Nello specifico, si tratta del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in caso di insussistenza del fatto materiale e del licenziamento disciplinare intimato per un fatto punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa.
Con le sentenze nn. 128 e 129 del 16 luglio 2024, la Corte costituzionale torna ad occuparsi del Jobs Act.
In particolare, con la sentenza n. 128/2024, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, C. 2, D. Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo «in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage)».La Corte costituzionale ha accolto le questioni sollevate dalla sezione Lavoro del Tribunale di Ravenna in riferimento ai parametri di cui agli
Nelle sue argomentazioni, la Consulta fa una precisazione: non sussiste il vizio di illegittimità costituzionale qualora il fatto materiale, allegato come ragione d'impresa, sussiste sì, ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda. È esclusa dunque l'ipotesi in cui c'è la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa.
Quindi, la violazione dell'obbligo di repêchage attiverà la tutela indennitaria di cui al comma 1 dell'
In altre parole, «deve ammettersi la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda che specifiche inadempienze del lavoratore, pur disciplinarmente rilevanti, siano passibili solo di sanzioni conservative».
La Consulta, pur ritenendo complessivamente infondate le questioni sollevate dalla sezione Lavoro del Tribunale di Catania, ha fornito un'interpretazione adeguatrice della disposizione censurata orientata alla conformità all'
A tal proposito, ha affermato che «la disposizione censurata deve essere letta nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento ha sì una portata ampia, tale da comprendere le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento come clausola generale ed elastica, ma non concerne anche le ipotesi in cui il fatto contestato sia in radice inidoneo, per espressa pattuizione contrattuale, a giustificare il licenziamento, le quali vanno invece equiparate a quelle dell'”insussistenza del fatto materiale”».
La mancata previsione della reintegra quando il fatto contestato sia punito con una sanzione solo conservativa dalla contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo di quest'ultima nella disciplina del rapporto.
All'esito di queste due pronunce, si può concludere che vi è simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata dalla Consulta sulla linea del “fatto materiale insussistente”.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 4 giugno 2024) 16 luglio 2024, n. 128
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 27 settembre 2023 (reg. ord. n. 140 del 2023), il Tribunale ordinario di Ravenna, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 24, primo comma, 35, primo comma, 41, primo e secondo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, aventi ad oggetto la disciplina del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, prevista dall’art. 3, commi 1 e 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere dell’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato, in data 11 novembre 2021, da un’impresa di somministrazione di lavoro, a un dipendente assunto a tempo indeterminato dal 1° dicembre 2018, con la qualifica di operaio specializzato.
1.2.– In punto di fatto, il ricorrente deduceva di aver svolto un paio di incarichi (o missioni) per la durata complessiva di meno di due anni, e che, cessato l’ultimo di essi, il datore di lavoro – in asserita assenza di ulteriori prospettive di reimpiego – aveva attivato, in data 18 luglio 2020, la procedura di messa in disponibilità per mancanza di occasioni di lavoro (MOL), di cui all’art. 25 del Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) per la categoria delle Agenzie di somministrazione di lavoro del 15 ottobre 2019, all’esito del cui infruttuoso esperimento gli aveva comunicato la risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.
Pacifica la presenza dei requisiti dimensionali delle imprese sopra-soglia (ex art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2015), il dipendente contestava che si fosse determinata una situazione di assenza di offerte disponibili per posizioni richiedenti la sua professionalità, in quanto le stesse erano state in realtà destinate ad altri lavoratori, e chiedeva in via principale – ai sensi del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 – la reintegra nel posto di lavoro, oltre al pagamento di una indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra, e, in subordine, la liquidazione dell’indennizzo di cui al comma 1 della medesima disposizione.
1.3.– Il datore di lavoro resisteva in giudizio sostenendo di aver inutilmente segnalato il ricorrente, per alcuni mesi, a potenziali clienti senza ricevere alcun riscontro positivo.
1.4.– Il rimettente premette che, a seguito di acquisizione documentale disposta nel corso del giudizio, era emersa la presenza di una notevole mole di contratti di somministrazione (una cinquantina in totale), mai offerti al ricorrente e rispetto ai quali il suo nominativo non risultava tra quelli proposti alle imprese terze utilizzatrici, benché si trattasse di incarichi compatibili con la sua professionalità e rientranti come sede di lavoro nell’ambito della provincia di residenza dello stesso.
1.5.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che, poiché a fronte di plurime offerte di potenziale e concreto interesse per il ricorrente (poi effettivamente trasformate in contratti di somministrazione, alcuni anche a tempo indeterminato, con altri lavoratori) mai ne fu tentato il collocamento, senza alcuna reale ragione giustificatrice, sussisteva un evidente fumus di fondatezza della domanda e che la presenza di oltre cinquanta contratti di somministrazione relativi alla professionalità del ricorrente, stipulati con aziende del territorio realmente interessate ad utilizzare un lavoratore, senza che ad alcuna di esse venisse proposto il suo nominativo, risultava una situazione potenzialmente idonea a configurare l’«insussistenza del fatto» posto a giustificazione del licenziamento, dimostrata direttamente in giudizio.
1.6.– Dovendo fare applicazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nell’insussistenza dei motivi fondanti il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo – ossia determinato da «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» ex art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) – il Tribunale di Ravenna dubita della legittimità costituzionale della suddetta disposizione nella parte in cui esclude la tutela reintegratoria nell’ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto.
1.7.– In via preliminare, il rimettente dà atto dell’impossibilità di procedere a una interpretazione adeguatrice del dettato normativo, la cui chiara formulazione è nel senso di escludere la reintegra in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pur gravemente ingiustificato, quale tratto maggiormente “qualificante” della riforma dei licenziamenti del 2015.
1.8.– Sebbene l’assenza di tutela reintegratoria in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia riconducibile alla sua mancata previsione nel comma 1 dell’art. 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, laddove il comma 2 la prevede solo per i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, il rimettente censura entrambi i commi, sul presupposto che il vulnus costituzionale deriverebbe dal combinato operare delle due disposizioni (una che prevede la sola tutela indennitaria; l’altra che limita la tutela reintegratoria ai soli casi di licenziamento disciplinare).
1.9.– Il giudice a quo formula, pertanto, plurime censure di illegittimità costituzionale, ritenendole non manifestamente infondate.
1.9.1.– Innanzi tutto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, unitariamente inteso, con riferimento sia all’art. 3, primo comma, che all’art. 24, primo comma, Cost., nella parte in cui non prevede la reintegrazione nel posto di lavoro e le conseguenze risarcitorie previste dal comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 in tema di licenziamento disciplinare, anche nell’ipotesi in cui il giudice accerti che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia fondato su un fatto insussistente.
La distinzione di disciplina tra il caso del licenziamento per motivo soggettivo e per motivo oggettivo, in relazione all’ipotesi in cui per entrambi il giudice ne accerti la giustificazione su fatti insussistenti, appare ingiustamente discriminatoria in quanto l’accertata insussistenza di uno degli elementi che ne compongono il fatto costitutivo li renderebbe due fenomeni identici o, se non altro, assolutamente omogenei.
Ferma la discrezionalità del legislatore nella graduazione delle tutele, una volta fissata la gerarchia dei vizi, il legislatore sarebbe comunque vincolato al rispetto dei principi di ragionevolezza e uguaglianza, che trovano fondamento nell’art. 3, primo comma, Cost., sicché, a una pari gravità del vizio, come nel caso in cui si accerti che il fatto (soggettivo o oggettivo) posto alla base del recesso non esiste, dovrebbe necessariamente corrispondere un uguale trattamento sanzionatorio.
Come già ritenuto quanto alla scelta effettuata dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), di rendere discrezionale la reintegra da parte del giudice in caso di motivo economico, permanendo l’obbligo solo per i licenziamenti disciplinari, opzione sanzionata con l’abrogazione di questa mera facoltà ad opera della sentenza di questa Corte n. 59 del 2021 – prosegue il rimettente – anche la preclusione della reintegra operata dalla riforma del 2015, in caso di insussistenza del fatto posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo, si porrebbe in diretto contrasto con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost., rimettendo la radicale esclusione del rimedio restitutorio del rapporto di lavoro alla qualificazione (come disciplinare o giustificato motivo oggettivo) data dal datore di lavoro ad un licenziamento fondato su fatti a livello fenomenologico in entrambi i casi pari al nulla.
La violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., oltre che sotto il profilo della disuguaglianza ingiustificata di trattamento tra il motivo soggettivo e il motivo oggettivo, in presenza degli stessi presupposti di vizio, conseguirebbe anche all’irrazionalità e irragionevolezza di una disciplina che fa dipendere le conseguenze sanzionatorie e di tutela per un fatto illegittimo e illecito dalla mera qualificazione giuridica utilizzata da una delle due parti del rapporto, concedendo al datore di lavoro la possibilità di impedire la reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente qualificando, in un certo modo piuttosto che in un altro, un motivo di licenziamento inesistente, e senza, al contrario, dare rilievo alla realtà quale risultante dagli accertamenti processuali compiuti dal giudice da cui dovrebbe derivare la determinazione della tutela spettante.
La previsione di un diverso trattamento sanzionatorio per due ipotesi di licenziamento analogamente fondate su di un presupposto inesistente, violerebbe, poi, il diritto del lavoratore ad agire in giudizio per fare valere i propri diritti, tutelato dall’art. 24, primo comma, Cost., in quanto al lavoratore verrebbe preclusa una tutela che gli spetterebbe sulla base della insindacabile qualificazione formale data al recesso dal datore di lavoro.
1.9.2.– Il giudice a quo ritiene, poi, non manifestamente infondato il contrasto dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 con gli artt. 1, 2, 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 35, primo comma, 41, primo e secondo comma, Cost., nella parte in cui, con l’esclusione della reintegra nell’ipotesi di un vizio talmente grave (quale l’insussistenza del fatto per mancato repêchage), che ridonda nell’inesistenza del motivo di licenziamento, avrebbe operato un errato bilanciamento dei valori costituzionali in tema di lavoro e impresa, in violazione del principio di uguaglianza, formale e sostanziale.
Pur consapevole della consolidata giurisprudenza di questa Corte che nega alla reintegra una copertura costituzionale, il rimettente individua un profilo di illegittimità costituzionale, a suo dire non ancora esplorato, all’esito del confronto del quadro complessivo e sinergico dei rimedi (indennizzo monetario e reintegra) spettanti al lavoratore, come delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015, con i principi personalistico e lavoristico, che, nell’ipotesi di imprese di maggiori dimensioni e in relazione a vizi gravi dell’atto risolutorio, farebbero dubitare della sufficiente dissuasività di un trattamento risarcitorio ingiustificatamente meno favorevole per il lavoratore illegittimamente licenziato.
Il Tribunale di Ravenna richiama quell’evoluzione giuridica che, in attuazione dei principi costituzionali, ha portato all’emersione di nuove tutele, quale quella del risarcimento del danno non patrimoniale, e che imporrebbe una diversa lettura della discrezionalità del legislatore nella scelta dei tempi e dei modi d’attuazione della tutela dei lavoratori dai licenziamenti illegittimi; in particolare, nell’individuazione del danno che consegue ordinariamente ad un licenziamento illegittimo, non si potrebbe più prescindere dal riferimento alla persona-lavoratore (come evidenziato da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018), e quindi dalla considerazione di tutte le voci del danno patrimoniale, previdenziale, non patrimoniale, in ogni sua componente.
L’indennizzo prefissato con la riforma del 2015 sarebbe insufficiente a compensare il lavoratore, e a dissuadere il datore di lavoro, sia quanto al danno economico, tenuto conto delle difficoltà di reperire un nuovo lavoro in determinati contesti territoriali e della variabile degli anni che separano il singolo lavoratore dal pensionamento, sia quanto alle altre voci di danno, quali il danno previdenziale e quello alla professionalità.
A giudizio del rimettente non sussisterebbero neanche interessi contrapposti a quelli del lavoratore, che trovando espressione nella libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), sarebbero meritevoli di contemperamento perché, in presenza del più grave vizio sostanziale possibile, quale l’inesistenza del fatto, risulterebbe squilibrato favorire, sul piano risarcitorio un datore di lavoro, che ponga in essere un licenziamento del tutto privo di motivo oggettivo.
1.9.3.– Sotto altro profilo il Tribunale di Ravenna richiama, in riferimento ai parametri di cui agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE, come interpretato nelle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali ed in particolare nella decisione dell’11 settembre 2019, resa pubblica l’11 febbraio 2020, sul reclamo collettivo della CGIL, n. 158/2017.
1.9.4.– Il rimettente denuncia, altresì, la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., rispetto al tertium comparationis individuato questa volta nel meccanismo rimediale previsto per gli identici vizi dall’art. 18, commi quarto e settimo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), risultando ingiustificatamente discriminatorio, in assenza di un motivo ragionevole desumibile dalla comparazione degli interessi in gioco, applicare ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 il trattamento deteriore dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 in luogo di quello spettante ai lavoratori assunti prima di tale data.
