Così si esprime la Consulta con la sentenza n. 2/2022, evidenziando che il questore non può autonomamente disporre la misura di prevenzione poiché il provvedimento incide sulla libertà di comunicazione tutelata dall'art. 15 Cost..
Dichiarato incostituzionale l'
Le questioni di legittimità costituzionale erano state sollevate dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sassari per violazione dell'
Come si legge nella sentenza, anche se le limitazioni inerenti all'uso di un determinato mezzo non si convertono per forza in restrizioni al diritto fondamentale che l'impiego di quel mezzo consente di soddisfare, nel caso specifico la disciplina restrittiva avente ad oggetto il telefono cellulare «finisce per penetrare all'interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione».
Corte costituzionale, sentenza (ud. 20 dicembre 2022) 12 gennaio 2023, n. 2
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza dell’11 marzo 2021 (reg. ord. n. 164 del 2021), il Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 15 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 4, e 76 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 13), nella parte in cui prevedono che, con l’avviso orale, il questore possa imporre a coloro che sono stati definitivamente condannati per delitti non colposi il divieto di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente» e, dunque, anche i telefoni cellulari.
Il giudice a quo riferisce di doversi pronunciare sulla responsabilità penale di A. L, imputato del reato di cui all’art. 76, comma 2, cod. antimafia, per essere stato colto in possesso di un telefono cellulare, nonostante nei suoi confronti fosse stato emesso avviso orale con imposizione dei divieti previsti dall’art. 3, comma 4, cod. antimafia, tra i quali, appunto, quello «di possedere o utilizzare, in tutto o in parte, qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente».
1.1.– Il Tribunale di Sassari si sofferma innanzitutto sul significato della locuzione «apparato di comunicazione radiotrasmittente».
Premesso che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, coinciderebbe «nella sostanza precettiva» con l’abrogato art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), a suo giudizio tale locuzione sarebbe stata introdotta nell’ordinamento in un’epoca in cui gli apparecchi radiotrasmittenti si connotavano quali strumenti «di tipo eccezionale e militare (walkie talkie)», il cui utilizzo, «raro» e «inusuale», era allora tipicamente volto alla commissione di reati. Una tale caratterizzazione, del resto, ancora oggi accomunerebbe altre categorie di dispositivi che possono essere oggetto del divieto in esame, tra cui i «radar e visori notturni» o i «mezzi di trasporto blindati», la cui finalità d’uso sarebbe rimasta immutata nel tempo.
Nell’ordinanza di rimessione viene quindi sottolineato come l’utilizzo del telefono cellulare, il cui funzionamento è basato sulla tecnologia della trasmissione di onde radio, sia ormai diventato talmente comune da soppiantare la comunicazione telefonica via cavo: il potere inibitorio del questore, pertanto, avrebbe acquisito col tempo la capacità di incidere su mezzi di comunicazione del tutto ordinari.
Ciò posto, il rimettente muove dal presupposto che il telefono cellulare debba essere incluso nella nozione di «apparato di comunicazione radiotrasmittente», di cui alla disposizione censurata, condividendo l’impostazione abbracciata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, anche di recente, avrebbe interpretato in questo senso la formula normativa (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551).
Il giudice rimettente evidenzia, a questo proposito, che una diversa interpretazione non sarebbe consentita dal dato testuale: il telefono cellulare, infatti, costituirebbe «tecnologicamente un apparato radio trasmittente», operando grazie al collegamento via radio con stazioni capaci di ricevere e trasmettere onde elettromagnetiche.
1.2.– Su queste premesse, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui «consente al solo questore, e non all’autorità giudiziaria, di inibire qualunque mezzo di comunicazione radiotrasmittente, e quindi l’uso del telefono cellulare».
1.3.– In punto di rilevanza, il rimettente osserva che si contesta a A. L. la violazione di un provvedimento di divieto dettagliatamente motivato, con riguardo sia ai numerosi reati contro il patrimonio commessi dall’imputato, sia alla finalità della prescrizione, sicché non sarebbe possibile, attraverso la disapplicazione di tale atto, giungere ad una pronuncia di proscioglimento.
L’esito del giudizio, quindi, sarebbe evidentemente condizionato dalla soluzione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, che attribuisce al questore il suddetto potere inibitorio.
1.4.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo sospetta, in primo luogo, il contrasto con l’art. 15 Cost., che consente limitazioni alla libertà e alla segretezza di ogni forma di comunicazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria».
In quest’ottica, la facoltà di impugnare il provvedimento del questore davanti a un’autorità giurisdizionale, prevista dall’art. 3, comma 6, cod. antimafia, sarebbe un rimedio insufficiente, perché l’art. 15 Cost. imporrebbe l’intervento giurisdizionale nel «momento genetico» della limitazione della libertà di comunicazione e non in un momento successivo, mentre l’avviso orale è «immediatamente efficace, anche in pendenza dei termini di impugnazione».
A sostegno della dedotta violazione dell’art. 15 Cost., il giudice a quo evidenzia altresì che, oggi, la libertà di comunicazione tra persone che si trovino a distanza non potrebbe prescindere dal ricorso ad apparecchi radiotrasmittenti, tra cui rientrerebbero non solo i telefoni cellulari, ma anche i tablet, gli smartwatch e gli «apparati pc», nonché la comunicazione domotica, che pure funziona via radio.
