Con la pronuncia in commento, la Cassazione delinea la differenza tra rinuncia e transazione e spiega quando può ritenersi valida la conciliazione in sede sindacale tra datore e lavoratore.
Con il ricorso in esame, il lavoratore impugna la decisione del Giudice di secondo grado che aveva rigettato le sue domande volte sostanzialmente a dichiarare nulla o annullabile la transazione intervenuta con la controparte, illegittima o inefficace la sospensione dal rapporto di lavoro e a condannare la società alla sua riammissione in servizio con annesso pagamento...
Svolgimento del processo
1. La Corte d'Appello di Bologna ha respinto l’appello proposto da J. C. A., confermando la pronuncia di primo grado che aveva rigettato le domande del predetto (dipendente della P. soc. coop. arl dal 24.1.2001 al 30.10.2004, della P. scarl dal 2.11.2004 al 28.2.2010, della M.. soc. coop. dal 22.3.2010) volte all’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della Società G. R. (E.) P. (d’ora in avanti, S.) dall’1.1.2001, sul presupposto della illegittimità dei contratti di appalto conclusi tra quest’ultima società e le citate cooperative, nonché alla declaratoria di nullità o annullabilità della transazione dal medesimo conclusa con la M.. e la S. il 29.4.2010 e alla declaratoria di nullità, illegittimità o inefficacia della sospensione del rapporto di lavoro e della estromissione dal lavoro disposta dalla M.. il 16.5.2011, con condanna di tale società alla riammissione in servizio e al pagamento delle retribuzioni. La Corte d’appello ha dichiarato inammissibile l’appello nei confronti della P. soc. coop. e improcedibili le domande proposte verso il Fallimento M.. soc. coop. e il Fallimento P. soc. coop.
2. La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha giudicato legittima la conciliazione del 29.4.2010, avente ad oggetto rinunce del lavoratore, conclusa in sede sindacale alla presenza del sig. G. B., ritualmente investito dei poteri di conciliatore e che ha prestato concreta assistenza al lavoratore (secondo la deposizione testimoniale resa dal medesimo B. e giudicata attendibile rispetto a quella, valutata come non attendibile, resa dal teste S.); ha quindi esaminato la domanda di illegittimità dell’appalto con riferimento al periodo successivo al 30.4.2010 (estraneo al citato accordo conciliativo) ed ha ritenuto non dimostrate le allegazioni secondo cui la prestazione del lavoratore era diretta e organizzata dalla committente. Ha accertato, al contrario, che presso i locali della S. vi era una puntuale suddivisione degli spazi e dell'affidamento degli incarichi; che era stato individuato un dipendente della cooperativa quale responsabile del magazzino e che la stessa cooperativa aveva messo a disposizione dei propri dipendenti carrelli e trans pallet.
3. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. La Società G. R. (E.) P. ha resistito con controricorso. Il Fallimento M.. soc. coop., il Fallimento P. soc. coop. e M.B., amministratore unico della P. soc. coop. arl, non hanno svolto difese. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.
Motivi della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 2113 c.c. e dell’art. 411 c.p.c. per avere la Corte d’appello considerato valida la conciliazione in sede sindacale anche se contenente solo rinunzie del lavoratore e non reciproche concessioni per definire una questione controversa. Si denuncia altresì l’errore della sentenza impugnata per aver considerato valida ed effettiva l’assistenza prestata dal B., sebbene esponente di una organizzazione sindacale diversa (per categoria) da quella di appartenenza del lavoratore e sebbene intervenuto su richiesta della società S. e non su mandato del lavoratore, dovendosi pertanto escludere una posizione di terzietà del predetto ed una assistenza effettiva in favore del lavoratore. Il ricorrente censura ancora la sentenza per non avere tenuto conto della falsità delle premesse contenute nell’atto di transazione (“è insorta controversia tra le parti in relazione all'interpretazione dell'esecuzione del contratto di lavoro”), come evidenziato nel ricorso in appello e aggiunge che la transazione, anche se valida, non poteva riguardare diritti acquisiti dopo il 29.4.2010 e prima del 2.11.2004.