1.9.5.– Infine, il rimettente dubita della legittimità costituzionale della medesima disposizione, con riferimento all’art. 3, primo e secondo comma, Cost., laddove, in modo a suo avviso ingiustificato, non trovando rispondenza la penalizzazione eccessiva del lavoratore in una meritevolezza del vantaggio apportato al datore di lavoro, prevederebbe per il creditore-lavoratore subordinato un trattamento deteriore rispetto a quello riconosciuto al creditore in generale, ponendo un limite alla reintegrazione in forma specifica e al quantum risarcitorio.
Il giudice a quo rileva che, pur rientrando nella facoltà del legislatore l’introduzione di limitazioni di responsabilità, al fine di contemperare i diritti del creditore con altri diritti e necessità del sistema o del mercato, tale bilanciamento dovrebbe comunque essere ragionevole mentre, nel caso di mancanza degli elementi costitutivi che legittimano il recesso per motivo economico, il volontario stato soggettivo di inadempienza del datore di lavoro difficilmente potrebbe ritenersi meritevole, ex art. 41, secondo comma, Cost., del duplice beneficio – esclusione della tutela ripristinatoria, benché possibile, e previsione di tetto massimo all’indennizzo – che gli assegna il legislatore del 2015.
1.10.– Tali plurime questioni convergono verso un petitum unitario.
Il Tribunale rimettente conclude chiedendo che, sulla base di tutti i parametri evocati, sia dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede l’applicabilità del comma 2 anche in relazione al licenziamento determinato da «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
2.– Con atto depositato il 13 novembre 2023, si è costituita la parte ricorrente del giudizio a quo, argomentando la rilevanza e la fondatezza delle questioni di illegittimità costituzionale in esame con un richiamo, in termini adesivi, alle considerazioni formulate dal giudice rimettente.
Concorda, in particolare, sulla prospettata inidoneità compensativa e dissuasiva dei rimedi solo risarcitori previsti dalla disposizione censurata rispetto alle previsioni di cui all’art. 24 CSE e sulla denunciata disparità di trattamento del creditore-lavoratore.
3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 14 novembre 2023, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate.
3.1.– A sostegno dell’eccezione di inammissibilità, l’Avvocatura osserva, in via preliminare, che il giudice rimettente – pur muovendo correttamente dal principio che il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio/monetario – non individua una soluzione costituzionalmente obbligata delle questioni che solleva, né enuncia in termini nitidi l’intervento idoneo a sanare le sperequazioni denunciate, sulla base di precisi punti di riferimento già presenti nella legislazione vigente.
3.2.– Nel merito, la difesa statale ritiene opinabile il sillogismo per cui i licenziamenti illegittimi – disciplinari o economici – siano tutti uguali, allorché ne sia accertata la mancanza di giustificazione per “insussistenza del fatto”, ben potendosi ritenere più grave per la reputazione, la dignità e l’amor proprio del lavoratore l’addebito di un fatto disciplinarmente rilevante, del quale sia poi accertata l’inesistenza, rispetto alla evidenziazione di un fatto che legittima il licenziamento per motivi economici; la ragionevolezza della diversificazione si coglierebbe anche avuto riguardo allo scopo dell’intervento legislativo del 2015, in quanto l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato, in funzione di incentivo all’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, sarebbe maggiormente giustificabile proprio in caso di licenziamento per motivi economici, dovendosi anche tenere conto che il giudice, nei casi in cui accerti un utilizzo strumentale del nomen iuris del licenziamento dispone degli strumenti – rinvenibili nella disciplina della frode alla legge, del motivo illecito ex art. 1345 del codice civile o, più in generale, dell’abuso del diritto – per pervenire alla declaratoria di nullità del licenziamento, e con essa alla tutela reintegratoria.
L’Avvocatura rileva, poi, che i profili di censura indicati nell’ordinanza di rimessione finiscono per ricalcare quelli già diffusamente esaminati nella giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 194 del 2018), che ha ampiamente fugato il sospetto di contrasto con l’art. 3 Cost. della stessa disposizione, denunciata sotto il duplice aspetto della irragionevole disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti e della inadeguatezza della tutela meramente indennitaria ad assolvere le prescritte funzioni di deterrenza e personalizzazione del danno.
Inoltre, la difesa statale evidenzia la mancanza di argomentazioni idonee a sostenere il denunciato eccesso di delega; ipotizzando che il giudice rimettente ritenga violato il criterio di delega nella parte in cui fa riferimento alla regolazione dell’Unione europea e alle convenzioni internazionali, la censura sarebbe, comunque, non fondata, perché l’art. 24 CSE (laddove prescrive «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione») non può ritenersi che escluda l’adeguatezza dell’indennizzo previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.
L’Avvocatura deduce altresì l’assoluta eterogeneità tra la fattispecie oggetto di causa e la situazione assunta a tertium comparationis, rappresentata dal sistema dei rimedi di cui dispone una parte contrattuale in base alle regole generali contenute nel codice civile, in considerazione del fatto che la normativa che presiede ai rapporti di lavoro subordinato risulta fortemente regolata in senso limitativo dell’autonomia negoziale delle parti.
4.– Hanno presentato opinioni scritte, come amici curiae, la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e l’Associazione Comma2 - Lavoro è dignità.
Le opinioni sono state ammesse, ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, con decreti presidenziali dell’11 marzo 2024.
Entrambi gli amici curiae hanno svolto argomentazioni in adesione alle censure espresse dal giudice rimettente.
5.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la difesa statale ha depositato una memoria illustrativa con cui ha ribadito le proprie argomentazioni e conclusioni.
Motivi della decisione
1.– Con ordinanza del 27 settembre 2023 (reg. ord. n. 140 del 2023), il Tribunale di Ravenna, sezione lavoro, ha sollevato plurime questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 24, primo comma, 35, primo comma, 41, primo e secondo comma, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE, aventi ad oggetto la disciplina del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo dettata dall’art. 3, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 23 del 2015.
1.1.– Il giudice a quo è investito dell’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato, in data 11 novembre 2021, da un’impresa di somministrazione di lavoro a un dipendente assunto a tempo indeterminato dal 1° dicembre 2018, con la qualifica di operaio specializzato; il licenziamento era stato giustificato dall’assenza di ulteriori prospettive di reimpiego, all’esito dell’infruttuoso esperimento della procedura di messa in disponibilità per mancanza di occasioni di lavoro (MOL), di cui all’art. 25 CCNL per la categoria delle Agenzie di somministrazione di lavoro del 15 ottobre 2019.
1.2.– Il rimettente, premesso in fatto che nel corso del giudizio era stata provata la mancata offerta al ricorrente di alcun contratto di somministrazione e che il suo nominativo non risultava tra quelli proposti alle imprese terze utilizzatrici, benché si trattasse di incarichi compatibili con la sua professionalità e rientranti come sede di lavoro nell’ambito della provincia di residenza dello stesso, osserva, in punto di rilevanza, che la presenza di plurime offerte di potenziale e concreto interesse per il ricorrente, poi effettivamente trasformate in contratti di somministrazione, alcuni anche a tempo indeterminato, stipulati con aziende del territorio realmente interessate ad utilizzare un lavoratore, senza che ad alcuna di esse venisse proposto il suo nominativo, integrava una fattispecie idonea a configurare l’«insussistenza del fatto» posto a giustificazione del licenziamento, dimostrata direttamente in giudizio.
1.3.– Dovendo fare applicazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, nell’insussistenza dei motivi fondanti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da un’impresa sopra-soglia, ai sensi dell’art. 9 dello stesso decreto, il Tribunale di Ravenna dubita, sotto plurimi profili, della legittimità costituzionale della suddetta disposizione nella parte in cui esclude la reintegrazione nel posto di lavoro (al comma 1) e le conseguenze risarcitorie previste dal comma 2 in tema di licenziamento disciplinare, nell’ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto, ravvisandone il contrasto con molteplici parametri costituzionali.
1.4.– In particolare, con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, primo comma, Cost., il rimettente deduce che la disposizione censurata tutelerebbe in modo ingiustificatamente differenziato situazioni del tutto identiche, o almeno omogenee, sulla base della mera scelta del datore di lavoro di qualificare, come disciplinare o per giustificato motivo oggettivo, l’atto espulsivo, di cui il lavoratore è costretto a subire diverse conseguenze sostanziali, seppure adottato in entrambi i casi su fatti processualmente accertati come inesistenti.
1.5.– La violazione degli artt. 1, 2, 3, primo e secondo comma, 4, primo comma, 35, primo comma, e 41, primo e secondo comma, Cost. deriverebbe, invece, dal fatto che, l’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, operando un errato bilanciamento dei valori costituzionali in tema di lavoro e impresa, in presenza del più grave vizio sostanziale possibile (l’insussistenza del fatto), prevederebbe un indennizzo monetario predeterminato, insufficiente a compensare il lavoratore e a dissuadere il datore di lavoro, senza che l’esclusione del rimedio in forma specifica e lo squilibrio sul piano risarcitorio trovi giustificazione in un interesse del datore di lavoro meritevole di contemperamento.
1.6.– La disposizione censurata violerebbe, altresì, gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE, come interpretato nelle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, in quanto, riconoscendo un risarcimento solo per equivalente con un tetto massimo, sarebbe inidonea a dissuadere il datore di lavoro e a compensare il lavoratore di quanto perso con il licenziamento illegittimo.
1.7.– Il giudice a quo deduce, infine, la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., risultando ingiustificatamente discriminatorio, in assenza di un motivo ragionevole desumibile dalla comparazione degli interessi in gioco, secondo quanto già motivato nella seconda questione, applicare ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 un trattamento deteriore rispetto a quello spettante ai lavoratori assunti prima di tale data (ex art. 18, settimo comma, statuto lavoratori), nonché il contrasto con l’art. 3, primo e secondo comma, Cost. in quanto la disposizione censurata prevederebbe per il creditore-lavoratore subordinato un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto a quello previsto per il creditore in generale.
2.– In via preliminare, va accolta l’eccezione di inammissibilità, formulata nell’atto di intervento dal Presidente del Consiglio dei ministri e relativa alla questione sollevata in riferimento al parametro dell’art. 76 Cost., per essere la censura del tutto priva di motivazione.
Il giudice rimettente si è limitato a denunciare l’eccesso di delega senza una specifica e adeguata illustrazione dei motivi di censura in punto di non manifesta infondatezza, né l’ordinanza fornisce elementi che consentano di identificare, nella disposizione censurata, alcun contenuto eccedente rispetto a quello delineato dal legislatore delegante.
La disposizione censurata è stata introdotta in attuazione della legge di delega 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforme degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), cosiddetto Jobs Act, che, all’art. 1, comma 7, lettera c), prevedeva, come criterio direttivo, che il diritto alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato avrebbe dovuto essere limitato «ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», con esclusione quindi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. L’attuazione di tale criterio di delega rileva al fine del rispetto dell’art. 76 Cost., ma la dedotta violazione del parametro, denunciata dal giudice a quo, si arresta sulla soglia dell’inammissibilità, non accompagnandosi, nell’ordinanza di rimessione, all’illustrazione dei motivi. Rimane, invece, su un piano diverso la violazione, o no, degli ulteriori parametri indicati dal giudice a quo con riferimento alle altre censure svolte nell’ordinanza di rimessione, senza che ciò sia precluso dalla conformità della disposizione censurata al criterio di delega (analogamente, sentenza n. 194 del 2018).
3.– La difesa statale ha poi eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni sul presupposto che il rimettente – pur muovendo correttamente dal principio che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità e nel rispetto del principio di ragionevolezza, ben può prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio – non avrebbe individuato una soluzione costituzionalmente obbligata delle questioni sollevate, né indicato l’intervento idoneo a rimuovere le violazioni denunciate.
L’eccezione risulta destituita di fondamento.
Come noto, una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione, «non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 6 del 2024, che cita la sentenza n. 62 del 2022; nello stesso senso, sentenza n. 200 del 2023).
Deve ritenersi sufficiente «la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018)» (sentenza n. 95 del 2022), mentre «l’assenza di una soluzione a rime obbligate non è preclusiva di per sé sola dell’esame nel merito delle censure» (sentenza n. 48 del 2021).
Va, infatti, ribadito che «[s]petta […] a questa Corte, ove ritenga fondate le questioni, “di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, non essendo vincolata alla formulazione del petitum dell’ordinanza di rimessione nel rispetto dei parametri evocati, stante anche che “l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate” non compromette l’ammissibilità delle questioni stesse (ex plurimis, sentenza n. 59 del 2021) quando sia rinvenibile nell’ordinamento una soluzione adeguata al parametro di riferimento” (sentenza n. 221 del 2023)» (sentenza n. 90 del 2024).
Peraltro, nella specie, il Tribunale di Ravenna non si è limitato ad invocare un intervento additivo, ma ha proceduto all’individuazione nell’ordinamento della soluzione costituzionalmente adeguata, specificando che il superamento delle criticità denunciate potrebbe essere garantito dalla parificazione delle tutele tra licenziamento disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con previsione, per entrambe le fattispecie, della tutela di maggiore favore, individuata nel meccanismo sanzionatorio di cui al comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 o nell’analogo previsto dall’art. 18, commi quarto e settimo, statuto lavoratori.