Il Tribunale rimettente pone poi in rilievo come l’inibizione all’utilizzo del telefono cellulare comporterebbe un sacrificio del diritto di comunicare che, per il legislatore del 1956, sarebbe stato inimmaginabile, tenuto anche conto dell’incidenza dell’emergenza sanitaria da COVID-19, essendo a tale eccezionale circostanza conseguite specifiche misure che, limitando i contatti sociali, avrebbero di fatto reso possibili esclusivamente comunicazioni a distanza, le quali «ormai avvengono solo attraverso apparati radiotrasmittenti».
Da ultimo, l’inibizione oggetto di censura ostacolerebbe la fruibilità di servizi sanitari, bancari, assicurativi, previdenziali, professionali, di domotica, di smart working, cui l’utente accede oggi sempre più spesso con apparati radiotrasmittenti, venendo così limitate, a parere del giudice a quo, le garanzie del controllo giudiziario in riferimento all’esercizio di diritti ulteriori rispetto alla libertà di comunicazione.
1.5.– La disposizione censurata sarebbe altresì contrastante con l’art. 3 Cost.
Viene a tal fine individuato come tertium comparationis l’art. 4 cod. antimafia, il quale, dettato in tema di misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria, richiede l’intervento di quest’ultima addirittura per limitazioni che, secondo il giudice rimettente, avrebbero sulle relazioni sociali del prevenuto un impatto meno gravoso della inibizione all’uso del telefono cellulare, come ad esempio il divieto di incontrare «alcune persone», nonostante si fondino su presupposti di pericolosità più gravi o di uguale livello.
Il contrasto con il parametro evocato potrebbe essere escluso solo se fosse previsto un intervento del giudice che consenta di modulare la limitazione della libertà di comunicazione in base alle esigenze emerse in contraddittorio, ad esempio vietando l’uso del telefono cellulare soltanto in alcuni orari, nei confronti di alcuni soggetti o utenze, in modo da «non eccedere così platealmente il fine della norma, che finisce [col] sacrificare anticipatamente alla commissione dei reati diritti costituzionalmente garantiti, primo tra tutti quello di comunicare».
1.6.– In definitiva, il Tribunale di Sassari imputa all’art. 3, comma 4, cod. antimafia la violazione degli artt. 3 e 15 Cost., in ragione della «assenza del vaglio giurisdizionale della limitazione ad opera del solo Questore all’uso degli apparati radiotrasmittenti» e per via dell’irragionevolezza di tale norma, posta a raffronto «con il procedimento applicativo di cui al susseguente articolo 4 della [legge n.] 159 del 2011, e alle prescrizioni che possono ivi essere imposte con il controllo giurisdizionale».
2.– Nel giudizio è intervenuto, con atto depositato il 15 novembre 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
2.1.– La difesa erariale, richiamata la vicenda oggetto del giudizio a quo, osserva, in termini generali, che, con la sentenza n. 24 del 2019, questa Corte, pur non essendosi pronunciata sull’avviso orale del questore, avrebbe dato atto dell’evoluzione di questa misura di prevenzione, evidenziando come il novero dei suoi destinatari si sia via via ampliato. Il precedente evocato sarebbe, ad avviso dell’interveniente, di per sé indicativo della non fondatezza delle questioni.
Premesso che il giudice penale, quando procede in forza dell’art. 77 (recte: 76) cod. antimafia, può disapplicare il provvedimento del questore, se non è sorretto da adeguata motivazione e se non indica le ragioni che hanno determinato l’emissione del divieto, l’Avvocatura ricorda che la Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondata analoga questione di legittimità costituzionale, facendo leva proprio sulla considerazione che il divieto di possedere e usare il telefono cellulare sarebbe opponibile dinanzi al tribunale e che l’interessato si vedrebbe quindi assicurata una via per adire, di propria iniziativa, l’autorità giudiziaria (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551).
Per la difesa erariale le questioni sollevate in riferimento all’art. 15 Cost. sarebbero peraltro manifestamente infondate, anche perché dal divieto del questore non scaturirebbero né limitazioni alla libertà di comunicazione, né controlli sul contenuto delle comunicazioni del prevenuto: questo provvedimento limiterebbe semplicemente una «particolare forma di comunicazione a distanza, seppur rilevante (quella con i telefoni mobili), nella ricorrenza tassativa di specifici presupposti previsti dalla legge».
Concludendo rispetto alla censura mossa in riferimento all’art. 15 Cost., l’Avvocatura dello Stato rileva che il potere del questore, giustificato sulla base di finalità general-preventive, sarebbe configurato in modo da assicurare un duplice controllo giurisdizionale: il primo, attivabile su iniziativa dell’interessato, in fase di opposizione davanti al tribunale in composizione monocratica, «successivamente alla denegata richiesta di revoca»; il secondo, necessariamente condotto ad opera del giudice penale, quando questi sia chiamato ad accertare la responsabilità penale del prevenuto per inosservanza del provvedimento del questore. Si tratterebbe, dunque, di un controllo «a formazione progressiva»: il giudice, su istanza dell’interessato, realizzerebbe dapprima un intervento assimilabile ad una «convalida (anche con mitigazioni)»; successivamente, sarebbe garantito un ulteriore controllo dell’autorità giudiziaria, mediante la disapplicazione del divieto ad opera del giudice penale, in caso di sua illegittimità.
2.2.– Anche la censura mossa in riferimento al principio di ragionevolezza risulterebbe, ad avviso della difesa erariale, manifestamente infondata.
Il rimettente avrebbe infatti individuato un tertium comparationis disomogeneo, giacché la misura di prevenzione della sorveglianza speciale si baserebbe su requisiti di pericolosità più grave, avendo essa come destinatari i soggetti condannati o indiziati per i reati di particolare allarme sociale indicati dall’art. 4 cod. antimafia, e avrebbe effetti ben più gravosi per le libertà del prevenuto. In definitiva, alla luce della giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 3 Cost., non risulterebbero in alcun modo violati né il principio di eguaglianza, né il principio di ragionevolezza.