5. Il motivo è infondato.
6. Deve premettersi che la rinuncia e la transazione, accomunate nell’art. 2113 c.c., costituiscono due negozi giuridici differenti. La rinuncia costituisce un negozio giuridico unilaterale con il quale la parte dismette un diritto di cui può disporre; la rinuncia è un negozio non recettizio, in quanto esaurisce i propri effetti nella sfera stessa del rinunciante, che non deve portarlo a conoscenza di terzi perché l'effetto estintivo si produca: i motivi dell'abbandono del diritto non assumono rilevanza restando estranei alla causa del negozio. La transazione è un contratto che presuppone una situazione di contrasto tra le parti, tale da aver già originato una lite ovvero da renderne possibile l'insorgenza, e che è diretto a comporre la vertenza mediante reciproche concessioni delle medesime parti (art. 1965 c.c.); nel contesto della transazione, peraltro, è normale che avvengano anche rinunzie, che non assumono tuttavia autonoma valenza, restando funzionalmente collegate ed assorbite dal nuovo assetto di interessi convenuto dalle parti (v. Cass. n. 16168 del 2004 in motivazione). L’art. 2113 c.c., poiché disciplina gli effetti delle “rinunzie e transazioni”, fa riferimento ai due distinti istituti giuridici, come correttamente rilevato dai giudici di appello.
7. Sul tema della assistenza al lavoratore in sede conciliativa, questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. n. 16283 del 2004 in motivazione) che la ratio delle norme contenute nei primi tre commi dell’art. 2113 c.c. deve essere individuata nella considerazione che il lavoratore possa trovarsi in condizioni di soggezione o di inferiorità nei confronti del suo datore di lavoro nel momento in cui, da solo, sottoscrive un atto di rinunzia o di transazione relative ad un diritto derivante da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti ed accordi collettivi e concernente i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. Il legislatore, quindi, ha voluto predisporre una disciplina di particolare tutela del lavoratore ed ha stabilito che le rinunzie e le transazioni possono essere dal medesimo impugnate, entro un termine perentorio, così introducendo una ulteriore figura di annullabilità oltre alla azione generale prevista dagli artt. 1425 e ss. c.c. Questa esigenza di tutela, collegata al rischio che la volontà del lavoratore possa essere coartata ed indirizzata ad un risultato contrario ai suoi interessi, non sussiste, peraltro, quando la conciliazione si realizza in una delle forme previste dall’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. In base a tale disposizione, il negozio transattivo stipulato in sede conciliativa, giudiziale o stragiudiziale, è assoggettato a un regime giuridico derogatorio della regola generale - stabilita dai commi secondo e terzo della predetta norma - dell'impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, perché l'intervento del terzo investito di una funzione pubblica (giudice, autorità amministrativa o associazione di categoria) è ritenuto idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore (v. Cass. n. 6611 del 1995).
8. La disciplina derogatoria dell’art. 2113, ultimo comma c.c., presuppone (v. Cass. 16154 del 2021 in motivazione) che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in che misura (Cass. 23 ottobre 2013, n. 24024; Cass. 4 settembre 2018, n. 21617). A tale scopo, si ritiene sufficiente l'idoneità del rappresentante sindacale a prestare, in sede conciliativa, l'assistenza prevista dalla legge ed inoltre che la compresenza del rappresentante sindacale e del lavoratore al momento della conciliazione faccia presumere l'adeguata assistenza fornita dal primo, chiamato a detto fine a prestare opera di conciliatore (per il conferimento di un mandato implicito del lavoratore necessariamente sottostante all'attività svolta dal primo), a meno che il dipendente, onerato, non fornisca la prova che il rappresentante sindacale, pur presente, non abbia prestato la necessaria assistenza (Cass. 3 settembre 2003, n. 12858).
9. Nel caso di specie la Corte di merito ha accertato, ricostruendo le concrete modalità di svolgimento della conciliazione, come sia stata correttamente attuata, attraverso il sindacalista B., appartenente alle organizzazioni sindacali dei lavoratori, quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa (Cass. n. 12858 del 2003; Cass. n. 4730 del 2002; Cass. n. 13217 del 2008), e tale accertamento, coerente ai principi di diritto richiamati, non è suscettibile di revisione in questa sede di legittimità.
10. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c. e in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., omessa e/o errata valutazione delle prove testimoniali e della documentazione prodotta in giudizio, nonché violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 252 e 253 c.p.c. Si critica la valutazione come attendibile della deposizione del B. e il giudizio di inattendibilità della deposizione del teste S..