4.– Per il resto, non sussistono ragioni di inammissibilità delle sollevate questioni.
4.1.– Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi del procedimento principale e del contesto fattuale in cui è maturato il licenziamento, risultano sufficienti a mostrare l’applicabilità ratione temporis della disposizione censurata (l’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 nel suo complesso, come formato dai commi 1 e 2) e il requisito della rilevanza del dubbio di costituzionalità (ex plurimis, sentenze n. 22 e n. 7 del 2024, n. 152 e n. 59 del 2021).
Il giudice a quo ha giustificato la necessità di fare applicazione del regime sanzionatorio indennitario introdotto dall’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, in una ipotesi di ritenuta “inesistenza del fatto”, dando atto di aver acquisito una serie di elementi documentali idonei a provare l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento da un’impresa di somministrazione di lavoro, individuato nella mancanza di occasioni di impiego per un lavoratore – assunto a tempo indeterminato dal 1° dicembre 2018 – in posizioni richiedenti mansioni proprie del suo bagaglio professionale e in un ambito territoriale compatibile con la sua residenza, presso numerosi clienti del somministratore ai quali lo stesso sarebbe stato inutilmente proposto.
4.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ha diffusamente motivato, con riferimento agli evocati parametri, in ordine alle ragioni per le quali, a suo giudizio, la disposizione censurata dà adito ai sollevati dubbi di costituzionalità, escludendo la possibilità di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, stante la chiara sua formulazione letterale, che prevede unicamente la tutela indennitaria in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, anche laddove la ragione economica indicata dal datore di lavoro si fondi su un “fatto insussistente”.
5.– Giova premettere, per grandi linee, il quadro normativo di riferimento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che si caratterizza per la stabilità della definizione della ragione legittimante, mentre è segnato da significative modifiche del sistema rimediale, che hanno portato per esso ad un progressivo ridimensionamento nel tempo della tutela reintegratoria.
5.1.– Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo resta, ancora oggi, disciplinato dalla seconda parte dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966; esso – determinato «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» – si configura ogni qual volta il licenziamento sia motivato da esigenze aziendali, in riferimento a ragioni economiche relative all’impresa o a situazioni che, pur facendo capo al lavoratore, attengono a vicende personali che possono incidere sul regolare funzionamento dell’azienda; la sua connotazione “economica” presuppone che la soppressione di un determinato posto di lavoro sia necessitata da una scelta organizzativa correlata all’attività produttiva, con la precisazione che la ragione produttiva e organizzativa non si identifica con la soppressione del posto di lavoro, ma ne deve costituire la causa giustificatrice.
Le scelte gestionali dell’azienda, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., sono rimesse alle valutazioni del datore di lavoro, e al giudice spetta esclusivamente la verifica della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, in quanto «[i]l vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio» (sentenza n. 59 del 2021).
Il controllo opera sull’effettività e concreta esistenza della ragione organizzativa e/o produttiva, ma non deve sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità, precluso tra l’altro, dall’art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).
La verifica di effettività della ragione d’impresa posta a giustificazione della soppressione del posto di lavoro non interferisce con la discrezionalità delle scelte datoriali, ma costituisce un accertamento in concreto sulla veridicità e autenticità della ragione addotta dall’imprenditore.
5.2.– Inoltre, secondo una nozione più restrittiva divenuta diritto vivente (a partire da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201), ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 gennaio 2023, n. 752).
In definitiva, il fatto posto a base del recesso si deve identificare con la decisione economica organizzativa con la quale il datore di lavoro intende giustificare l’interruzione del contratto di lavoro, sicché costituiscono elementi fondamentali del giustificato motivo, sia la soppressione di un posto di lavoro, sia il nesso causale tra la soppressione del posto e il lavoratore licenziato; prive di rilievo sono, invece, le ragioni economiche o produttive che sono a monte della soppressione del posto occupato dal lavoratore licenziato e che quindi non possono essere oggetto di sindacato del giudice.
5.3.– La legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo resta anche condizionata dalla necessità che il datore di lavoro dimostri l’impossibilità di collocare il dipendente da licenziare in un posto di lavoro diverso da quello soppresso.
L’onere di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse (cosiddetto repêchage), sebbene non costituisca un requisito espresso a livello normativo, è stato elaborato dalla giurisprudenza sulla base del principio generale secondo cui il recesso datoriale deve rappresentare sempre una scelta necessitata e trova la sua giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro, che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale (ex multis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 30 gennaio 2024, n. 2739 e 13 novembre 2023, n. 31561, nonché Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 24 settembre 2019, n. 23789).
6.– Sul fronte rimediale, per anni il contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro è stato operato per mezzo di due forme di garanzia, condizionatamente al ricorrere di un livello occupazionale minimo del datore di lavoro: a) la cosiddetta tutela obbligatoria/indennitaria, originariamente prevista dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, per le imprese di minori dimensioni; b) la cosiddetta tutela reale/reintegratoria, prevista dall’art. 18 statuto lavoratori per le imprese medio grandi. La soglia dimensionale del diverso regime di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi è tuttora prevista dall’art. 18, ottavo e nono comma, statuto lavoratori e consiste nell’occupazione di almeno quindici dipendenti nell’unità produttiva o almeno sessanta nel complesso.
6.1.– Come più volte evidenziato da questa Corte (sentenze n. 44, n. 22 e n. 7 del 2024), il punto di svolta nella disciplina dei licenziamenti va individuato nel passaggio dal regime originario dell’art. 18 statuto lavoratori a quello novellato dalla legge n. 92 del 2012; in disparte la speciale disciplina prevista per le “piccole” imprese, qui non rilevante, si è transitati da un sistema “generalizzato” che vedeva la tutela reintegratoria applicata in ogni caso, ad uno “misto” che combina due ipotesi in cui opera ancora la reintegrazione (piena o “attenuata”) e due ipotesi in cui vige solo la tutela indennitaria (più o meno estesa).
In particolare, con riferimento al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, che rileva ai fini delle censure in esame, nel disegno del legislatore del 2012 la tutela reintegratoria viene riservata ai licenziamenti la cui illegittimità è ritenuta “più grave”, quelli cioè in cui il giustificato motivo oggettivo allegato dal datore di lavoro risulti “insussistente”; si era aggiunto, però, che l’insussistenza doveva essere «manifesta» e che il giudice poteva discrezionalmente applicare la reintegrazione in ogni caso. Queste due limitazioni sono venute meno per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenze n. 125 del 2022 e n. 59 del 2021).
Il mutamento radicale determinato da questo frazionamento delle tutele è stato, poi, modificato ulteriormente dal d.lgs. n. 23 del 2015 che, confermato il novum della quadripartizione del regime di tutela, nel tracciarne un diverso perimetro delle rispettive aree, ha ristretto l’ambito applicativo della reintegra “attenuata” e ha ampliato in modo corrispondente quello riservato all’indennizzo “forte”; disciplina questa applicabile ai licenziamenti di lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, mentre per quelli già in servizio a tale data è ancora operante la disciplina precedente.
Nello specifico l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 prevede che, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, da determinarsi secondo i criteri dettati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità, come rideterminata dalla novella di cui al decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96).
Inoltre, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 3, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria che non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
6.2.– In sintesi, si è passati dal regime ampio e uniforme della tutela reintegratoria, in vigore a partire dalla legge n. 300 del 1970, che vedeva operare nelle aziende medio-grandi la reintegrazione nel posto di lavoro del prestatore illegittimamente licenziato, a quello attuale, caratterizzato dalla segmentazione delle tutele, differenziate dopo il 18 luglio 2012 secondo la “gravità” della violazione che determina l’illegittimità del licenziamento, e ulteriormente distinte per tipologie contrattuali, per qualità del datore di lavoro, per livello professionale, per dimensioni di impresa, e, a partire dal 7 marzo 2015, anche per data di inizio del rapporto di lavoro.
In proposito, questa Corte ha già segnalato che «le differenze tra le due discipline si sono ridotte nella misura in cui sono venuti meno l’automatismo di calcolo dell’indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23 del 2015 (a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 194 del 2018) e il rito speciale contemplato dalla legge n. 92 del 2012 solo per i licenziamenti soggetti all’art. 18 statuto lavoratori per effetto dell’abrogazione ad opera dell’art. 37, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata)» (sentenza n. 44 del 2024).
7.– Tutto ciò premesso, passando al merito delle censure, le questioni sono fondate in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 4 e 35 Cost., valutati complessivamente.
8.– Occorre muovere dalla considerazione che il d.lgs. n. 23 del 2015, recante la disposizione censurata (art. 3, commi 1 e 2), si colloca – non diversamente dalla legge n. 92 del 2012, di radicale riforma della disciplina dei licenziamenti – nel solco della (già richiamata) prescrizione della natura necessariamente causale del recesso datoriale, introdotta dal legislatore a seguito del monito di questa Corte (sentenza n. 45 del 1965) con la legge n. 604 del 1966, integrata poi dalla legge n. 300 del 1970; prescrizione cardine mai smentita, che tuttora è a fondamento della disciplina di tutela del lavoratore subordinato.
L’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro, che esprime il vincolo di subordinazione e connota il rapporto come subordinato, si accompagna alla specialità della disciplina del recesso datoriale, il quale, a differenza del recesso nel rapporto di lavoro autonomo e più in generale nei rapporti di durata, ingloba la ragione su cui si fonda, elevandola e conformandola come causa tipica dell’atto. Il licenziamento, salvo particolari e nominate ipotesi, non può essere senza causa, ossia acausale (ad nutum). Esso – per speciale prescrizione imperativa – deve fondarsi su una causa, declinata come «giusta causa» (ex art. 2119 cod. civ.) – tale essendo una inadempienza «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» – oppure come «giustificato motivo» (ex art. 3 della legge n. 604 del 1966), consistente in «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro» oppure in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
È questa una garanzia specifica del lavoro subordinato, espressione della più generale tutela del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.). Il principio costituzionale della necessaria giustificazione del licenziamento, che rinviene la sua legittimazione nel «diritto al lavoro» di cui all’art. 4, primo comma, Cost. e che è rafforzato dalla «tutela» del lavoro riconosciuta art. 35, primo comma, Cost, ha trovato attuazione proprio nell’art. 1 della legge n. 604 del 1966, secondo il quale il licenziamento va considerato illegittimo se non è sorretto da una «giusta causa» o da un «giustificato motivo».
Se il rapporto di lavoro cessa per volontà del datore di lavoro, la ragione del licenziamento appartiene alla causa di questa particolare forma di recesso, configurata come fattispecie legale tipica di atto unilaterale. Se mancano una giusta causa o un giustificato motivo, il licenziamento innanzi tutto viola la regola legale della necessaria causalità del recesso, prima ancora che quella della sua necessaria giustificatezza.
La disciplina delle conseguenze di tale radicale illegittimità rimane, comunque, nella discrezionalità del legislatore, sempre che essa appronti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva del recesso acausale e, più in generale, del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo.
9.– Questa disciplina – come si è visto – è mutata nel tempo quanto ai rapporti di lavoro in aziende medio-grandi, ossia allorché ricorrano i presupposti dimensionali di cui all’art. 18, ottavo e nono comma, statuto lavoratori (id est, occupazione di almeno quindici lavoratori nell’unità produttiva o di sessanta nel complesso); ciò che segna anche il perimetro delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
Come si è già sopra rilevato, per molti anni, nel periodo dal 1970 al 2012, la conseguenza principale di tale illegittimità è stata la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, sia nella formulazione originaria, sia in quella novellata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali). È questa la tutela più vicina alla disciplina comune della nullità per violazione di norme imperative (art. 1418 cod. civ.), stante l’inidoneità dell’atto unilaterale a risolvere il rapporto.
Però, la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, che sia compatibile con la garanzia costituzionale del lavoro (art. 35 Cost.); il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva. Questa Corte ha, infatti, più volte affermato che la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenza n. 125 del 2022, che richiama le sentenze n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000), in quanto «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (sentenza n. 254 del 2020).
In epoca recente, nell’esercizio di tale discrezionalità, il legislatore (legge n. 92 del 2012) ha abbandonato il criterio della tutela reintegratoria generalizzata (ovviamente – come già premesso – nelle aziende medio-grandi), adottando invece un criterio selettivo ispirato essenzialmente alla gravità dell’illegittimità di cui è affetto il licenziamento e prevedendo plurimi e gradati regimi di tutela. Ha riservato la tutela reintegratoria alle ipotesi di maggiore gravità dell’illegittimità del licenziamento: quella “piena” in caso di licenziamento nullo o discriminatorio; quella “attenuata” in caso di licenziamento fondato su un “fatto insussistente”. In tutti gli altri casi la tutela è solo indennitaria, più o meno ampia secondo due distinte declinazioni, entrambe di tipo compensativo della perdita del posto di lavoro conseguente all’effetto risolutivo del rapporto, che comunque si produce.