3.– La Corte di cassazione, quinta sezione penale, con ordinanza del 16 dicembre 2021 (reg. ord. n. 73 del 2022), solleva anch’essa questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui prevede che il questore – nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale – possa vietare, senza limiti di tempo, di possedere o utilizzare qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, e quindi anche i telefoni cellulari, nonché l’accesso ad internet, per contrasto con gli artt. 3, 15, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
3.1.– In fatto, la Corte rimettente riferisce di essere investita dell’impugnazione del rigetto dell’opposizione avverso l’avviso orale rafforzato del questore, con cui era stato inibito a M. B. il possesso e l’uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, «ricomprendendo tra gli strumenti vietati anche i telefoni cellulari», nonché di fare accesso alla rete internet.
Riferisce il rimettente che, nell’atto di impugnazione, la difesa di M. B. aveva eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, per la mancata previsione di una durata minima e massima della misura di prevenzione oggetto dell’istanza di opposizione.
3.2.– Il giudice a quo esclude, in primo luogo, la percorribilità di un’interpretazione conforme a Costituzione, la quale implicherebbe, al fine di colmare la lacuna denunciata, lo svolgimento di un non consentito «ruolo di supplenza para-normativa».
3.3.– In punto di rilevanza, l’autorità giudiziaria rimettente sostiene che la decisione in ordine all’impugnazione sarebbe condizionata alla previa soluzione delle questioni di legittimità costituzionale relative alla carenza di limiti temporali del divieto oggetto del giudizio a quo, in quanto «il ricorso ha ad oggetto i provvedimenti giurisdizionali riguardanti la misura di prevenzione dell’avviso orale emesso dal questore», aggravato dal divieto di possedere ed utilizzare qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente.
3.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, la Corte di cassazione rimettente illustra brevemente l’evoluzione normativa che ha portato all’attuale disciplina, ricordando che i divieti accessori all’avviso orale del questore sono stati introdotti nell’ordinamento con la legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), successivamente estesi ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) e, da ultimo, modificati dal codice antimafia.
Viene altresì ricordato che, quando la legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali) ha introdotto nell’ordinamento, in sostituzione della diffida, l’avviso orale del questore, ne aveva stabilito un termine di durata (da sei mesi a tre anni).
Sulla scorta di questa premessa, il giudice a quo non ignora che questa Corte, con l’ordinanza n. 499 del 1987, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento alla mancata previsione di una durata minima e massima della diffida, sulla base della considerazione che, costituendo essa una mera ingiunzione a cambiare condotta, risultava priva di effetti limitativi per le libertà individuali.
Nel solco di tale pronuncia, a parere del rimettente, nel 2011 il legislatore, con il codice antimafia, avrebbe legittimamente eliminato la durata dell’avviso orale semplice, giacché tale misura di prevenzione consisterebbe nel mero invito a tenere una condotta conforme alla legge, non venendo nemmeno in questo caso compressa alcuna libertà costituzionale. Il giudice a quo sottolinea che, all’opposto, l’avviso orale rafforzato dai divieti di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, comporterebbe significative restrizioni dei diritti della persona.
I vizi che affliggerebbero la disposizione censurata non deriverebbero dalla previsione di divieti idonei, in astratto, ad incidere su libertà fondamentali dell’individuo, bensì, da un lato, dall’attribuzione all’autorità amministrativa della competenza ad adottare le misure inibitorie, e, dall’altro, dall’assenza di un termine di durata dei suddetti provvedimenti inibitori. La previsione di una pena per la trasgressione all’ordine aggravato del questore (art. 76, comma 2, cod. antimafia), allo stesso tempo, collocherebbe «una sorta di ‘spada di Damocle’» permanente sul prevenuto.
3.5.– Ciò posto, il giudice a quo ritiene necessario precisare che il possesso e l’uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente rientrerebbero nella sfera di applicazione dell’art. 15 Cost., in quanto norma posta a tutela della libertà di comunicazione, nonché dell’art. 21 Cost., quale norma che tutela la libertà di espressione, anche nella sua «dimensione passiva» di «libertà di ricevere informazioni».
La tutela della libertà di espressione rivestirebbe un’importanza centrale per la democraticità dell’ordinamento, «costituendo un diritto al contempo individuale e sociale». Lo Stato sarebbe investito, in questo senso, del compito di intervenire anche sulla base del principio di eguaglianza sostanziale, espresso dall’art. 3, secondo comma, Cost.
Il rimettente osserva quindi che l’art. 15 Cost. appresterebbe tutele più stringenti di quelle degli artt. 13 e 14 Cost., vietando che siano attribuiti poteri di intervento in via d’urgenza all’autorità di pubblica sicurezza e, inoltre, richiedendo che le restrizioni debbano avvenire «con le garanzie adottate dalla legge». Con questa formulazione, il parametro costituzionale evocato richiederebbe, in particolare, che la legge disciplini non solo i casi e i modi che legittimano compressioni della libertà di comunicazione, ma anche «le garanzie tecniche e giuridiche idonee a limitare il sacrificio della libertà fondamentale».
Non sarebbero, quindi, rispettate né la riserva di giurisdizione, per cui la libertà di comunicazione può tollerare restrizioni solo in presenza di una previa autorizzazione, motivata, dell’autorità giudiziaria, né la riserva di legge, avendo il legislatore omesso di indicare «“le garanzie” legate alla predeterminazione della durata, massima e minima, del provvedimento limitativo».
