
Se ne occupa la Cassazione con la sentenza in commento.
Una srl, costituita per un terzo ciascuno dai soci, Tizio, Caia e Sempronio, deliberò in data 24 gennaio 2014 di distribuire ai soci le riserve e l'amministratore, in esecuzione della decisione, ripartiva le medesime tra i soci di maggioranza. Due mesi dopo, veniva approvata a maggioranza una delibera con la quale veniva disposta l'abolizione della...
Svolgimento del processo
Emerge dalla sentenza impugnata che s.r.l. E. -Istituto agricolo immobiliare di L., la compagine della quale era composta, per un terzo ciascuno, dai soci S.T., A.P. e M.P., deliberò in data 24 gennaio 2014 di distribuire ai soci le riserve e l’amministratore, in esecuzione della decisione, le ripartì esclusivamente tra i soci di maggioranza; a questa delibera fece seguito quella, approvata a maggioranza in data 28 marzo 2014, con la quale si modificò l’art. 9.2 dello statuto sociale e quindi si dispose l’abolizione della clausola di prelazione interna nel caso di trasferimento di quote tra i soci. Poco dopo, in data 15 aprile 2014, A.P. D.F. trasferì parte della propria quota alla S.T., che così raggiunse il 58,3% del capitale sociale.
Per quanto ancora d’interesse, M.P. D.F. reagì impugnando la delibera di abolizione della clausola di prelazione, che fu dichiarata invalida dal Tribunale di Roma, il quale la ritenne viziata da abuso del voto di maggioranza. Secondo l’attore, difatti, la prospettazione del quale è stata seguita dal tribunale, lo scopo dei soci di maggioranza consisteva nell’emarginarlo, in quanto socio di minoranza, mediante il trasferimento delle quote a una società estera costituente mero schermo d’interposizione della partecipazione al capitale sociale di M.P. D.F. utilizzando le risorse ottenute da S.T. per mezzo della distribuzione della rilevante somma corrispondente a utili accantonati, disposta dalla prima delle due delibere sopra indicate.
Il tribunale rigettò, invece, la domanda di declaratoria dell’inefficacia del negozio di trasferimento delle quote sociali da A.P. D.F. a S.T. perché proposta nei confronti della società, e non già dei soci, parti del contratto.
La Corte d’appello di Roma ha accolto l’appello proposto da s.r.l. E. -Istituto agricolo immobiliare di L..
A sostegno della decisione, il giudice d’appello da un lato ha evidenziato che la delibera del 24 gennaio 2014 era stata approvata all’unanimità col voto favorevole anche di M.P. D.F., il quale non aveva in alcun modo evidenziato quale fosse il danno per la società derivante dall’impiego della provvista così resa disponibile da parte di S.T., né perché fosse pregiudizievole il fatto che la socia divenuta di maggioranza fosse una società estera. Dall’altro, rigettata la censura d’invalidità della successiva delibera del 28 marzo 2014 per il preteso mancato rispetto del quorum deliberativo, la corte territoriale ha sottolineato che M.P. D.F., già in minoranza, in questa condizione sarebbe rimasto anche se la clausola di prelazione non fosse stata abolita. D’altronde, ha aggiunto, non è stata raggiunta la prova della sussistenza dell’interesse personale di S.T. e di A.P. D.F. all’adozione della delibera, nonché che la delibera fosse dannosa per la società.
Contro questa sentenza M.P. D.F. propone ricorso per ottenerne la cassazione, che affida a quattro motivi e illustra con memoria, cui la s.r.l. E. -Istituto agricolo immobiliare di L. replica con controricorso, pure corredato di memoria.
In esito a trattazione in adunanza camerale, ritenuta la questione coinvolta dal giudizio di particolare rilevanza, questa Corte ne ha disposto la trattazione in pubblica udienza, in prossimità della quale il ricorrente ha depositato ulteriore memoria.
Motivi della decisione
1.- Il primo motivo di ricorso, col quale il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., per difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, posto che la società aveva calibrato il proprio appello sul solo difetto di prova dell’abuso di maggioranza per la soppressione della clausola di prelazione, mentre la corte d’appello ha fondato la propria decisione sull’insussistenza di qualsivoglia peggioramento della situazione di socio dovuta a quella soppressione, è infondato.
Nel ragionamento svolto dalla corte territoriale non v’è ultrapetizione.
Il vizio di ultrapetizione o extrapetizione ricorre difatti quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell'azione (petitum e causa petendi) e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato) (Cass. n. 9002/18; n. 8048/19).