Questa scelta, espressione di politica del lavoro adottata dal legislatore, come già ritenuto da questa Corte (recentemente, sentenza n. 44 del 2024), è stata replicata dal d.lgs. n. 23 del 2015, in attuazione della legge delega n. 183 del 2014. Il reticolo di tutele del lavoratore nei confronti del licenziamento illegittimo è analogo: due regimi reintegratori, pieno (art. 2) e attenuato (art. 3, comma 2), e altrettanti regimi solo indennitari (art. 3, comma 1, e art. 4). Ciò che muta è la linea di demarcazione tra gli uni e gli altri, connotandosi la disciplina del d.lgs. n. 23 del 2015 per un ulteriore restringimento dell’area della tutela reale.
10.– In particolare, il regime della tutela reintegratoria piena è stato riservato, dalla legge n. 92 del 2012, all’ipotesi di licenziamento nullo o discriminatorio e a quella attenuata al recesso datoriale per giusta causa o giustificato motivo fondati su un “fatto insussistente”. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un recesso che è senza causa – prima ancora che senza giusta causa – e perciò collide proprio con il principio della necessaria natura causale del recesso.
A tal fine la nozione di “fatto insussistente” appare, per la prima volta, nella legge n. 92 del 2012 proprio per delimitare l’area della tutela reintegratoria, mentre in precedenza non era presente nella disciplina dei licenziamenti, che non distingueva – perché non c’era ragione di distinguere – tra mancanza di causa e difetto di una causa che fosse “giusta”.
11.– Pur tuttavia, nel regime della legge n. 92 del 2012, tuttora applicabile ai licenziamenti individuali di lavoratori in servizio alla data del 7 marzo 2015, la nozione di “insussistenza del fatto”, quanto al licenziamento per giustificato motivo soggettivo, non rimane isolata nel suo significato in senso stretto secondo il dato letterale della disposizione che l’ha introdotta. È stata infatti conservata nell’area della tutela reintegratoria anche l’ipotesi, riconducibile alla contrattazione collettiva, del licenziamento per giustificato motivo soggettivo che risulti essere sproporzionato rispetto alla colpa del lavoratore. La nozione di “insussistenza del fatto” si affianca a quella di licenziamento fondato su un fatto che «rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (art. 18, quinto comma, statuto lavoratori). Quindi la valutazione di proporzionalità concorre, in questi termini, con la nozione di “insussistenza del fatto” per definire l’area di applicazione della tutela reintegratoria attenuata.
Simmetricamente, quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si è fatto rientrare nella nozione di insussistenza del fatto anche la impossibilità di ricollocamento del lavoratore (impossibilità di repêchage), che normalmente completa la fattispecie della ragione economica. La sua mancanza (ossia la verificata possibilità di ricollocamento del lavoratore in azienda) comporta – secondo la costante giurisprudenza, sopra citata (al punto 5.3) – l’illegittimità del licenziamento con tutela reintegratoria attenuata.
Inoltre, in origine era presente testualmente l’ulteriore specificazione secondo cui l’insussistenza del fatto, nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, doveva essere “manifesta” ed essa non comportava sempre e comunque la tutela reale perché il giudice, secondo il dato letterale della disposizione, poteva – e non già doveva – ordinare la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato. Queste limitazioni sono però venute meno a seguito di pronunce di illegittimità costituzionale (sentenze n. 125 del 2022 e n. 59 del 2021) e quindi, allorché il giudice accerta la “insussistenza del fatto”, posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, riconosce la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, quarto comma, statuto lavoratori.
12.– Il d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ha replicato la medesima graduazione di tutele, riducendo però l’area di operatività della tutela reintegratoria.
Ha previsto la reintegrazione piena in caso di licenziamento “espressamente” nullo (ma la limitazione alle nullità testuali è venuta meno a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale: sentenza n. 22 del 2024) e di licenziamento discriminatorio; ciò in parallelismo con la legge n. 92 del 2012.
Invece, quanto al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, vi è stato un restringimento dell’area della tutela reintegratoria attenuata, affidato ancora alla nozione di “fatto insussistente” con l’aggiunta dell’aggettivazione “materiale” per sottolineare la scelta di una nozione in senso stretto e non più potenzialmente esteso, com’era nel regime della legge n. 92 del 2012. La perimetrazione dell’area della tutela reintegratoria avviene ancora utilizzando la nozione di “insussistenza del fatto”, ma con una limitazione ulteriore: deve trattarsi di «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento» (art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015). Tale specificazione comporta, appunto, quanto al licenziamento per giustificato motivo soggettivo, un ulteriore restringimento dell’area della tutela reintegratoria con ampliamento di quella meramente indennitaria, scelta però rientrante ancora nella discrezionalità del legislatore (vedi la coeva sentenza n. 129 del 2024).
Quanto, invece, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015), il restringimento dell’area della tutela reintegratoria attenuata è più radicale: è esclusa del tutto la rilevanza, a tal fine, della «insussistenza del fatto materiale» perché, dovendo trattarsi di un «fatto […] contestato al lavoratore», esso non può che essere inteso come limitato al licenziamento disciplinare con esclusione di quello per giustificato motivo oggettivo. Conseguentemente, quanto a quest’ultimo, la tutela non è mai reintegratoria, ma è sempre solo indennitaria, e ciò così marca una significativa differenza tra la disciplina dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo tuttora applicabile ai lavoratori in servizio alla data del 7 aprile 2015 e quella in vigore per i lavoratori assunti a partire da tale data, pur nel contesto di un progressivo riavvicinamento dei due regimi di garanzie.
Ed è su tale generalizzata esclusione, senza eccezioni, della tutela reintegratoria che si appuntano le censure di illegittimità costituzionale del giudice rimettente.
13.– Orbene, è vero – come è già stato ricordato – che non è sindacabile dal giudice la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento; essa rientra nelle valutazioni economiche che spettano al datore di lavoro. In generale, l’art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010 prevede che «[i]n tutti i casi nei quali le disposizioni di legge […] contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente».
Ma l’esclusione di tale sindacato di merito presuppone che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia “sussistente” (ad esempio, che il posto di lavoro sia stato effettivamente soppresso), mentre appartiene alle «valutazioni tecniche, organizzative e produttive» la ragione economica per cui il posto è stato eliminato; del resto «[l]a sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica» (sentenza n. 125 del 2022).
Parimenti può già precisarsi (ma si veda anche infra al punto 16) che la valutazione del possibile ricollocamento del lavoratore appartiene, altresì, all’area di sindacabilità del giustificato motivo oggettivo; se il posto di lavoro è stato soppresso, ma il lavoratore avrebbe potuto essere ricollocato in azienda, il licenziamento rimane senza giustificato motivo oggettivo, e come tale illegittimo, anche se non può dirsi che esso si fondi su un fatto materiale insussistente.
È, però, la radicale irrilevanza, a questo fine, dell’insussistenza del fatto materiale nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a determinare un difetto di sistematicità che ridonda in una irragionevolezza della differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Se il “fatto materiale”, allegato dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento non sussiste, è violato il principio della necessaria causalità del recesso datoriale. Il licenziamento regredisce a recesso senza causa, quale che sia la qualificazione che il datore di lavoro dia al “fatto insussistente”, vuoi contestandolo al lavoratore come condotta inadempiente che in realtà non c’è stata, vuoi indicandolo come ragione di impresa che in realtà non sussiste (perché, ad esempio, il posto non è stato soppresso). Il “fatto insussistente” è neutro e la differenziazione secondo la qualificazione che ne dà il datore di lavoro è artificiosa; in ogni caso manca radicalmente la causa del licenziamento, il quale è perciò illegittimo.
Come evidenziato nella sentenza n. 59 del 2021, «[l]’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.».
La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze di tale illegittimità – se la tutela reintegratoria o quella solo indennitaria – non può estendersi fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su ¿un fatto insussistente”, lo qualifichi, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare. La conseguenza, in termini di garanzia per il lavoratore illegittimamente licenziato, non può che essere la stessa: la tutela reintegratoria attenuata prevista per l’ipotesi del licenziamento che si fondi su un “fatto materiale insussistente”, qualificato dal datore di lavoro come rilevante sul piano disciplinare.
14.– Del resto, una asimmetria finanche minore è già stata censurata da questa Corte nelle citate sentenze n. 125 del 2022 e n. 59 del 2021, che hanno fatto venir meno la diversità di disciplina presente anche nella legge n. 92 del 2012 quanto, rispettivamente, al licenziamento senza giustificato motivo soggettivo e quello senza giustificato motivo oggettivo, ove entrambi fondati su un “fatto insussistente”, con conseguente allineamento delle due fattispecie.
È stato, in particolare, affermato (sentenza n. 59 del 2021) che «[i]n un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto».
Questa Corte, quanto alla rilevanza della “insussistenza del fatto” su cui si fonda il licenziamento nell’uno e nell’altro caso, ha così escluso che possa esserci una ragione che giustifichi una regola differenziata, a fronte del principio di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.). È stato quindi rimosso, con pronunce di illegittimità costituzionale, il duplice trattamento differenziato già presente nella legge n. 92 del 2012: rispettivamente, tutela reintegratoria attenuata “obbligatoria” versus tutela reintegratoria attenuata “facoltativa” e presupposto del “fatto insussistente” versus quello della “manifesta insussistenza del fatto”.
15.– Vi è poi una concorrente ragione che induce alla complessiva valutazione di fondatezza delle censure di legittimità costituzionale.
Una volta che il legislatore ha individuato le fattispecie più gravi di licenziamento illegittimo in quello nullo, discriminatorio o fondato su un ¿fatto insussistente”, si ha che la possibilità per il datore di lavoro di intimare un licenziamento – che, quand’anche sia radicalmente senza causa in ragione dell’insussistenza del fatto materiale, comporti sempre e comunque la risoluzione del rapporto, con una tutela solo indennitaria per il lavoratore che lo subisce – apre una falla nella disciplina complessiva di contrasto dei licenziamenti illegittimi, la quale deve avere, nel suo complesso, un sufficiente grado di dissuasività delle ipotesi più gravi di licenziamento.
Tale, del resto, è la ratio di fondo sia della riforma del 2012 sia di quella del 2015.
Nella misura in cui è possibile per il datore di lavoro estromettere il prestatore dal posto di lavoro solo allegando un fatto materiale insussistente e qualificandolo come ragione d’impresa, la prevista tutela reintegratoria nei casi più gravi di licenziamento (quello nullo, quello discriminatorio, quello disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente) risulta fortemente indebolita in quanto aggirabile ad libitum dal datore di lavoro, seppur a fronte del “costo” della compensazione indennitaria.
Il recesso datoriale offende la dignità del lavoratore per la perdita del posto di lavoro quando non sussiste il fatto materiale allegato dal datore di lavoro a suo fondamento, quale che sia la qualificazione che ne dia il datore di lavoro, sia quella di ragione d’impresa sia quella di addebito disciplinare.
Il licenziamento fondato su fatto insussistente, allegato dal datore di lavoro come ragione d’impresa, è, nella sostanza, un licenziamento pretestuoso (senza causa), che si colloca a confine con il licenziamento discriminatorio (che è viziato da un motivo, appunto, discriminatorio).
La pretestuosità di un tale licenziamento può anche celare, nella realtà dei casi, una discriminazione, che, se provata dal lavoratore, renderebbe applicabile la più estesa tutela reintegratoria piena di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015. Ma essa richiede un quid pluris (il motivo discriminatorio), della cui prova è onerato il lavoratore; si tratta quindi di una fattispecie diversa (e più grave ancora), la cui astratta configurabilità non giustifica che, in mancanza di prova della ragione discriminatoria, la tutela degradi a quella unicamente indennitaria per il sol fatto che il datore di lavoro qualifichi il fatto materiale insussistente come (apparente) ragione d’impresa e quindi come (asserito) motivo economico di licenziamento.
Anche in tale evenienza la tutela reintegratoria deve sussistere, seppur nella forma attenuata di cui al comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
16.– Rimane – beninteso – che, ove sussista il fatto materiale su cui si appoggia la ragione d’impresa allegata dal datore di lavoro, si ricade invece nell’ambito delle «valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro» (art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010).
C’è, però, da precisare, come già sopra sottolineato, che la giustificatezza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede anche – secondo la consolidata (e già richiamata) giurisprudenza di legittimità, che sul punto costituisce diritto vivente – che il lavoratore non sia utilmente ricollocabile in azienda in altra posizione lavorativa (obbligo di repêchage). Il licenziamento è pur sempre un’extrema ratio, sì che, quando c’è la possibilità di ricollocamento, ciò è rilevante al fine della valutazione di illegittimità del licenziamento nel senso che la realizzazione della ragione d’impresa, allegata dal datore di lavoro, pur se fondata su un “fatto materiale sussistente”, non avrebbe richiesto, però, necessariamente, nel caso concreto, l’espulsione del lavoratore licenziato.