Infine, essendo la trasgressione del divieto del questore punita in base all’art. 76 cod. antimafia, tale quadro normativo non genererebbe solo un sacrificio, privo di termine, di una libertà costituzionale fondamentale, ma sottoporrebbe il prevenuto anche al rischio, illimitato nel tempo, della sanzione penale per violazione del divieto.
3.6.– Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU.
Per il rimettente, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe posto in evidenza l’importanza dell’accesso alla rete internet ai fini del rispetto dell’art. 10 CEDU, in quanto la libertà di espressione ricomprenderebbe anche il mezzo di diffusione del pensiero (viene citata, tra le altre, Corte EDU, sentenza 9 febbraio 2021, Ramanaz Demir contro Turchia).
Inoltre, l’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU comprenderebbe certamente anche le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica (sono citate, tra le altre, Corte EDU, grande camera, sentenze 5 settembre 2017, Barbulescu contro Romania e 3 aprile 2007, Copland contro Regno Unito).
Alla luce di tali considerazioni, il giudice a quo sostiene che l’avviso orale rafforzato dal divieto di possedere e utilizzare il telefono cellulare, pur essendo volto a perseguire uno scopo legittimo, ovvero la «prevenzione dei reati», non poggerebbe su una sufficiente base legale, risultando la qualità della legge nazionale inidonea a soddisfare lo standard di prevedibilità ed accessibilità elaborato dalla Corte di Strasburgo (viene citata Corte EDU, sentenza 26 aprile 1979, Sunday Times contro Regno Unito), a causa della mancata previsione della durata della misura.
3.7.– La Corte rimettente passa dunque ad illustrare unitariamente il dubbio di legittimità costituzionale posto in riferimento all’art. 3 Cost., nonché in riferimento alla «dimensione convenzionale» del principio di proporzione: la lesione della libertà di comunicazione, in assenza di una durata, sarebbe sproporzionata e darebbe vita ad una interferenza dell’autorità pubblica non necessaria in uno Stato democratico.
Più specificamente rispetto alla CEDU, viene sottolineato che la possibilità, prevista dall’art. 3, comma 3, cod. antimafia, di chiedere la revoca dell’avviso orale (semplice o aggravato) al questore, non rappresenterebbe che una «facoltà rimessa al destinatario della misura, che tuttavia non arricchisce la ‘base legale’ della limitazione mediante preventivo riconoscimento legislativo dei termini di durata, rimettendo all’autorità amministrativa la valutazione dell’esercizio del relativo potere (di revoca)».
4.– Nel giudizio è intervenuto, con atto depositato il 19 luglio 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate.
4.1.– Richiamato l’iter argomentativo dell’ordinanza di rimessione, la difesa erariale ricorda, sotto il profilo della riserva di giurisdizione, posta dall’art. 15 Cost., che analoga questione di legittimità costituzionale è già stata ritenuta manifestamente infondata dalla Corte di cassazione (vengono citate Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanza 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551 e, sezione seconda penale, ordinanza 20 febbraio-18 giugno 2020, n. 18559), perché ai sensi dell’art. 3, comma 6, cod. antimafia, il provvedimento del questore è opponibile dinnanzi al tribunale.
Inoltre, sempre rispetto alla necessità di un controllo giurisdizionale, l’art. 8 CEDU non richiederebbe necessariamente l’intervento dell’autorità giudiziaria, potendo intervenire a limitare la libertà di corrispondenza qualsiasi «pubblica autorità».
4.2. – Rispetto alla mancata previsione di termini di durata, l’Avvocatura mette in rilievo che la violazione dei parametri costituzionali evocati non sussisterebbe, in quanto l’interessato potrebbe avvalersi di un articolato sistema di garanzie, alcune delle quali esperibili senza termini di decadenza, come la revoca, qualora siano venuti meno i presupposti di applicabilità del divieto, o come l’opposizione al tribunale. Ulteriore istituto a tutela del prevenuto sarebbe, «da un punto di vista più generale», la disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi da parte del giudice ordinario, desumibile dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, recante «Legge sul contenzioso amministrativo (All. E)».
Secondo la difesa erariale, peraltro, l’assenza di predeterminazione della durata della misura non darebbe adito alla violazione dei parametri convenzionali evocati: l’art. 3, comma 4, cod. antimafia indicherebbe infatti i presupposti del divieto e gli strumenti di tutela amministrativi e giurisdizionali, proprio al fine di contenere eventuali abusi, che peraltro sarebbero sottoposti al vaglio giurisdizionale.
Infine, l’avviso orale rafforzato sarebbe volto a perseguire finalità legittime, «inerenti alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati in coerenza, peraltro, con gli omologhi obiettivi generali dell’Unione europea previsti dall’art. 3 TUE».
Motivi della decisione
l.– Il Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui prevede che il questore, nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato” nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi, possa vietare loro di possedere o utilizzare «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», e perciò anche telefoni cellulari, in quanto ricompresi in tale ultima definizione.
Il giudice a quo include nella censura anche l’art. 76, comma 2, del medesimo codice antimafia, che punisce con la reclusione e la multa la trasgressione ai divieti di cui alla disposizione prima descritta.