11. Il motivo è inammissibile perché attiene alla valutazione delle risultanze istruttorie, al di fuori del perimetro segnato dall’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., che concerne l’omesso esame di un fatto storico decisivo, idoneo di per sé, ove esaminato, a determinare un esito diverso della controversia (in tal senso v. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014). Peraltro, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 116 c.p.c. e 2697 c.c. può porsi solo allorché sia allegato che il giudice di merito: abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici; abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; abbia invertito gli oneri probatori (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598 del 2016; Cass. S.U. n. 20867 del 2020); in particolare, la violazione dell'art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018, Cass. n. 18092 del 2020), mentre nella specie parte ricorrente lamenta la errata valutazione dei mezzi istruttori.
12. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, legge n. 1369 del 1960, degli artt. 1 e 2 della legge 196 del 1997, degli artt. 1, 20, 21, 27, 28, 29 e ss. d.lgs. n. 276 del 2003, dell’art. 1655 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c. Impugna la sentenza d’appello nella parte in cui ha considerato il periodo precedente al 30.4.2010 coperto dalle statuizioni contenute nel verbale di conciliazione, rinviando ai rilievi di nullità o illegittimità di tale verbale già oggetto del primo motivo di ricorso.
13. Il motivo è assorbito dal rigetto del primo motivo di ricorso.
14. Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, legge n. 1369 del 1960, degli artt. 1 e 2 della legge 196 del 1997, degli artt. 1, 20, 21, 27, 28, 29 e ss. d.lgs. n. 276 del 2003, dell’art. 1655 c.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e all’art. 2697 c.c., per omessa e/o errata valutazione delle prove testimoniali e della documentazione prodotta in giudizio, in riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c. Imputa alla sentenza d’appello di avere, a causa della mancata invalidazione del verbale di conciliazione, omesso di esaminare il terzo motivo di ricorso in appello (trascritto integralmente) relativo alla illegittimità dell’appalto per il periodo anteriore al 30.4.2010. In relazione al periodo successivo alla data suddetta, il ricorrente censura la decisione di secondo grado per omesso esame di un fatto storico decisivo e omesso esame delle prove offerte dal lavoratore (deposizione del teste S., fogli presenze, contratti di noleggio ecc.), atti a dimostrare l’esistenza delle caratteristiche proprie di un appalto non genuino.
15. La prima censura, riferita al periodo anteriore al 30.4.2010, è assorbita dal rigetto del primo motivo di ricorso. La seconda censura è inammissibile per le ragioni già esposte a proposito del secondo motivo di ricorso.
16. Con il quinto motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1345 e 1418 c.c., dell’art. 7 St. Lav., dell’art. 5 dell’atto costitutivo, dell’art. 27, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, cui rinvia l’art. 29 comma 3 bis, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c. Sul presupposto dell’essere pacifica la illegittimità della sospensione dal servizio e dalla retribuzione decisa dalla M.., si deduce che la Corte di merito ha errato nell’escludere la riconducibilità alla committente S. della violazione in ragione di una asserita legittimità dell’appalto, senza considerare che la sospensione è stata disposta a seguito delle rivendicazioni rivolte dal lavoratore verso la committente, a dimostrazione del ruolo della cooperativa quale nudus minister della S.; si sottolinea come la M.., onerata, nulla aveva dedotto a supporto della legittimità della sospensione e che dalla deposizione del teste S. risultava l’assenza di qualsiasi calo di lavoro nel periodo in contestazione.
17. Il motivo è inammissibile, tra l’altro, in quanto non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata che ha rilevato come “nelle conclusioni dell'appello, ripetute anche nel ricorso in riassunzione dopo l'interruzione, risulta rinunciata la domanda svolta in via solidale nei confronti della S. ai sensi dell'art. 1676 c.c. e/o art. 29 d.lgs. 276/03 di condanna al pagamento delle retribuzioni perdute dalla sospensione del rapporto fino a quella della effettiva riammissione in servizio, non essendo stato la domanda riproposta sostituendola con una riserva di agire in separato procedimento” (sentenza d’appello pag. 10).
18. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
19. La regolazione delle spese segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo, dichiarandosi esistenti i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto (Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione in favore della parte controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.