In tale evenienza, il fatto materiale, allegato come ragione d’impresa, sussiste ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda. Però – in ragione di una scelta di politica del lavoro fatta dal legislatore con il cosiddetto Jobs Act (legge n. 183 del 2014), che ha ridotto la portata della tutela reale – si fuoriesce dall’area della tutela reintegratoria attenuata del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, il cui perimetro applicativo, come nell’ipotesi del licenziamento disciplinare, è segnato dall’“insussistenza del fatto materiale”. Né si riproduce il vizio di illegittimità costituzionale, del quale si è finora argomentato, proprio perché il licenziamento è comunque fondato su un “fatto sussistente”, ancorché il recesso datoriale sia poi illegittimo sotto un profilo diverso (quello della verificata ricollocabilità del lavoratore). La tutela allora è quella solo indennitaria di cui al comma 1 dello stesso art. 3.
Consegue che la reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, dovendo esser limitata al rilievo dell’insussistenza del fatto materiale, deve tener fuori, dalla sua portata applicativa, la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, che esclude il rilievo, a tal fine, della valutazione di proporzionalità del licenziamento alla colpa del lavoratore (vedi la coeva sentenza n. 129 del 2024). La violazione dell’obbligo di repêchage attiva la tutela indennitaria di cui al comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
17.– Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura.
18.– Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 4 giugno 2024) 16 luglio 2024, n. 129
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 20 novembre 2023 (r.o. n. 163 del 2023) il Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 39, 40, 41 e 76 della Costituzione, aventi ad oggetto la disciplina del licenziamento disciplinare dettata dall’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui non prevede (o non consente) che il giudice annulli il licenziamento, con le conseguenze già previste per l’ipotesi dell’insussistenza del fatto (tra cui il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro), laddove il fatto contestato, in base alle previsioni della contrattazione collettiva applicabile al rapporto, sia punibile solo con sanzioni di natura conservativa.
1.1.– Le questioni sono sollevate nel corso di un giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare intimato, in data 21 ottobre 2022, a un dipendente assunto a tempo indeterminato il 22 agosto 2022, con la qualifica di addetto al settore movimento merci, all’esito del mancato accoglimento delle giustificazioni dallo stesso addotte rispetto alla contestazione di tre distinti addebiti disciplinari.
1.2.– Il ricorrente, nel giudizio a quo, allegava di rivestire la carica di rappresentante sindacale aziendale e che gli avvenimenti posti a fondamento della contestazione disciplinare, che si collocavano nell’ambito di una vicenda unitaria (lo stato di malattia iniziato il 27 settembre 2022 e concluso il 9 ottobre 2022), consistevano: nell’assenza di due giorni per malattia a fronte dei quali l’interessato aveva prodotto certificazione medica rilasciata in data successiva e, dunque, a giudizio dell’impresa non valida in quanto retroattiva; nell’assenza di un altro giorno, per aver omesso di comunicare preventivamente la prosecuzione dello stato di malattia (comunicazione comunque inviata il giorno successivo); nel fatto che, sempre in costanza di malattia, destinata a cessare dopo ulteriori tre giorni, si era presentato sul luogo di lavoro intorno alle ore 15,00, intrattenendosi nella sede dell’impresa fino alle ore 16,45, per poi allontanarsene a bordo di uno scooter guidato da un collega.
Dedotta l’infondatezza dei fatti contestati, il ricorrente chiedeva, in via principale, l’annullamento del licenziamento per giusta causa, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno; in subordine, la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno, da determinarsi alla luce della sentenza di questa Corte n. 194 del 2018, ferma restando l’estinzione del rapporto di lavoro ai sensi del comma 1 dello stesso articolo; in ulteriore subordine, la condanna della stessa al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015.
1.3.– Il rimettente, in punto di rilevanza, dà atto che, a seguito dell’istruttoria testimoniale e documentale disposta nel corso del giudizio, era emerso che, dei tre fatti in contestazione, solo due apparivano assumere un rilievo disciplinare e che tali due addebiti risultavano punibili, ai sensi del Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) applicato dalle parti, con sanzioni di tipo conservativo.
In particolare, il primo dei tre addebiti andava riqualificato quale giustificazione tardiva (anziché assenza ingiustificata), posto che il certificato era stato redatto in prossimità dell’evento (appena due giorni dopo) e la prognosi era stata confermata dal medico di controllo dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sicché per la sua modesta entità era sanzionabile con l’ammonizione scritta ai sensi dell’art. 47 CCNL; il secondo, consistente nella mera violazione delle modalità e dei termini per la comunicazione della prosecuzione dello stato di malattia rivestiva modesta rilevanza disciplinare ed era analogamente sanzionabile con sanzione conservativa; il terzo, invece, risultava del tutto privo di fondamento giuridico essendo emerso, all’esito dell’istruttoria, che si trattava di un comportamento non in grado di pregiudicare lo stato di salute del lavoratore e che non sussisteva alcuna volontà dello stesso di abusare dell’istituto della malattia o di contravvenire agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro dal momento che il dipendente, senza violare l’obbligo di reperibilità domiciliare, si era recato in azienda al solo scopo di espletare delle incombenze riconducibili alla sua qualità di rappresentante sindacale aziendale (RSA).
1.4.– Tanto premesso, il giudice a quo osserva che, pacifica tra le parti l’applicazione del regime normativo di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, tenuto conto sia della data di assunzione del dipendente che del requisito dimensionale dell’azienda, dal momento che risultava provata la sussistenza di due fatti disciplinarmente rilevanti, per quanto non idonei a sorreggere l’atto di recesso in ragione delle stesse previsioni del CCNL di categoria, la fattispecie non poteva essere ricondotta all’ambito applicativo del comma 2 dell’art. 3 citato, quanto piuttosto a quello del comma 1 del medesimo articolo, con conseguente esclusione della tutela reintegratoria richiesta dalla parte in via principale.
Diversamente da quanto previsto dall’art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella formulazione successiva alle modifiche introdotte dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), la disposizione censurata non prevede, infatti, il riconoscimento della tutela reintegratoria rispetto a condotte sussistenti e che abbiano rilevanza disciplinare, ma che siano punibili con sanzioni conservative, né la chiarezza del dato normativo consente di addivenire a un esito diverso attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata.
1.5.– Dovendo fare applicazione dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, il Tribunale di Catania dubita della legittimità costituzionale del comma 2 della stessa disposizione nella parte in cui, accordando la reintegra nell’unico caso dell’insussistenza del fatto (materiale o giuridico) contestato, non ricomprende le ipotesi in cui il fatto, pur disciplinarmente rilevante, è punibile, in ragione della contrattazione collettiva di riferimento applicata dal datore di lavoro, con una sanzione conservativa, anche di modesta entità, e per le quali, sebbene non risulti compromesso il rapporto di fiducia, potrà operare la sola tutela economica con conseguente estinzione del rapporto.
1.6.– Il giudice a quo formula, pertanto, plurime censure di illegittimità costituzionale, ritenendole non manifestamente infondate.
1.6.1.– Innanzitutto il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, con riferimento all’art. 3 Cost.
Sotto il profilo della ragionevolezza rileva che la disposizione, senza un plausibile motivo, consentirebbe al datore di lavoro di estromettere un dipendente che abbia commesso infrazioni di modesta entità – che, secondo le valutazioni delle parti sociali e del CCNL di categoria, sarebbero inidonee a compromettere il vincolo fiduciario, tanto da giustificare al più l’irrogazione di sanzioni conservative – con un atto di recesso, ancorché non nullo, né discriminatorio, che risulterebbe, comunque, arbitrario e irragionevole, perché fondato su fatti obiettivamente inidonei a giustificare l’estinzione del rapporto.
La previsione avrebbe l’effetto sia di vanificare il ruolo delle parti sociali, rendendo prive di rilevanza tutte quelle disposizioni della contrattazione collettiva che hanno la funzione di graduare l’esercizio del potere disciplinare, sia di violare un principio immanente dell’ordinamento giuslavoristico, quale quello della necessaria gradualità delle sanzioni disciplinari ex art. 2106 del codice civile.
Quanto al profilo della disparità di trattamento, il giudice a quo osserva che l’ipotesi dell’insussistenza del fatto (materiale o giuridico) e l’ipotesi della commissione di un fatto punibile solo con una misura conservativa, integrerebbero ipotesi sostanzialmente omogenee, perché in entrambe non si manifesterebbe una condotta idonea a far venir meno il rapporto di fiducia tra le parti ovvero a giustificare la risoluzione del rapporto; apparirebbe dunque irragionevole riconoscere la tutela reintegratoria nella prima ipotesi, assicurando protezione all’interesse del lavoratore alla “continuità del rapporto”, e non anche nella seconda.
1.6.2.– Inoltre, il Tribunale di Catania prospetta la violazione degli artt. 2, 4, 35 e 36 Cost. per la irragionevole lesione che la disposizione dubitata arrecherebbe all’interesse del lavoratore alla continuità del rapporto, al suo legittimo affidamento a non essere assoggettabile a misure espulsive, al di fuori dai casi previsti dal proprio contratto di lavoro e dalla contrattazione collettiva ivi richiamata, a non essere vittima di atti irragionevoli, sproporzionati e lesivi della sua dignità, in violazione di beni giuridici non adeguatamente indennizzabili per equivalente.
1.6.3.– Ulteriori dubbi di legittimità sono individuati rispetto ai parametri di cui agli artt. 21, 24, 39, 40 e 41 Cost., per le conseguenze sull’assetto complessivo del rapporto di lavoro; la disposizione censurata provocherebbe uno squilibrio irragionevole ed eccessivo in danno della posizione del lavoratore, che dovrebbe poter esplicare la propria attività lavorativa senza temere ingiuste o dannose ripercussioni, quale è certamente quella di essere espulso dal proprio ambiente lavorativo, pur a fronte di violazioni disciplinari di scarsa entità.
All’interno del posto di lavoro il lavoratore dovrebbe essere in grado di esplicare pienamente le proprie prerogative costituzionali, quali il diritto di critica (art. 21 Cost.) o di denunzia (art. 24 Cost.), il diritto di sciopero (art. 40 Cost.), il diritto di esplicare liberamente attività sindacale ovvero di aderire ad iniziative di medesima natura (artt. 39 e 40 Cost.).
Al contrario, la facilità di estromissione dal posto di lavoro che la disposizione consente si rifletterebbe negativamente a danno anche di tali prerogative, ponendo il lavoratore in una posizione di smisurata soggezione psicologica nei riguardi del proprio datore di lavoro che, consapevole di poter subire solo una sanzione economica, potrebbe cogliere l’occasione per licenziare il dipendente semplicemente perché incline a rivendicare i propri diritti, a segnalare le eventuali inadempienze aziendali o ad esercitare con pienezza i propri diritti sindacali, laddove sono note le difficoltà sia sul piano probatorio che giuridico, di prospettare o dimostrare l’eventuale carattere ritorsivo dell’atto di recesso ovvero la sua natura discriminatoria.
1.6.4.– Il rimettente dubita, infine, della legittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 in riferimento all’art. 76 Cost., non apparendo autorizzata dalla legge delega la drastica limitazione della reintegra alla sola ipotesi dell’insussistenza del fatto, con esclusione dall’ambito di operatività di tale strumento dei casi in cui il fatto sia punibile con una sanzione conservativa, che sarebbe stata introdotta dal legislatore delegato esorbitando rispetto alle finalità della delega.
Lo scopo perseguito dal legislatore delegante non sarebbe stato quello di limitare oltremodo il diritto alla reintegra nei licenziamenti disciplinari, bensì quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro, di riordinare i contratti di lavoro, per renderli maggiormente coerenti con le esigenze del contesto occupazionale e produttivo, di rendere più efficiente l’attività ispettiva.
Tra le «specifiche fattispecie» che il legislatore delegato era chiamato a individuare non andavano incluse anche le ipotesi disciplinari riconducibili alle sanzioni conservative, perché la finalità della legge delega era verosimilmente solo quella di consentire al datore di lavoro di avere maggiore certezza in ordine alle possibili conseguenze del recesso, evitando che queste ultime fossero imprevedibili e, dunque, potessero incidere oltremodo ed ex post nell’assetto degli interessi economici dell’impresa.
2.– Con atto depositato il 22 gennaio 2024, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.
2.1.– L’Avvocatura generale, in primo luogo, quanto all’eccesso di delega rileva che il legislatore delegato si sarebbe attenuto alle indicazioni dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), limitando il diritto alla reintegra per tutte quelle ipotesi in cui il licenziamento appaia una misura sproporzionata rispetto alla gravità dell’illecito disciplinare imputabile al lavoratore.
Al contrario, qualora si accedesse alla soluzione proposta dal rimettente, dal momento che la disposizione già attribuisce il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro nelle ipotesi di insussistenza del fatto disciplinare contestato, casistica che comprende anche le situazioni in cui il fatto contestato è storicamente avvenuto, ma è privo di rilievo disciplinare, la tutela reale, lungi dall’essere limitata a specifiche fattispecie, diverrebbe il rimedio generalizzato per qualsiasi ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato, ciò in violazione del criterio di delega.