Premesso che la disponibilità di un telefono cellulare costituirebbe oggi presupposto indispensabile per poter effettivamente esercitare la libertà di comunicare, ritiene il rimettente che le due norme censurate consentano limitazioni a tale libertà, non già per atto motivato dell’autorità giudiziaria, come richiede l’art. 15 Cost., bensì direttamente tramite una decisione dell’autorità amministrativa, in violazione quindi della riserva di giurisdizione prevista dall’evocata disposizione costituzionale. Inoltre, in lesione congiunta degli artt. 3 e 15 Cost., proprio la circostanza che l’avviso orale “rafforzato” non sia adottato dall’autorità giudiziaria – nell’ambito di un procedimento assistito dalle garanzie del contraddittorio, idoneo a consentire una modulazione degli effetti del divieto in base alle esigenze del caso concreto – comporterebbe un sacrificio sproporzionato della libertà di comunicazione rispetto alla contrapposta esigenza di prevenzione dei reati.
Infine, quale ulteriore ed autonoma violazione dell’art. 3 Cost., il giudice a quo ritiene che i destinatari del divieto del questore di possedere e usare telefoni cellulari siano trattati in modo ingiustamente deteriore rispetto a coloro che sono raggiunti dalle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 4 cod. antimafia: mentre, in questo secondo caso, l’autorità giudiziaria può inibire la frequentazione di specifiche categorie di persone (ma non impedire ogni relazione sociale) e può vietare l’accesso a determinati luoghi d’incontro (ma non a tutti), i destinatari dell’avviso orale “rafforzato” per decisione amministrativa subirebbero, invece, una limitazione generalizzata e indiscriminata di tutte le loro comunicazioni con terzi. E ciò avverrebbe, aggiunge il rimettente, con riferimento a soggetti che presenterebbero caratteristiche di pericolosità inferiori rispetto a quelli interessati dalle misure di cui all’art. 4 cod. antimafia.
2.– Anche la Corte di cassazione, sezione quinta penale, censura l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui prevede che il questore – nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale “rafforzato” – possa vietare il possesso e l’utilizzo di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, e quindi anche dei telefoni cellulari, sottolineando che, tramite il divieto in questione, sarebbe anche possibile vietare l’accesso ad internet.
La disposizione violerebbe innanzitutto l’art. 15 Cost., poiché l’attribuzione all’autorità amministrativa del potere di proibire il possesso o l’utilizzo di strumenti essenziali per comunicare si porrebbe in contrasto con la previsione della riserva di giurisdizione contemplata dal parametro costituzionale evocato. Inoltre, la circostanza che la norma censurata consenta un siffatto divieto senza un limite minimo e massimo di durata vanificherebbe la stessa tutela offerta dalla riserva di legge contenuta nell’art. 15 Cost., in base al quale apposite «garanzie» devono accompagnare l’atto motivato dell’autorità giudiziaria. Allo stesso modo, in lesione anche dell’art. 3 Cost., nel consentire che l’accesso a strumenti essenziali per esercitare la libertà di comunicare e di manifestare il proprio pensiero possa essere impedito senza limiti di tempo, la disposizione censurata permetterebbe restrizioni non proporzionate a tali libertà fondamentali.
Inoltre, sempre sul presupposto che il divieto del questore possa riguardare anche l’accesso a internet, l’ordinanza di rimessione sottolinea ampiamente come la norma censurata comporti l’impossibilità di disporre, senza limiti di durata, di strumenti essenziali non solo per comunicare, ma anche per ricevere informazioni. Del resto, possesso e uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente rientrerebbero non solo nella sfera di applicazione dell’art. 15 Cost., in quanto norma costituzionale posta a tutela della libertà di comunicare, ma anche dell’art. 21 Cost., quale disposizione che tutela la libertà di espressione, anche nella sua «dimensione passiva» di «libertà di ricevere informazioni».
L’ordinanza segnala come la tutela della libertà di espressione rivestirebbe un’importanza centrale per la democraticità dell’ordinamento, «costituendo un diritto al contempo individuale e sociale». Garantire l’accesso alla rete, da questo punto di vista, sarebbe un compito di cui lo Stato risulterebbe investito, anche sulla base del principio di eguaglianza sostanziale, espresso dall’art. 3, secondo comma, Cost.
A fronte di tutto ciò, proprio in violazione degli artt. 3, secondo comma, e 21 Cost., la disposizione censurata consentirebbe invece che aspetti fondamentali della libertà di manifestazione del pensiero siano ristretti senza limiti di tempo, in frontale contrasto con il «diritto sociale» ad un comportamento delle autorità pubbliche che dovrebbe invece essere volto a favorire la libera circolazione delle idee e la formazione di un’opinione pubblica consapevole.
Infine, l’art. 3, comma 4, cod. antimafia violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU.
Sottolineando, sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, l’importanza della possibilità di accedere alla rete internet ai fini del rispetto dell’art. 10 CEDU, e considerando che l’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU comprende certamente anche le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica, il giudice a quo sostiene che l’avviso orale rafforzato dal divieto di possedere e utilizzare il telefono cellulare – pur perseguendo uno scopo legittimo, ovvero la «prevenzione dei reati» – non poggerebbe su una sufficiente base legale, risultando la qualità della legge nazionale non idonea a soddisfare lo standard di prevedibilità ed accessibilità elaborato dalla Corte di Strasburgo, proprio a causa della mancata previsione della durata della misura.
3.– Le due ordinanze di rimessione hanno in comune una delle due disposizioni censurate, con riferimento a parametri costituzionali in parte coincidenti, sotto profili largamente comuni, e con argomentazioni sovrapponibili. Ponendo, pertanto, analoghe questioni di legittimità costituzionale, i due giudizi vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
4.– Le questioni di legittimità costituzionale riguardano in particolare l’istituto dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato”.