1.1.- Il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato riguarda dunque soltanto l'ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (Cass. n. 1616/21): nessuna ultrapetizione si configura qualora il giudice qualifichi i fatti posti a base della domanda o delle eccezioni, anche in difformità rispetto alle indicazioni delle parti, com’è appunto avvenuto nel caso in esame, trattandosi dell’attività volta a garantire l’esatta applicazione della legge (tra varie, Cass. n. 5153/19; n. 13371/23).
Il motivo è rigettato.
2.- Inammissibile è poi il secondo motivo di ricorso, col quale il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., là dove la corte d’appello avrebbe trascurato che, ai fini della domanda proposta dall’attore, poi appellato, sufficiente era la prova della perdita dei diritti conferitigli dallo statuto, dovuta alla soppressione della clausola di prelazione interna, e palesata dal consolidamento ormai definitivo della propria condizione di minoranza.
Non è difatti ravvisabile alcun ribaltamento dell’onere probatorio, in quanto la corte d’appello ha valutato i fatti, perdipiù pacifici quanto al loro accadimento.
3.- Del pari inammissibile è il terzo motivo di ricorso, col quale il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2479, comma 2, n. 4, 2479-ter, commi 3 e 4, 1175 e 1375 c.c., perché la corte d’appello non avrebbe riscontrato l’abuso dei diritti della maggioranza per abuso del diritto di voto o per violazione del principio di buona fede e correttezza.
Col motivo non si censura, difatti, il significato e l’astratta portata applicativa delle norme che vi sono richiamate, bensì la concreta applicazione che il giudice ne ha fatto nel valutare i fatti di causa.
4.- Col quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione, per omesso esame di fatti decisivi, rilevanti in base agli artt. 2479, comma 2, n. 4, 2479-ter, 1175, 1375 e 2697 c.c., perché idonei a dimostrare l’intento di emarginare definitivamente dalla compagine sociale il socio di minoranza, senza consentirgli di aumentare la consistenza della propria partecipazione al capitale sociale con l’acquisto di una percentuale della quota della socia venditrice. In sostanza, col motivo il ricorrente evidenzia che la motivazione della corte d’appello è al di sotto del minimo costituzionale, perché la corte territoriale non mostra di aver percepito le conseguenze scaturenti dalla delibera di abolizione della prelazione interna.
Il motivo, oltre che ammissibile, in quanto basato su fatti pacifici nel loro accadimento della rilevanza dei quali si assume la pretermissione, è fondato, alla luce dei principi fissati da questa Corte nel delineare la fisionomia dell’abuso di maggioranza, ancorati alla regola della buona fede oggettiva, quale canone di valutazione della condotta dei soci in assemblea, esecutiva del contratto di società.
Secondo questa Corte sussiste abuso di maggioranza, che si riverbera sull’annullabilità della delibera con la quale esso si è espresso, qualora il voto non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società, perché volto a perseguire un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure se sia il risultato di un'intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli (Cass. n. 27387/05; n. 15942/07; n. 15950/07; n. 23823/07; n. 20625/20; sez. un., n. 2767/23).
4.1.- Il ricorrente sostiene dunque che l’eliminazione della clausola di prelazione interna abbia determinato la lesione del proprio corrispondente diritto, che gli era stato conferito dallo statuto, e che questa lesione, rilevante di per sé, non sarebbe stato affatto valutata dal giudice d’appello.
È, invece, tramontata la prospettazione del perseguimento dell’interesse contrastante con quello sociale, posto che il ricorrente non ha aggredito le statuizioni contenute nella sentenza impugnata con le quali si è esclusa la fondatezza di questo profilo, in base, per un verso, all’approvazione unanime della delibera che ha procurato a S.T. la provvista usata per acquistare parte della quota della socia A.P. D.F., e, per altro verso, all’irrilevanza della qualità di società estera della socia divenuta di maggioranza.
5.- Questione decisiva sta nello stabilire se l'attore, sul quale grava il relativo onere, abbia fornito, o non, la prova dell'abuso; e giova sottolineare che di regola abuso ed eccesso di potere non sono suscettibili di prova diretta, ma di una valutazione di tipo indiziario, presuntivo, nel rispetto dei canoni di gravità, precisione e concordanza (cfr., al riguardo, Cass. n. 26387/05).
A questa domanda la corte d’appello ha dato risposta negativa, perché, ha considerato, quel socio era già di minoranza e tale sarebbe rimasto anche se la clausola non fosse stata soppressa.
Questa statuizione è tautologica e inconferente, in quanto effettivamente non esamina la rilevanza del vulnus provocato dalla delibera alle prerogative del socio all’interno dell’organizzazione sociale.