Né sarebbe praticabile la soluzione di distinguere ulteriormente, all’interno della categoria dei licenziamenti disciplinari sproporzionati, tra i casi in cui il giudizio di sproporzione discenda da un’opera di valutazione dei fatti operata dal giudice e quelli in cui ciò derivi dal giudizio di proporzionalità eseguito dalle parti sociali, attraverso la previsione del contratto collettivo, trattandosi di fenomeni del tutto omogenei, che non sarebbe lecito trattare diversamente, e rispetto ai quali i contratti collettivi si limitano a delineare una tipizzazione, sulla base del comune apprezzamento delle parti sociali, che sarebbe comunque rilevante per l’accesso alla tutela risarcitoria prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015.
2.2.– Quanto alle restanti questioni la difesa statale osserva che la norma non violerebbe il criterio della ragionevolezza in quanto, in presenza di condotte punite con sanzioni conservative, permarrebbe l’illegittimità del recesso del datore di lavoro, giustificato solo in presenza di illeciti disciplinari di sufficiente gravità (secondo la tipizzazione contenuta nel CCNL, ovvero sulla base della valutazione del giudice), seppure, nel rispetto della discrezionalità del legislatore, il rimedio previsto sarebbe quello indennitario e non quello reintegratorio, senza che il rimettente abbia spiegato per quale motivo tale sanzione non sarebbe dotata di una sufficiente deterrenza nei confronti del datore di lavoro.
Circa la violazione del principio di gradualità, evidenzia che il licenziamento sproporzionato resterebbe illegittimo seppure diversamente sanzionato, mentre la non fondatezza della censura di disparità di trattamento deriverebbe dall’eterogeneità della situazione assunta quale tertium comparationis.
2.3.– L’Avvocatura generale deduce inoltre che a fronte dell’insussistenza del fatto – ossia dell’illecito disciplinare, vale a dire di una condotta materiale del lavoratore ovvero di una condotta comunque qualificabile come contraria ai suoi doveri – il recesso del datore di lavoro finisce per avere il solo nomen di licenziamento per giusta causa, trovando evidentemente i suoi motivi in altre finalità, comunque non meritevoli di considerazione da parte dell’ordinamento; analoghe esigenze non sarebbero state rinvenute, né appaiono rinvenibili, nel licenziamento meramente “sproporzionato”, ferma restando la sua illiceità e la conseguente responsabilità del datore di lavoro sanzionata con un indennizzo adeguato.
Infine, quanto al rischio di licenziamenti ritorsivi, con pregiudizio della dignità e delle libertà del lavoratore, la difesa statale evidenzia che sono comunque disponibili gli strumenti che consentono di dichiarare la nullità di un licenziamento che abbia finalità discriminatoria o di rappresaglia, con tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 2 dello stesso d.lgs. n. 23 del 2015.
Motivi della decisione
1.– Con ordinanza del 20 novembre 2023 (reg. ord. n. 163 del 2023) il Tribunale di Catania, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 39, 40, 41 e 76 Cost., aventi ad oggetto la disciplina del licenziamento disciplinare dettata dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede (o non consente) che il giudice annulli il licenziamento, con le conseguenze già previste per l’ipotesi dell’insussistenza del fatto (tra cui il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro), laddove il fatto contestato, in base alle previsioni della contrattazione collettiva applicabile al rapporto, sia punibile solo con sanzioni di natura conservativa.
1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere dell’impugnazione di un licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente assunto a tempo indeterminato il 22 agosto 2022, con la qualifica di addetto al settore movimento merci, all’esito del mancato accoglimento delle giustificazioni dallo stesso addotte rispetto alla contestazione di tre distinti addebiti disciplinari.
1.2.– Il ricorrente nel giudizio a quo allegava di rivestire la carica di rappresentante sindacale aziendale e deduceva l’infondatezza dei tre fatti contestati, che si collocavano nell’ambito di una vicenda unitaria (lo stato di malattia iniziato il 27 settembre 2022 e conclusosi il 9 ottobre 2022), consistenti nel ritardo di due giorni nel giustificare l’assenza per malattia, nell’omessa comunicazione preventiva della prosecuzione dello stato di malattia e nell’essersi presentato sul luogo di lavoro in costanza di malattia per espletare degli incombenti relativi al suo ruolo di rappresentante sindacale.
1.3.– Il rimettente, in punto di rilevanza, dà atto che, a seguito dell’istruttoria testimoniale e documentale disposta nel corso del giudizio, era emerso che, dei tre fatti in contestazione, solo due apparivano assumere un rilievo disciplinare e che tali due addebiti risultavano punibili, ai sensi del CCNL applicato dalle parti, con sanzioni di tipo conservativo; rilevava altresì che, pacifica tra le parti l’applicazione del regime normativo di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, tenuto conto sia della data di assunzione del dipendente che del requisito dimensionale dell’azienda, a fronte della sussistenza di due fatti disciplinarmente rilevanti, la fattispecie non poteva essere ricondotta all’ambito applicativo del comma 2 dell’art. 3 citato, quanto piuttosto a quello del comma 1 del medesimo articolo, con conseguente esclusione della tutela reintegratoria richiesta dalla parte in via principale, per quanto tali fatti non fossero idonei a sorreggere l’atto di recesso in ragione delle stesse previsioni del CCNL di categoria.
1.4.– Dovendo fare applicazione dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, il Tribunale di Catania dubita della legittimità costituzionale del comma 2 della stessa disposizione nella parte in cui, accordando la reintegra nell’unico caso dell’insussistenza del fatto (materiale o giuridico) contestato, non ricomprende le ipotesi in cui il fatto, pur disciplinarmente rilevante, è punibile, in ragione della contrattazione collettiva di riferimento applicata dal datore di lavoro, con una sanzione conservativa, anche di modesta entità, e per le quali, sebbene non risulti compromesso il rapporto di fiducia, potrà operare la sola tutela economica con conseguente estinzione del rapporto.
1.4.1.– In particolare, con riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente deduce che la disposizione censurata tutelerebbe in modo ingiustificatamente differenziato situazioni omogenee, atteso che, anche nell’ipotesi della commissione di un fatto punibile solo con una misura conservativa, vi è una condotta inidonea a far venir meno il rapporto di fiducia tra le parti ovvero a giustificare la risoluzione del rapporto.
1.4.2.– Il contrasto con gli artt. 2, 4, 35 e 36 Cost. sarebbe invece imputabile alla irragionevole lesione della dignità del lavoratore sul posto di lavoro, quale formazione sociale ove questi esplica la propria personalità, del suo interesse alla continuità del rapporto, del suo diritto a non subire licenziamenti arbitrari e di condurre, attraverso la giusta retribuzione, un’esistenza libera e dignitosa.
1.4.3.– La disposizione censurata violerebbe poi gli artt. 21, 24, 39, 40 e 41 Cost., cagionando un irragionevole ed eccessivo squilibrio in danno della posizione del lavoratore mediante la compressione del pieno e libero esercizio delle sue prerogative lavorative e sindacali e il superamento del limite posto all’iniziativa privata che non può svolgersi in modo da compromettere la dignità della persona.
1.4.4.– Il giudice a quo deduce, infine, la violazione l’art. 76 Cost. perché l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, escludendo dall’ambito di operatività della reintegra le ipotesi in cui il fatto sia punibile con una sanzione conservativa, esorbita dagli scopi e dai criteri previsti dalla legge delega che ha demandato al legislatore delegato non già la drastica riduzione della tutela reintegratoria a un’unica fattispecie, ma solo la sua limitazione a specifiche ipotesi.
2.– La difesa statale non ha proposto alcuna eccezione preliminare, né sussistono profili di inammissibilità da sollevare d’ufficio.
Quanto alla rilevanza, gli elementi descrittivi in merito al procedimento principale e al contesto fattuale in cui è stato intimato il licenziamento, oggetto del giudizio principale, risultano sufficienti a mostrare l’applicabilità della disposizione censurata (ex plurimis, sentenze n. 22 e n. 7 del 2024, n. 152 e n. 59 del 2021).
Il rimettente ha giustificato la necessità di fare applicazione del regime sanzionatorio indennitario previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in una ipotesi di licenziamento intimato sulla base di due fatti disciplinarmente rilevanti e sussistenti, ma non idonei a fondare l’atto di recesso perché puniti con sanzioni conservative alla stregua delle stesse previsioni della CCNL di categoria applicabile al rapporto. Pertanto, il licenziamento disciplinare doveva considerarsi illegittimo, ma la tutela del lavoratore non poteva essere ricondotta all’ambito applicativo di quella reintegratoria del comma 2 dell’art. 3 citato, essendo operante solo la tutela indennitaria di cui al comma 1 della medesima disposizione.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali, a suo giudizio, la disposizione censurata sarebbe suscettibile dei sollevati dubbi di legittimità costituzionale. Altresì ha escluso la possibilità di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, ritenendo chiara la formulazione della disposizione censurata, nel senso di escludere la tutela reintegratoria anche in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo basato su fatti sussistenti sì, ma inidonei, secondo la preventiva valutazione delle parti sociali contenuta nella contrattazione collettiva, a giustificare la massima sanzione espulsiva.
3.– Prima di esaminare il merito delle questioni, è opportuno richiamare in premessa, per le linee generali, il quadro normativo di riferimento.
3.1.– La nozione di licenziamento disciplinare trova la sua storica conferma nella sentenza di questa Corte n. 204 del 1982, che ha esteso le garanzie dettate dall’art. 7, secondo e terzo comma, statuto lavoratori a tutti i licenziamenti fondati su un inadempimento del lavoratore; la definizione è stata, poi, recepita nella legge n. 92 del 2012, che, all’art. 1, comma 41, regola gli effetti del licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare.
Il tratto comune delle causali giustificative del licenziamento disciplinare è il notevole inadempimento del lavoratore agli obblighi contrattuali, nelle due varianti, essenzialmente quantitative, del giustificato motivo soggettivo ex art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e della giusta causa «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» (art. 2119 cod. civ.).
3.2.– La natura “ontologica” del licenziamento disciplinare costituisce ormai ius receptum: il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione, o meno, tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare, con conseguente assoggettamento alle garanzie dettate in favore del lavoratore dall’art. 7, secondo e terzo comma, statuto lavoratori, circa la contestazione dell’addebito e il diritto di difesa, nonché, per il caso in cui le parti si siano avvalse legittimamente della facoltà di prestabilire quali fatti e comportamenti integrino l’indicata condotta giustificativa del recesso, anche di quella della preventiva pubblicità di siffatte previsioni prescritta dal primo comma.
La valutazione di gravità è frutto di un giudizio complesso, che si relaziona, da un lato, alla portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro lato, alla proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
4.– Come evidenziato da questa Corte nella coeva sentenza n. 128 del 2024, resa in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per anni il contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro è stato operato per mezzo di due forme di garanzia, condizionatamente al ricorrere di un livello occupazionale minimo del medesimo datore (almeno quindici lavoratori occupati nell’unità produttiva o sessanta nel complesso): a) la cosiddetta tutela indennitaria (o “obbligatoria”), prevista originariamente dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, per le imprese sotto soglia; b) la cosiddetta tutela reintegratoria (o “reale”), prevista dall’art. 18 statuto lavoratori, per le imprese sopra soglia.
4.1.– Con il passaggio dal regime originario dell’art. 18 statuto lavoratori a quello novellato dalla legge n. 92 del 2012, il sistema generalizzato, che vedeva la tutela reintegratoria applicata in ogni caso, è stato sostituito da uno “misto”, che combina due ipotesi in cui opera ancora la reintegrazione, piena o “attenuata”, e due ipotesi in cui vige solo la tutela indennitaria, più o meno estesa (sentenze n. 44, n. 22 e n. 7 del 2024).
Il frazionamento delle tutele viene confermato dal d.lgs. n. 23 del 2015 che, nel tracciare un diverso perimetro delle aree di tutela, restringe l’ambito applicativo della reintegra “attenuata” e amplia in modo corrispondente quello riservato all’indennizzo “forte”.
4.2.– Il riavvicinamento tra le due discipline – iniziato con il venir meno dell’automatismo di calcolo dell’indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23 del 2015 (a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 194 del 2018) e la abrogazione del rito speciale contemplato dalla legge n. 92 del 2012 per effetto dell’art. 37, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata) – si è accentuato all’esito della sentenza n. 22 del 2024 che, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 limitatamente alla parola «espressamente», quanto alla fattispecie del licenziamento nullo ha rimosso il restringimento della tutela reintegratoria alle nullità espresse (sentenza n. 44 del 2024).
5.– A partire dalla riforma del 2012 l’individuazione del vizio dell’atto di recesso illegittimo è divenuto un passaggio interpretativo fondamentale per individuare le tutele da riconoscere al lavoratore illegittimamente licenziato.