Mentre l’avviso orale cosiddetto “semplice” comporta unicamente l’invito rivolto ai soggetti di cui all’art. 1 cod. antimafia a tenere una condotta conforme alla legge (art. 3, commi 1 e 2, cod. antimafia), il comma 4, oggetto delle odierne censure, attribuisce al questore anche il potere di inibire alla persona attinta da avviso orale il possesso o l’uso, in tutto o in parte, di determinati mezzi e strumenti. La misura di prevenzione in questione è adottabile sul presupposto che si tratti di «persone che risultino definitivamente condannate per delitti non colposi» (comma 4); il questore può inoltre colpire con le medesime interdizioni i soggetti sottoposti a sorveglianza speciale, anche in questo caso quando definitivamente condannati per delitti non colposi (comma 5).
La trasgressione dei divieti contenuti nell’avviso orale “rafforzato” è presidiata dalla previsione di una sanzione penale. L’art. 76, comma 2, cod. antimafia prescrive, infatti, che chiunque violi il divieto di cui all’art. 3, commi 4 e 5, «è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 1.549 a euro 5.164».
5.– L’ordinanza del Tribunale di Sassari (r.o. n. 164 del 2021) include nelle proprie censure anche il menzionato art. 76, comma 2, cod. antimafia. In effetti, il giudice a quo riferisce di doversi pronunciare sulla responsabilità penale di un imputato del reato previsto e punito proprio dal citato art. 76, comma 2, per essere stato colto in possesso di un telefono cellulare, e ritiene dunque di coinvolgere la norma incriminatrice nelle proprie doglianze. Tuttavia, in riferimento a questa disposizione, l’ordinanza è priva di qualunque argomentazione, ciò che rende inammissibile la relativa questione di legittimità costituzionale (ex multis, di recente, sentenze n. 263, n. 256 e n. 128 del 2022).
Questa preliminare delimitazione dell’oggetto non ha conseguenze sull’ammissibilità della questione riferita, dal medesimo rimettente, all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ovvero alla disposizione che fonda il divieto del questore. La giurisprudenza di legittimità e di merito è infatti costante nell’ammettere che il giudice penale, pronunciandosi sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui al citato art. 76, comma 2, esercita incidentalmente un sindacato sulla legittimità dell’ordine del questore di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, dal cui esito deriva, in caso di illegittimità, il proscioglimento dell’imputato (di recente Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 17 settembre-24 novembre 2021, n. 43301, e 27 maggio-2 settembre 2021, n. 32667).
Inoltre, fuga ogni dubbio sulla rilevanza della presente questione, la circostanza per cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che dà fondamento al potere dell’autorità pubblica di adottare la misura di prevenzione, la cui inosservanza è oggetto di accertamento nel giudizio principale, vale a «porre nel nulla» la misura medesima (sentenza n. 109 del 1983; in senso analogo, sentenza n. 126 del 1983).
6.– Entrambe le ordinanze di rimessione intendono censurare unicamente il potere del questore di vietare possesso e uso di apparati di comunicazione radiotrasmittente, non già degli altri mezzi e strumenti elencati dall’art. 3, comma 4, cod. antimafia (sul presupposto, del tutto corretto, che il questore possa separatamente decidere il divieto di alcuni soltanto tra i mezzi ed oggetti elencati dalla disposizione citata). Ciò vale anche per l’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione: se è vero che il dispositivo di quest’ultima, testualmente, coinvolge nelle censure di legittimità costituzionale l’intero comma 4, tuttavia la motivazione fuga ogni dubbio in proposito, riferendosi unicamente all’inibizione di possesso e uso di un telefono mobile, in quanto ritenuto apparato di comunicazione radiotrasmittente.
La costante giurisprudenza di questa Corte – secondo cui l’oggetto del giudizio costituzionale deve essere appunto individuato interpretando il dispositivo dell’ordinanza di rimessione alla luce della sua motivazione (ex multis, di recente, sentenze n. 149 e n. 148 del 2022) – consente, perciò, di correttamente delimitare, nei termini testé riferiti, il thema decidendum.
7.– Tutto ciò posto, le censure da scrutinare nel merito presuppongono innanzitutto una ricognizione del significato dell’espressione «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», contenuto nell’art. 3, comma 4, cod. antimafia.
Entrambe le ordinanze accolgono l’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui tale espressione è idonea a includere nel proprio orizzonte di senso i telefoni mobili o cellulari, e proprio su questa base formulano le descritte censure di violazione degli artt. 3 e 15 Cost.
Una simile interpretazione, consolidatasi nella forma del diritto vivente, ha da tempo condotto a superare i dubbi relativi alla portata della disposizione censurata.
Tra i vari mezzi e strumenti di cui il questore può vietare il possesso o l’utilizzo, «in tutto o in parte», ai soggetti che si trovino nelle condizioni previste dallo stesso art. 3 cod. antimafia, gli apparati di comunicazione radiotrasmittente risultano enunciati per primi dal comma censurato. Il loro inserimento tra i possibili oggetti di un avviso orale del questore risale alla legge n. 128 del 2001. L’elenco originario, trasfuso in seguito nel d.lgs. n. 159 del 2011 (dopo esser stato ulteriormente integrato ad opera dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009), poneva gli apparati ricordati accanto a «radar e visori notturni, indumenti e accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, nonché programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi».
Si tratta, all’evidenza, di un catalogo di strumenti di uso non comune, quasi di natura eccezionale, il cui impiego parrebbe indicativo della volontà di compiere specifiche attività delittuose offensive o difensive (per sottrarsi ai controlli delle forze dell’ordine), anche mediante l’uso o l’esibizione della forza.