5.1.- Si suole riconoscere alla clausola di prelazione rilevanza organizzativa, ossia funzione specificamente sociale, perché essa incide sul rapporto tra l'elemento capitalistico e quello personale della società, nel senso che accresce il peso del secondo elemento rispetto al primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell'ente (Cass. n. 12370/14; n. 24559/15). È inevitabile, tuttavia, che la modifica delle regole organizzative alteri le posizioni organizzative dei soci o anche soltanto le posizioni dei soci nell’organizzazione; in particolare, la soppressione o la modifica di una clausola di prelazione inesorabilmente si riverbera sul deterioramento delle prerogative dei soci.
Il che è ancora più evidente nel caso in cui la clausola sia modificata nel senso di escluderne soltanto gli effetti all’interno della compagine societaria, ossia nel senso di escludere che uno dei soci possa valersene in relazione alle vendite delle quote degli altri soci: un tale ridimensionamento della portata della clausola è idonea a intaccare l’equilibrio dei rapporti interni alla compagine sociale, in quanto elide la parità di chances di ciascun socio, presidiata dalla clausola di prelazione interna, di acquistare la quota di un altro socio, o anche solo parte di essa, e, quindi, di rafforzare la propria posizione all’interno della società.
6.- Dunque, a fronte di un tale deterioramento, quel che rileva è verificare se, nel caso in esame, i soci di maggioranza, con l’adozione della delibera di abolizione della prelazione interna, abbiano agito in modo strumentale per recare un danno ingiustificato al socio di minoranza, eventualmente col proprio particolare e altrettanto ingiustificato vantaggio, in violazione del canone di buona fede oggettiva posto dall’art. 1375 c.c., per il quale ciascun socio ha l’obbligo di consentire che gli altri salvaguardino i propri interessi sociali, ossia le utilità protette dalle prerogative organizzative loro spettanti, se ciò non sia di apprezzabile detrimento per i propri interessi negoziali.
6.1.- Come si è persuasivamente sottolineato in dottrina, qualora si contrappongano, da parte dei soci di maggioranza e di quelli di minoranza, interessi entrambi negoziali, o anche entrambi non negoziali, si dovrà lasciar operare la regola della maggioranza, posto che l'adesione al contratto sociale prestata all'inizio da ciascun socio comporta la disponibilità ad assoggettarsi alle regole del funzionamento dell'assemblea per consentire alla società di assumere tutte le decisioni che l'assemblea reputi idonee al conseguimento del suo scopo.
Proprio in ragione del fatto che il socio deve accettare le limitazioni dei propri diritti in quanto collegate e funzionali, nello spirito stesso del principio di maggioranza, al miglior perseguimento dell'interesse comune riassunto nell'interesse della società, solo quest’obiettivo legittima in radice il sacrificio di quei diritti; di modo che, al cospetto di decisioni limitative o soppressive, tanto più rilevante diventa la verifica della sussistenza di una corrispondenza della decisione di maggioranza al suo scopo «naturale» e proprio.
7.- Ma se a contrapporsi siano interessi negoziali e interessi non negoziali, perché volti a pregiudicare o ad escludere il singolo o una minoranza, il principio di maggioranza non riesce efficacemente ad operare. In tal caso, nel collegamento tra il principio di maggioranza e il suo atto di esercizio, esce alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.
7.1.- Come conseguenza di tale eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti -e i diritti connessi- attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata (in termini, Cass. n. 26541/21).
8.- Nel caso in esame, come ha osservato la Procura generale, l’eliminazione della prelazione interna è avvenuta a ridosso della vendita di parte della quota di una delle socie all’altra socia, posto che la clausola di prelazione interna è stata soppressa con delibera dell’assemblea straordinaria del 28 marzo 2014 e la cessione di quota da A.P. D.F. a S.T. è avvenuta appena diciotto giorni dopo, ossia il 15 aprile 2014.
Un conto è essere socio di minoranza insieme con altri soci, ciascuno di minoranza, il che impone ai soci il raggiungimento di un accordo; altro conto è restare l’unico socio di minoranza, mentre altro socio diviene di maggioranza e quindi in grado di determinare le sorti della società. La Corte d’appello è dunque chiamata a valutare e a spiegare se la successione cronologica degli eventi sia stata volta a impedire al ricorrente l’esercizio del diritto di prelazione e, in particolare, se sia stata volta a impedirgli d’interferire con la vendita delle quote all’altro socio.
8.1.- La censura va quindi accolta, con cassazione della sentenza e rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il secondo e il terzo, accoglie il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al profilo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.