5.1.– Limitata la disamina al licenziamento disciplinare, che rileva ai fini delle censure in esame, nel disegno riformatore della legge n. 92 del 2012, la tutela reintegratoria piena è riservata all’ambito della nullità e della discriminazione, mentre per le imprese sopra-soglia la tutela reintegratoria nella forma attenuata viene riconosciuta ai licenziamenti disciplinari nelle due evenienze ritenute più gravi, quelle cioè in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per l’insussistenza del fatto contestato, ovvero perché il fatto contestato è riconducibile fra le condotte suscettibili di sanzioni solo conservative in base alle previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare applicabili.
Ai sensi dell’art. 18, quarto comma, statuto lavoratori, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, il regime applicabile ai licenziamenti intimati dopo il 18 luglio 2012 è quello della reintegrazione cosiddetta attenuata (reintegra e indennità risarcitoria non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto); il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, applica invece la disciplina di cui al quinto comma (cioè la cosiddetta tutela indennitaria “forte” pari ad un’indennità risarcitoria omnicomprensiva tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).
5.2.– La linea di demarcazione tra l’area della tutela reintegratoria e quella della tutela solo compensativa è stata nuovamente modificata dal d.lgs. n. 23 del 2015, che ha introdotto un distinto regime di tutela in caso di illegittimità del licenziamento per i lavoratori assunti con il contratto di lavoro a tutele crescenti, quindi necessariamente in data successiva alla sua entrata in vigore (7 marzo 2015).
Per i “nuovi assunti” la tutela reintegratoria è stata ulteriormente ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo ed è stata del tutto eliminata in ipotesi di licenziamento “economico”, ossia per giustificato motivo oggettivo o collettivo.
Secondo l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nei casi in cui risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, da determinarsi secondo i criteri dettati da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2018, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità, come rideterminata dalla novella di cui al decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96.
Ai sensi del comma 2 dello stesso art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria che non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
L’ambito di applicazione della tutela reale è riservata all’ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato, con espressa esclusione dei casi in cui l’illegittimità del licenziamento risieda esclusivamente nel difetto di proporzionalità della misura espulsiva adottata dal datore di lavoro rispetto all’effettiva gravità della condotta posta in essere dal dipendente; all’area di operatività della tutela indennitaria sono invece ricondotte anche le ipotesi in cui l’inadeguatezza del licenziamento discende dall’esistenza di una previsione contrattuale che, per quel tipo di addebiti, esclude il potere del datore di lavoro di recedere dal rapporto.
6.– Il giudice rimettente censura il mancato riconoscimento della tutela reintegratoria quando, per l’inadempienza del lavoratore contestata dal datore di lavoro, che si riveli “sussistente”, sia la stessa contrattazione collettiva a prevedere una sanzione conservativa.
Si verte in questi casi non già in ipotesi di «insussistenza del fatto», perché è pacifico che la ragione di inadempimento esista, bensì di un radicale difetto di proporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto alla violazione disciplinare allegata dal datore di lavoro, per la quale la contrattazione collettiva prevede solo una sanzione conservativa.
6.1.– La distinzione tra un licenziamento intimato per una causa o un motivo soggettivo “ingiustificati” e un licenziamento intimato per una causa o un motivo soggettivo fondati su un fatto materiale “insussistente” non aveva avuto alcuna ricaduta sul sistema sanzionatorio fino al 2012.
Per i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 la categoria della “insussistenza” acquista per la prima volta autonoma rilevanza rispetto a quella della “ingiustificatezza”; essa, vuoi per la ragione disciplinare, vuoi per quella d’impresa, resta l’unica meritevole della tutela reintegratoria.
All’esito delle modifiche apportate all’art. 18 statuto lavoratori il criterio della necessaria importanza dell’inadempimento risulta decisivo solo ai fini della valutazione di legittimità, o meno, del licenziamento, mentre la reintegrazione resta consentita limitatamente alle ipotesi in cui l’illegittimità del recesso è maggiormente evidente e dunque là dove il fatto addebitato non sussista, ovvero nel caso in cui quel fatto sia punito dalla disciplina collettiva applicabile con una sanzione conservativa.
6.2.– Il nuovo criterio di graduazione si rivela da subito di complessa interpretazione.
Quanto al «fatto contestato», dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza di legittimità si è progressivamente consolidata su una nozione che, valorizzando il richiamo alla contestazione, e, quindi, alla rilevanza disciplinare della condotta, attrae nella tutela reintegratoria tutte le ipotesi in cui sia da escludere in radice un inadempimento, anche sotto il profilo soggettivo, perché la condotta non è accompagnata dalla necessaria coscienza e volontà oppure è stata tenuta in un contesto in relazione al quale nessun addebito può essere mosso al lavoratore.
L’insussistenza del «fatto contestato» comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare, quanto al profilo oggettivo ovvero a quello soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente, e dunque il fatto, pur sussistente, sia privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica e quindi sia sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 10 maggio 2018, n. 11322 e 26 maggio 2017, n. 13383, ordinanza 7 febbraio 2019, n. 3655).
La difficoltà di ricondurre al fatto anche il giudizio di proporzionalità fondato sull’art. 2106 cod. civ., è stata stemperata con il consolidarsi di altro orientamento favorevole all’apertura alle clausole generali in merito all’ampiezza del rinvio operato dall’art. 18, quarto comma, statuto lavoratori, alle previsioni della contrattazione collettiva e dei codici disciplinari.
L’interpretazione più restrittiva – che limitava l’accesso alla tutela reale ai casi in cui la valutazione di proporzionalità, fra sanzione conservativa e fatto contestato, fosse tipizzata dalla contrattazione collettiva (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 luglio 2019, n. 19578; 20 maggio 2019, n. 13533 e 9 maggio 2019, n. 12365) – è stata oggetto di una successiva rimeditazione, oggi consolidata sino ad assurgere al rango di diritto vivente.
A partire da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 aprile 2022, n. 11665, si è infatti affermato che in caso di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dal novellato art. 18, quarto e quinto comma, statuto lavoratori, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, senza che detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmodi nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come recepito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (successivamente, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 3 gennaio 2024, n. 107; 28 giugno 2022, n. 20780 e 26 aprile 2022, n. 13063).
6.3.– L’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 apre, infine, un’ulteriore fase per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015: dall’“insussistenza” del motivo soggettivo viene espunta la valutazione di proporzionalità del licenziamento rispetto alla inadempienza contestata al lavoratore, mentre sul versante del motivo economico l’“insussistenza” viene del tutto equiparata all’“ingiustificatezza” e la tutela reale è esclusa del tutto.
Due le innovazioni di assoluto rilievo in tema di licenziamento disciplinare: la qualificazione del fatto come «materiale» e l’espressa esclusione, ai fini dell’individuazione del fatto rilevante per la selezione della tutela applicabile, del giudizio di proporzionalità con la conseguente eliminazione del riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva.
7.– Passando al merito delle questioni, deve essere esaminata, in via logicamente preliminare, quella sollevata in riferimento all’art. 76 Cost.
7.1.– Nella prospettazione del giudice rimettente l’eccesso di delega riguarderebbe la compatibilità della scelta di consentire la reintegra nell’unica fattispecie prevista dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla legge delega n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act), il cui art. 1, comma 7, lettera c), dispone, come visto, che la tutela reintegratoria venga limitata a specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare.
7.2.– La questione non è fondata.
Il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge delega, in continuità con la costante giurisprudenza costituzionale, va operato partendo dal dato letterale, per poi, a fronte di elementi testuali eventualmente suscettibili di divergenti letture, procedere ad una indagine sistematica e teleologica volta a verificare se l’attività del delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015 e n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016), senza contrastare con gli indirizzi generali desumibili da questa (sentenze n. 229 del 2014 e n. 272 del 2012); occorre, comunque, tener conto «del grado di specificità dei principi e criteri direttivi e della maggiore o minore ampiezza dell’oggetto della delega» e che «la loro interpretazione deve muovere, innanzi tutto, dalla “lettera” del testo normativo, a cui si affianca l’interpretazione sistematica sulla base della ratio legis, emergente dal contesto complessivo della legge di delega e dalle finalità che essa persegue (sentenze n. 22 e n. 7 del 2024)» (sentenza n. 96 del 2024).
7.3.– Sullo scopo della legge di delega n. 183 del 2014, nel senso di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi assunti”, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela risarcitorio-monetaria predeterminata, e quindi alleggerendo le conseguenze di un licenziamento illegittimo, questa Corte si è ampiamente espressa nella sentenza n. 44 del 2024, ove ai punti 6 e 7 del Considerato in diritto si afferma che «[l]’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, nel contesto di un ampio intervento in materia di diritto del lavoro e del sistema di previdenza e assistenza sociale, ha delegato il Governo ad adottare, in particolare, un “testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro” e a tal fine ha indicato sia la finalità perseguita, sia specifici principi e criteri direttivi. Lo “scopo” complessivo, avuto di mira dal legislatore, è stato quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo».
7.4.– Prevedendo l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge delega che la tutela reintegratoria dovesse essere prevista solamente per «specifiche» fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nel prefigurare la reintegrazione solamente nel caso della insussistenza del fatto materiale il legislatore delegante si è posto nel solco dei principi e dei criteri direttivi fissati dal legislatore delegante e delle finalità che lo hanno ispirato, con ciò rispettando il carattere di residualità che la legge delega ha inteso riconoscere alla tutela ripristinatoria.
Né può sostenersi che la contraddizione deriverebbe dall’utilizzazione del plurale («specifiche fattispecie»).
Per favorire l’occupazione dei “nuovi assunti” mediante la riduzione dell’area della reintegrazione, il legislatore delegato non aveva l’obbligo, ma solamente la facoltà di prevedere una molteplicità di categorie di vizi di licenziamento disciplinare cui ricollegare la reintegrazione; se il criterio direttivo principale era quello di invertire l’ordine di grandezza dell’ambito applicativo rendendo recessiva la tutela ripristinatoria rispetto a quella indennitaria, la limitazione ad un’unica fattispecie non solo non eccede la delega quanto alla “lettera” del dato normativo, ma opera all’interno di essa in coerenza con le finalità che la stessa perseguiva.
8.– Proseguendo nell’esame del merito, le questioni che investono la disposizione censurata (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015) sono sollevate in riferimento a ulteriori plurimi parametri (artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40 e 41 Cost.), che possono essere esaminati congiuntamente perché le dedotte violazioni degli stessi convergono verso un’unica censura di fondo: sarebbe costituzionalmente illegittima la mancata previsione, nella fattispecie, della tutela reintegratoria del lavoratore illegittimamente licenziato, potendo farsi applicazione solo della tutela indennitaria.
Le questioni non sono fondate.
8.1.– Si è già ricordato che oggetto di impugnazione nel giudizio principale è un licenziamento disciplinare o per colpa; tale è quello fondato su una dedotta “giusta causa” (ex art. 2119 cod. civ.), risultante da una inadempienza «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto», oppure su un “giustificato motivo” soggettivo (ex art. 3 della legge n. 604 del 1966), consistente in «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro».
La natura “disciplinare” del recesso datoriale implica innanzi tutto il rispetto delle regole formali e procedurali di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, che richiama in particolare le garanzie previste dall’art. 7 statuto lavoratori. Tra queste, la garanzia procedimentale più importante consiste nell’«osservanza del contraddittorio tra datore e lavoratore quale indefettibile regola di formazione delle misure disciplinari» (così la già citata sentenza n. 204 del 1982, che ha esteso le garanzie dettate dal secondo e terzo comma di tale disposizione a tutti i licenziamenti che presuppongono un inadempimento del lavoratore e che pertanto sono “ontologicamente” disciplinari).
Sul piano sostanziale – che è quello rilevante in questo giudizio di legittimità costituzionale – la natura “disciplinare” del recesso datoriale comporta l’applicabilità del canone generale della proporzionalità, secondo cui l’inadempimento del lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto. Il licenziamento è sempre una “extrema ratio”, sicché è giustificato, e quindi legittimo, solo se proporzionato alla gravità dell’addebito contestato e accertato in giudizio. Il principio di proporzionalità con riferimento al licenziamento del lavoratore costituisce ormai un acquis del diritto vivente, più non messo in discussione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 11665 del 2022; analogamente, sentenze di questa Corte n. 123 del 2020 e n. 194 del 2018). Esso è, in fondo, una proiezione del più generale principio di proporzionalità che pervade il diritto punitivo, penale e non (recentemente, sentenza n. 46 del 2024), e che trova un riscontro positivo anche nella disciplina civilistica dell’inadempimento, il quale, per essere rilevante al fine della risoluzione del rapporto, non deve essere di scarsa importanza, come previsto in generale dall’art. 1455 cod. civ.
Nella fattispecie in esame, non è in discussione l’applicazione di tale principio, né è dubbio che la sua violazione comporti che la causa del recesso datoriale non sia “giusta” (art. 2119 cod. civ.) o che il motivo soggettivo dello stesso non sia “giustificato” (art. 3 della legge n. 604 del 1966): il licenziamento, ove il giudice ritenga il difetto di proporzionalità, è certamente illegittimo.
Le questioni sollevate dal giudice rimettente concernono, invece, le conseguenze di tale illegittimità: se può egli, in tale evenienza, ordinare la reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro ai sensi del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, come richiesto dal ricorrente in giudizio, oppure se debba limitarsi solo ad accordare la tutela indennitaria prevista dal comma 1 dell’art. 3.