Un’interpretazione più coerente con tale contesto normativo e con la ratio legis avrebbe potuto allora suggerire che gli specifici apparati di comunicazione radiotrasmittente oggetto di divieto del questore possono essere soltanto quelli, anch’essi di uso non comune, univocamente e abitualmente destinati ad un determinato scopo criminoso, e tali anche da evidenziare una specifica volontà di usare la tecnologia per danneggiare le indagini di polizia o sfuggire ai relativi controlli.
I lavori preparatori della legge n. 128 del 2001 (seduta del 24 gennaio 2001 della Camera dei deputati), per parte loro, mostrano la presenza di un emendamento al testo legislativo, non approvato, che al divieto relativo, in generale, agli apparati di comunicazione radiotrasmittente affiancava proprio la previsione di un distinto e specifico divieto relativo agli apparati di telefonia mobile, sul presupposto, quindi, che questi ultimi non fossero ricompresi tra i primi. La circostanza non è irrilevante e tuttavia resta ambiguo il significato della mancata approvazione dell’emendamento, non emergendo con chiarezza se ciò suoni conferma della voluntas legis di escludere i telefoni mobili dal novero degli apparati radiotrasmittenti, oppure se sia stata ritenuta superflua la menzione esplicita dei telefoni cellulari, accanto ad una definizione già di per sé generica e onnicomprensiva («qualsiasi» apparato di comunicazione radiotrasmittente).
Sotto un ulteriore profilo, potrebbe essere oggetto di dubbi il significato di senso comune trasmesso dalla locuzione “apparati di comunicazione radiotrasmittente”, sia nel 2001, all’epoca dell’approvazione della disposizione censurata, sia, a maggior ragione, nell’epoca attuale. Non sembra impossibile sostenere, infatti, che, già nel 2001 (quando i telefoni cellulari non costituivano più una rarità), la locuzione “apparato di comunicazione radiotrasmittente” esibisse – ed esibisca ancor più oggi, considerata l’universale diffusione dei telefoni mobili – un significato di senso comune evocatore di apparati ben diversi dai telefoni cellulari (come i walkie-talkie e simili).
Fatto sta che, superando del tutto i dubbi e le possibili diverse letture della disposizione, la giurisprudenza di legittimità – a partire da Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 1° settembre-1° ottobre 2009, n. 38514, seguita da almeno altre sei pronunce (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 24 febbraio-2 aprile 2021, n. 127793, 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551, 26 febbraio-17 giugno 2019, n. 26628, 11 settembre 2018-7 gennaio 2019, n. 314 e 3 dicembre 2013-3 luglio 2014, n. 28796; sezione settima penale, ordinanza 18 ottobre 2018-7 gennaio 2019, n. 294) e con un’indiretta conferma da parte delle Sezioni unite civili, sentenza 2 maggio 2014, n. 9560, sia pur nella diversa materia delle tasse su concessioni governative – ha stabilito con nettezza che il telefono cellulare rientra a pieno titolo nella nozione di apparato di comunicazione radiotrasmittente. Questa interpretazione è basata, da un lato, su un criterio testuale, che eliminerebbe ogni incertezza sull’intenzione del legislatore derivante dall’analisi dei lavori preparatori, ed è, dall’altro, aderente al significato strettamente tecnico dell’espressione “apparato di comunicazione radiotrasmittente”, escludendo il rilievo di un eventuale significato di senso comune non coincidente, in ipotesi, con quello tecnico: per apparato di comunicazione radiotrasmittente si deve intendere qualsiasi apparecchio in grado di inviare onde radio e di trasmetterle, o ad un altro apparato analogo, o ad un impianto in grado di riceverle.
Da questo punto di vista, afferma la citata sentenza Cass. n. 38514 del 2009, seguita dai menzionati arresti in senso conforme, «il telefono cellulare è un apparecchio radiotrasmittente o radioricevente per la comunicazione in radiotelefonia, collegato alla rete telefonica di terra tramite centrali di smistamento denominate stazioni radio base».
8.– La premessa interpretativa da cui muovono entrambe le ordinanze di rimessione è dunque fedele alla costante lettura fornita dalla descritta giurisprudenza di legittimità, che costituisce ormai, come ricordato, diritto vivente. Ciò fuga ogni dubbio quanto all’ammissibilità delle questioni sollevate. Esse vanno perciò decise assumendo che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui si riferisce a «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», consenta al questore di vietare il possesso e l’uso anche di telefoni cellulari.
9.– Sulla base di questa premessa, le questioni sono fondate, per violazione dell’art. 15 Cost.
La Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata. Al tempo stesso, in termini generali, le regole attinenti al mezzo che, per comunicare, venga di volta in volta utilizzato sono cosa in sé diversa dalla disciplina relativa al diritto fondamentale ora in esame: anzi, sempre in termini generali, ben può dirsi che limitazioni relative all’uso di un determinato mezzo o strumento non necessariamente si convertono in restrizioni al diritto fondamentale che l’impiego di quel mezzo o strumento consenta, per avventura, di soddisfare.
Esiste tuttavia un limite, superato il quale la disciplina che incide sul mezzo – in ragione del particolare rilievo che questo riveste a livello relazionale e sociale – finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione. Esattamente questo accade, in forza di ciò che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia consente di fare al questore, oltretutto in una materia, quella delle misure di prevenzione, di particolare delicatezza, perché finalizzata a consentire forme di controllo, per il futuro, sulla pericolosità sociale di un determinato soggetto, ma non deputate alla punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato (di recente, sentenza n. 180 del 2022). Le esigenze di prevenzione ben possono giustificare incisive misure restrittive, quali quelle che il questore può assumere sulla base dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ma non possono che assoggettarsi all’evocato imperativo costituzionale.
È difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione attuale di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare, «spazio vitale che circonda la persona» (sentenze n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), in quanto attinente alla sua dimensione sociale e relazionale. Da questo punto di vista, il telefono cellulare ha assunto un ruolo non paragonabile a quello degli altri strumenti evocati dai rimettenti. Rivelerebbe, inoltre, un senso d’irrealtà l’obiezione per cui la libertà di comunicare, privata del telefono mobile, ben potrebbe ancora oggi essere soddisfatta attraverso mezzi diversi, come gli apparati di telefonia fissa.
L’art. 15 Cost. definisce la libertà di comunicazione come inviolabile. Questa Corte ha stabilito, in particolare, che tale qualificazione implica che il contenuto essenziale della libertà non può subire restrizioni, se non in ragione della necessità di soddisfare un interesse pubblico costituzionalmente rilevante, «sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria» (ancora sentenza n. 366 del 1991; nello stesso senso, sentenza n. 81 del 1993).
Le esigenze di prevenzione e difesa sociale ben possono giustificare, si è detto, misure restrittive, e queste possono incidere anche su diritti fondamentali. Ma, proprio ove ciò accada, le garanzie costituzionali reclamano osservanza. Nel caso della disposizione censurata ciò non avviene: la misura limitativa non è disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza nemmeno la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria (per un’analoga fattispecie, pure oggetto di pronuncia di illegittimità costituzionale, sentenza n. 100 del 1968).
Questa Corte, sin dal primo anno della propria attività, non ha esitato a dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni di legge contenenti misure di prevenzione, assunte su decisione dell’autorità amministrativa, che avevano effetti restrittivi sulla libertà personale, in violazione della riserva di giurisdizione costituzionalmente prescritta (sentenza n. 2 del 1956, sull’ordine di rimpatrio con traduzione ordinata dal questore; sentenza n. 11 del 1956, in tema di cosiddetta ammonizione del questore, a causa di una sorta di «degradazione giuridica» cui era sottoposto l’individuo in virtù del provvedimento dell’autorità di polizia; entrambe le pronunce sono riprese, di recente, dalla sentenza n. 24 del 2019).
Nella giurisprudenza costituzionale, è già stato inoltre chiarito il significato sostanziale, e non puramente formale, dell’intervento dell’autorità giudiziaria, in presenza di misure di prevenzione che comportino restrizioni rispetto a diritti fondamentali assistiti da riserva di giurisdizione. Il vaglio dell’autorità giurisdizionale risulta infatti associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa (sentenze n. 113 del 1975 e n. 68 del 1964; si vedano, inoltre, le sentenze n. 177 del 1980 e n. 53 del 1968).
Analogamente a quanto questa Corte ha già stabilito con riguardo a misure di prevenzione restrittive della libertà personale, va dunque affermato che anche la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione limitative della libertà protetta dall’art. 15 Cost. è «necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sentenza n. 11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro rendendolo meramente illusorio» (sentenza n. 177 del 1980).
In un caso (sentenza n. 419 del 1994, pronunciata in riferimento alla misura di prevenzione del cosiddetto «soggiorno cautelare», che poteva essere disposto dal procuratore nazionale antimafia, in presenza di indici di pericolosità di reati associativi di stampo mafioso di particolare allarme sociale), la sentenza d’accoglimento, fondata sulla natura non giurisdizionale dell’organo chiamato ad adottare la misura limitativa della libertà personale, ha avuto cura di precisare l’ininfluenza, ai fini del rispetto della riserva di giurisdizione, dell’eventuale previsione di un riesame del giudice, su iniziativa dell’interessato. Già in quell’occasione, fu osservata la natura meramente eventuale di questo vaglio, attivabile su impulso del destinatario della misura. Ciò va ribadito nell’odierna questione: quel che conta, ai fini del rispetto della riserva di giurisdizione costituzionalmente imposta, è la titolarità del potere di decidere, direttamente e definitivamente, la misura stessa. Se tale potere è conferito ad un’autorità non giudiziaria, nessun riferimento ad una «fattispecie a formazione progressiva», sulla base della previsione di un eventuale, successivo intervento del giudice, può emendare il vizio di legittimità costituzionale.
Da questo punto di vista, non ha dunque pregio l’osservazione dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui il divieto del questore sarebbe «pienamente» assistito dal controllo dell’autorità giudiziaria, «essendo opponibile, successivamente alla denegata richiesta di revoca, davanti al Tribunale in composizione monocratica, nella forma dell’incidente di esecuzione».
10.– Come accade nell’ambito delle stesse misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria (ai sensi, ad esempio, dell’art. 5, comma 1, cod. antimafia), ben può spettare anche al questore la titolarità del potere di proporre che a un determinato soggetto sia imposto il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare, ma non gli compete di adottare il provvedimento, poiché l’art. 15 Cost. non lo consente: la decisione non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione.
L’art. 3, comma 4, cod. antimafia va dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 15 Cost., nella parte in cui – sul presupposto che il telefono cellulare rientra tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente – consente al questore di vietarne, in tutto o in parte, il possesso e l’utilizzo.
La rimozione del potere di decisione spettante al questore, infine, comporta l’assorbimento delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate: sia quella inerente alla presunta lesione del diritto di accesso alla rete, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU; sia quelle concernenti, da un lato, l’asserito deteriore trattamento riservato ai destinatari del divieto di possedere e usare telefoni cellulari rispetto a coloro che sono raggiunti dalle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria ex art. 4 cod. antimafia, e dall’altro, la circostanza che la disposizione censurata consenta un siffatto divieto senza un limite minimo e massimo di durata.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76 del d.lgs. n. 159 del 2011, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., dal Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.