.– L’eccezione è fondata, nei termini e per i motivi di séguito precisati.
4.2.– Questa Corte, già nella sentenza n. 45 del 1965, ha ricondotto la tutela contro i licenziamenti illegittimi agli artt. 4 e 35 Cost., interpretati in una prospettiva unitaria. In quell’occasione si affermò che, pur non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia della stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, «nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale», adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi (punto 4 del Considerato in diritto).
In armonia con tali principi, la protezione riconosciuta al lavoro dalla Costituzione, ribadita anche dall’art. 24 della Carta sociale europea, è stata collocata in un quadro contraddistinto dall’integrazione delle garanzie e dalla loro massima espansione (sentenza n. 194 del 2018, punto 14 del Considerato in diritto).
Il rimettente avvalora i dubbi di legittimità costituzionale con il richiamo alle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, che, in merito all’indennità per i licenziamenti viziati dal punto di vista, rispettivamente, sostanziale e formale, hanno censurato un meccanismo di determinazione ancorato al rigido e uniforme criterio dell’anzianità di servizio.
Nelle pronunce richiamate, questa Corte ha ribadito che la modulazione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi è demandata all’apprezzamento discrezionale del legislatore, vincolato al rispetto del principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e di trascurare la specificità del caso concreto.
In una vicenda che vede direttamente implicata la persona del lavoratore, si rivela di importanza primaria la valutazione del giudice, chiamato, nell’alveo dei criteri individuati dalla legge, ad attuare la necessaria «personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza» (sentenza n. 194 del 2018, punto 11 del Considerato in diritto e, nello stesso senso, sentenza n. 150 del 2020, punto 9 del Considerato in diritto).
Tra tali criteri, rilevano anche il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, tipizzati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, confermati dalla legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali) e largamente sperimentati nell’esperienza applicativa.
Inoltre, un organico sistema di tutele si incentra sul principio di ragionevolezza, «che questa Corte, nell’àmbito della disciplina dei licenziamenti, ha declinato come necessaria adeguatezza dei rimedi, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro» (sentenza n. 150 del 2020, punto 13 del Considerato in diritto).
Un rimedio adeguato, che assicuri un serio ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo e dissuada il datore di lavoro dal reiterare l’illecito, si impone in forza della «speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.)» (sentenza n. 125 del 2022, punto 6 del Considerato in diritto).
4.3.– Tali esigenze di effettività e di adeguatezza della tutela si impongono anche per i licenziamenti intimati da datori di lavoro di più piccole dimensioni (di cui ai citati commi ottavo e nono dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori).
Questa Corte, nel dichiarare non fondati i dubbi di legittimità costituzionale della disciplina, che per tali datori di lavoro escludeva la reintegrazione, ha posto l’accento sulla natura fiduciaria del rapporto di lavoro nell’ambito delle descritte realtà organizzative, sull’opportunità di non gravarle di oneri eccessivi e, infine, sulle tensioni che l’esecuzione di un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare (sentenze n. 2 del 1986, n. 189 del 1975 e n. 152 del 1975).
Inoltre, le «dimensioni che il datore di lavoro abbia conferito alla organizzazione della sua attività» rappresentano un «dato aderente alla realtà economica di comune esperienza» (sentenza n. 55 del 1974, punto 4 del Considerato in diritto). In questa prospettiva, «la componente numerica dei lavoratori ha riflessi sul modo di essere e di operare del rapporto di lavoro organizzato», soprattutto in ragione del «criterio economico suggerito per regolare gli interessi delle aziende aventi un minor numero di dipendenti, pur senza trascurare gli interessi dei lavoratori» (sentenza n. 81 del 1969, punto 4 del Considerato in diritto).
4.4.– L’assetto delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015 è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle più risalenti pronunce di questa Corte. La reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio discretivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario.
In un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative, che pure permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto.
5.– Il rimettente, in continuità con la giurisprudenza di questa Corte, segnala le disarmonie insite nella predeterminazione dell’indennità stabilita nell’ipotesi di datori di lavoro che non raggiungono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
Tali disarmonie traggono origine, per un verso, dall’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati.
5.1.– Quanto al primo profilo, si deve rilevare che un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio.
5.2.– Quanto al secondo profilo, si deve evidenziare che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete.
Invero, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli.
Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.
5.3.– In conclusione, un sistema siffatto non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.
6.– Si deve riconoscere, pertanto, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente e si deve affermare la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti.
Al vulnus riscontrato, tuttavia, non può porre rimedio questa Corte.
Non si ravvisa, infatti, una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l’intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci.
6.1.– Si deve rilevare, in primo luogo, che la fattispecie sottoposta allo scrutinio di questa Corte non può essere comparata con quella esaminata nelle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020.
In quel frangente, i rimettenti hanno chiesto la caducazione di un criterio di computo dell’indennità parametrato sulla sola anzianità di servizio. Peraltro, rimosso il meccanismo individuato dal legislatore, è stato possibile rinvenire nel sistema criteri collaudati, idonei a indirizzare la valutazione del giudice e a supplire all’eliminazione di un parametro fisso e immutabile.
Nel caso di specie, il rimettente non chiede a questa Corte di caducare un meccanismo di determinazione, parte integrante di un sistema che comunque si ricompone secondo linee coerenti. La richiesta concerne piuttosto la ridefinizione – in melius per il lavoratore illegittimamente licenziato – della stessa soglia massima dell’indennità, in difetto di soluzioni predefinite che possano circoscrivere il carattere manipolativo dell’intervento auspicato, ridefinizione che spazia in un intervallo di plurime soluzioni possibili, anche in ragione delle diverse caratteristiche dei datori di lavoro di piccole dimensioni.
6.2.– Le argomentazioni addotte dal rimettente, a sostegno dei dubbi di legittimità costituzionale, prefigurano, quindi, una vasta gamma di alternative e molteplici si rivelano le soluzioni atte a superare le incongruenze censurate.
Nella stessa direzione muovono anche i rilievi della parte, che pure sottendono una molteplicità di opzioni.
6.2.1.– Il legislatore ben potrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano.
Non spetta, dunque, a questa Corte scegliere, tra i molteplici criteri che si possono ipotizzare, quelli più appropriati.
6.2.2.– Il giudice a quo prospetta, quale soluzione idonea, anche l’eliminazione del regime speciale previsto per i piccoli datori di lavoro.
Anche tale soluzione non potrebbe che essere rimessa all’apprezzamento discrezionale del legislatore, per le ragguardevoli implicazioni sistematiche che presenta.
6.2.3.– Tenuto conto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte e alla luce delle innovazioni legislative intervenute (art. 3 del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese», convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96), le soglie dell’indennità dovuta potranno essere rimodulate secondo una pluralità di criteri.
Anche da questo punto di vista, trova conferma l’ampio spettro delle soluzioni che il legislatore, nella sua discrezionalità, potrebbe elaborare.
7.– A ognuna delle scelte ipotizzabili corrispondono, infatti, differenti opzioni di politica legislativa. Si profilano, dunque, ineludibili valutazioni discrezionali, che, proprio perché investono il rapporto tra mezzi e fine, non possono competere a questa Corte.
Rientra, infatti, nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di «una normativa di importanza essenziale» (sentenza n. 150 del 2020), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso.
Come già questa Corte ha segnalato (sentenza n. 150 del 2020, punto 17 del Considerato in diritto), la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie.
Nel dichiarare l’inammissibilità delle odierne questioni, questa Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte (sentenza n. 180 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto).
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.