8.2.– La valutazione di proporzionalità del licenziamento, quanto alle conseguenze in termini di tutela reintegratoria o solo indennitaria, ha trovato – come si è già rilevato sopra – una regolamentazione significativamente diversa nella legge n. 92 del 2012 e nel d.lgs. n. 23 del 2015, in attuazione della legge delega n. 183 del 2014. Ciò è rilevante ancora nell’attualità perché la disciplina della legge n. 92 del 2012 continua ad applicarsi ai lavoratori in servizio alla data del 7 marzo 2015, mentre la regolamentazione del d.lgs. n. 23 del 2015 opera per i lavoratori assunti a partire da tale data; la quale quindi costituisce lo spartiacque tra una disciplina ad esaurimento ed una a regime in progressiva estensione (sentenza n. 44 del 2024).
La legge n. 92 del 2012 – che ha frazionato i regimi di protezione del lavoratore nei confronti del licenziamento illegittimo prevedendo due ipotesi di tutela reintegratoria (piena ed attenuata) ed altrettante di tutela indennitaria (di maggiore o minore contenuto) – accorda, in particolare, la tutela reintegratoria attenuata «nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (art. 18, quarto comma, statuto lavoratori, come novellato).
La rilevanza che tale disposizione assegna alle previsioni dei contratti collettivi non solo è coerente con la generale operatività del principio di proporzionalità, ma anche implica che il contenuto dello stesso possa essere declinato dalla contrattazione collettiva e che il giudice debba tenerne conto, con la conseguenza che la violazione di quest’ultima comporta, per il lavoratore illegittimamente licenziato, la tutela reintegratoria attenuata.
8.3.– In seguito, intervenendo anche su tale aspetto della disciplina dei licenziamenti, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 ha contemplato la tutela reintegratoria attenuata in un ambito più ristretto, ossia «[e]sclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».
Il legislatore delegato, nel rispetto della legge di delega (come si è già riconosciuto sopra), ha individuato proprio nel licenziamento fondato su un “fatto materiale insussistente” le «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato», alle quali trova tuttora applicazione la tutela reintegratoria, ancorché nella forma attenuata.
Quindi, quanto al licenziamento disciplinare, la “specifica fattispecie” conservata nell’area della tutela reale è quella del recesso datoriale fondato, appunto, su un “fatto materiale insussistente”. Se l’addebito contestato al lavoratore risulta insussistente all’esito del giudizio di impugnazione del licenziamento, il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore, illegittimamente licenziato, nel posto di lavoro. Ma se, al contrario, l’addebito contestato risulta provato, non rileva più, a tal fine, la «valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Il licenziamento potrà risultare “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore – e quindi, sotto questo profilo, illegittimo – ma la tutela sarà quella indennitaria del comma 2 dell’art. 3 citato.
8.4.– Orbene, in generale, questa Corte ha più volte affermato – e qui ribadisce – che la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, che sia compatibile con la garanzia costituzionale del lavoro (art. 35 Cost.); il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva (sentenza n. 7 del 2024). Questa Corte ha, infatti, sottolineato che la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenze n. 125 del 2022; n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000), in quanto «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (sentenza n. 254 del 2020).
Occorre però che la tutela sia comunque adeguata e sufficientemente dissuasiva.
Tuttavia – ha precisato questa Corte (sentenza n. 7 del 2024) – «l’adeguatezza e sufficiente dissuasività del sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un indennizzo senza tetto massimo) per i casi di più gravi violazioni, quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo il più incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020».
Siffatta valutazione di adeguatezza e sufficiente dissuasività va qui ribadita considerando l’apparato complessivo di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo, quale contenuto nel d.lgs. n. 23 del 2015, successivamente novellato dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito, ed emendato da pronunce di questa Corte. Esso prevede la tutela reintegratoria piena in caso di licenziamento nullo (non solo in caso di nullità espresse: sentenza n. 22 del 2024) o discriminatorio; la tutela reintegratoria attenuata ove il licenziamento (non solo quello disciplinare, ma anche quello per giustificato motivo oggettivo: sentenza n. 128 del 2024) si fondi su un “fatto insussistente”; la tutela indennitaria estesa fino anche a trentasei mensilità di retribuzione in caso di difetto di giusta causa o di giustificato motivo (sentenza n. 194 del 2018) o fino a dodici mensilità in caso di vizi formali o procedurali (sentenza n. 150 del 2020).
In definitiva, anche se a seguito del d.lgs. n. 23 del 2015 si è ridotta – per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 – l’area della tutela reintegratoria rispetto alla disciplina posta dalla legge n. 92 del 2012, e ancor più rispetto a quella precedente della generale tutela reintegratoria (art. 18 statuto lavoratori, nel testo vigente fino alla modifica di cui alla citata legge n. 92 del 2012), rimane, nel complesso, un ancora sufficiente grado di adeguatezza e dissuasività del regime di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo e non si è raggiunta la soglia oltre la quale una carente disciplina di contrasto del licenziamento illegittimo entrerebbe in frizione con la tutela costituzionale del lavoro (artt. 1, 4 e 35 Cost.).
Del resto adeguatezza e dissuasività sono requisiti che questa Corte ha già ritenuto sussistenti in riferimento all’indennità di cui all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia per i licenziamenti individuali (sentenza n. 194 del 2018), che per i licenziamenti collettivi (sentenza n. 7 del 2024), anche in una prospettiva temporale, posto che il fluire del tempo giustifica l’applicazione di un trattamento differenziato a situazioni analoghe quando sia rispettato il canone della ragionevolezza.
Nella citata sentenza n. 194 del 2018, richiamata dalla sentenza n. 7 del 2024, si ricorda come sia stato più volte affermato, in occasione dell’esame di disposizioni introduttive di forfetizzazioni legali limitative del risarcimento del danno, che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)».
Il giudizio di adeguatezza del meccanismo risarcitorio forfetizzato utilizzato dal d.lgs. n. 23 del 2015, una volta superata la rigidità collegata all’anzianità ad opera della sentenza n. 194 del 2018, si fonda proprio sulla sua idoneità a realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto, che nella specie non possono che individuarsi in quelli del lavoratore da un lato e dell’impresa, e per essa del datore di lavoro, dall’altro; a giudizio di questa Corte l’indennizzo previsto dal comma 1 della disposizione censurata è stato strutturato come un rimedio con adeguata efficacia deterrente in cui alla funzione riparatoria si affianca quella dissuasiva e sanzionatoria.
Anche quanto alla compatibilità costituzionale dei limiti quantitativi posti dal d.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte ha già riconosciuto (sentenze n. 7 del 2024 e n. 194 del 2018) che il limite massimo dell’indennità (elevato a trentasei mensilità dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito) non si pone in contrasto con la nozione costituzionale di “adeguatezza” del risarcimento, la quale impone che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto.
Di qui la non fondatezza delle sollevate questioni con riferimento a tutti gli evocati parametri.
9.– L’ulteriore questione sollevata con riferimento all’art. 39 Cost. presenta profili di particolarità.
La questione non è fondata nei termini che seguono.
9.1.– Il giudice rimettente, pur svolgendo considerazioni di carattere più generale, focalizza le proprie censure in riferimento al caso specifico, oggetto del giudizio principale: quello di un licenziamento disciplinare fondato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevede una sanzione solo conservativa.
Se la lettura della disposizione censurata fosse nel senso che, anche in questa particolare ipotesi, rimane «estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», sì che la tutela dovrebbe essere solo indennitaria, allora le censure del giudice rimettente, riferite alla denunciata violazione dell’art. 39 Cost., avrebbero, in effetti, fondamento.
La previsione a opera della contrattazione collettiva di sanzioni solo conservative implica la preclusione della sanzione espulsiva, qual è il licenziamento. È possibile che l’inadempimento del lavoratore in ordine a obbligazioni strumentali, quali nella specie l’obbligo di comunicare tempestivamente la giustificazione dello stato di malattia, sussistente e certificato come impeditivo della prestazione lavorativa, sia qualificato dalle parti del rapporto, alle quali il contratto collettivo si applica, come di gravità contenuta e che la graduazione delle sanzioni irrogabili sia espressamente prevista nell’ambito di quelle solo conservative.
Altrimenti detto, le parti possono prevedere che specifiche inadempienze del lavoratore siano qualificate, dalla contrattazione collettiva applicabile al rapporto, come meno gravi e, perciò, siano reprimibili con sanzioni solo conservative e non già con il licenziamento, il quale, se intimato, risulterebbe convenzionalmente “sproporzionato”.
Una disposizione di legge che si sovrapponesse a questa valutazione circa la sproporzione del licenziamento comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva, il cui ruolo essenziale nella disciplina del rapporto di lavoro, privato e pubblico, è stato più volte riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 53 del 2023, n. 153 del 2021, n. 257 del 2016 e n. 178 del 2015).
9.2.– Però ciò non accade se si accoglie un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, orientata alla conformità all’evocato parametro (art. 39 Cost.).
Infatti, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (sentenza n. 42 del 2017), potendo questa Corte indicarne l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità a Costituzione, sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 41 e n. 36 del 2024, n. 183, n. 105, n. 46 e n. 10 del 2023).
Come evidenziato, da ultimo, nella sentenza n. 96 del 2024, «[l]’interpretazione adeguatrice, quando operata da questa Corte, rappresenta l’esito della valutazione delle censure di legittimità costituzionale mosse dal giudice a quo e quindi ha una valenza e portata peculiari rispetto all’ordinaria esegesi del giudice comune».
Può allora considerarsi che, per un verso, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015 non contiene, in realtà, alcun riferimento testuale alle «previsioni dei contratti collettivi», richiamate invece espressamente dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012 che, nel novellare il quarto comma dell’art. 18 statuto lavoratori, ha dato rilevanza alla valutazione convenzionale di proporzionalità quanto alle sanzioni applicabili per inadempienze del lavoratore. Non vi è quindi – nell’art. 3, comma 2 – un’esclusione espressa di tale rilevanza. E anzi rileva che la finalità della legge di delega è stata non già quella di sovrapporre la legge alla contrattazione collettiva, ma di contrastare una interpretazione di “sproporzione” lata al punto da rendere sufficiente che la contrattazione collettiva preveda genericamente che il licenziamento possa essere intimato per i fatti “più gravi”, per comportare l’applicabilità della tutela reintegratoria.
Per l’altro verso, rimane la generale previsione dell’art. 30, comma 3, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), secondo cui «[n]el valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi». E la tipizzazione può ricorrere anche al negativo, nel senso che la contrattazione collettiva può stabilire, con riferimento a specifiche ipotesi, ciò che non può costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.
E allora, la disposizione censurata può – e deve – essere letta nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento, il cui difetto è attratto all’ambito della tutela solo indennitaria del licenziamento illegittimo, ha sì una portata ampia, tale da comprendere anche le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento, come clausola generale ed elastica, non diversamente dalla legge, allorché questa richiede che il licenziamento si fondi su una giusta causa o un giustificato motivo e ne definisce la nozione. Essa non concerne, però, anche le particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative. In tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un ¿fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata.
9.3.– La mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti.
Le previsioni della contrattazione collettiva sono espressione dell’autonomia negoziale di entrambe le parti, sì che la predeterminazione della sanzione conservativa consente al datore di lavoro di conoscere in anticipo la gravità di specifiche inadempienze del lavoratore e quindi di adeguare ex ante il provvedimento disciplinare senza correre il rischio di dover subire l’alea di un successivo giudizio di proporzionalità; se la ratio del ridimensionamento della rilevanza del sindacato di proporzionalità, recato dal d.lgs. n. 23 del 2015, è anche quella di garantire maggiore certezza, tale finalità risulta ampiamente soddisfatta dalla puntuale tipizzazione operata della contrattazione collettiva.
Non è quindi contraddetto il ridimensionamento della tutela reintegratoria in caso di licenziamento disciplinare, che rimane pur lasciando fuori dall’esclusione della valutazione di proporzionalità l’ipotesi dello specifico fatto, disciplinarmente rilevante, che la contrattazione collettiva preveda come suscettibile di una sanzione solo conservativa.
Rimane altresì la simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata da questa Corte nella sentenza n. 128 del 2024 sulla linea del “fatto materiale insussistente”, lungo la quale c’è il riallineamento delle due fattispecie di licenziamento, anche se il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo per un fatto assai lieve, tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione specifica, si collochi al di qua di quella linea e ricada anch’esso nella tutela reintegratoria attenuata.
E tale interpretazione si impone ai fini dell’adeguamento al parametro costituzionale evocato dal rimettente.
10.– In conclusione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., va dichiarata non fondata (punto 7 e seguenti); parimenti non fondate sono le questioni sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40 e 41 Cost. (punto 8 e seguenti); la questione sollevata in riferimento all’art. 39 Cost. va dichiarata non fondata nei termini sopra indicati (punto 9 e seguenti).
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 40, 41 e 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 39 Cost., dal Tribunale ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.