Grava sul lavoratore l'onere di provare la sussistenza del danno e del nesso causale tra l'ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie.
La controversia trae origine dal rigetto della domanda di risarcimento danni avanzata da una lavoratrice nei confronti del personale del Ministero della Giustizia presso il quale aveva prestato servizio con la qualifica di funzionario giudiziario.
In sede di legittimità, la ricorrente censura la critica sul rigetto della domanda di...
Svolgimento del processo
La ricorrente impugna la sentenza con cui la Corte d’Appello di Bologna, confermando la decisione di primo grado del Tribunale della medesima città, in funzione di giudice del lavoro, rigettò la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti in seguito a comportamenti vessatori asseritamente adottati nei suoi confronti dal personale del Ministero della Giustizia, presso il quale aveva prestato servizio con la qualifica di funzionario giudiziario (area III F2).
Il ricorso per cassazione è articolato in tre motivi. Il Ministero si è difeso con controricorso.
Il ricorso è trattato in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., senza che le parti abbiano depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia «violazione o falsa applicazione dell’art. 437, comma 2, c.p.c. (nonché dell’art. 345 c.p.c.) … ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
È oggetto di censura la motivazione della Corte d’Appello nella parte in cui si afferma che la ricorrente, «fin dall’atto introduttivo del giudizio, avrebbe dovuto indicare la declaratoria contrattuale del proprio livello di inquadramento e raffrontare a quest’ultima le mansioni di fatto assegnatele al fine di consentire al Giudice quell’operazione logico-giuridica di confronto tra declaratoria contrattuale di inquadramento ed il contenuto delle mansioni esplicate che costituisce il presupposto indefettibile per la valutazione della lamentata dequalificazione professionale».
1.1. Il motivo, che concentra la critica sul rigetto della domanda di accertamento della dequalificazione professionale, è fondato.
In astratto, il principio affermato dalla Corte territoriale è parzialmente corretto, nel senso che è onere della parte ricorrente allegare e provare gli elementi di fatto posti a fondamento della domanda (secondo il principio generale sancito dall’art. 2697, comma 1, c.c.). Tali elementi di fatto consistono nel livello di inquadramento della lavoratrice e nella descrizione delle mansioni ad essa concretamente assegnate ed effettivamente svolte.
La ricorrente precisa di avere depositato già con il ricorso introduttivo di primo grado – oltre agli ordini di servizio dai quali risultano le mansioni a lei concretamente assegnate – anche il pertinente CCNL, nel quale sono contenute le declaratorie contrattuali corrispondenti ai vari livelli di inquadramento, comprese quelle relative al livello in cui ella era inquadrata. Tale precisazione è tuttavia superflua, perché, nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, il giudice deve conoscere ed applicare il contenuto dei contratti collettivi nazionali a prescindere da qualsiasi allegazione di parte, secondo il principio espresso dal brocardo iura novit curia, valido per le norme di diritto (v., ex multis, Cass. nn. 6394/2019, 19507/2014).
Ciò premesso, ha errato la Corte d’Appello laddove ha affermato che la parte avrebbe dovuto – fin dall’atto introduttivo del primo grado e a pena di decadenza – anche «raffrontare» le mansioni a lei affidate con quelle previste dalla pertinente declaratoria del CCNL. Infatti, una volta «dedotte le mansioni svolte, nonché il comparto e il livello di inquadramento, è dovere del giudice quello di porre a raffronto tali dati con la contrattazione applicabile, per verificare la fondatezza o meno dell’assunto, di cui consiste la domanda, secondo cui l’attività non sarebbe stata coerente con l’inquadramento formale» (così Cass. 7641/2022, con rifermento a un caso – uguale e contrario a quello qui in esame – in cui la domanda era volta ad accertare lo svolgimento di mansioni superiori).
A ben vedere, il «raffronto» tra mansioni effettivamente svolte e mansioni dovute in base all’inquadramento non è un fatto, che deve essere tempestivamente allegato dal lavoratore che propone la domanda, bensì un segmento del percorso argomentativo da seguire per esprimere il giudizio sulla fondatezza o meno della domanda.
L’errore commesso dalla Corte territoriale trapela nell’esplicito riferimento, in motivazione, alle «allegazioni in fatto ed in diritto» che sarebbero state introdotte solo con l’atto d’appello. Oggetto specifico di allegazione sono i fatti, mentre – purché resti ferma la necessaria individuazione di petitum e causa petendi – le argomentazioni a sostegno della domanda possono essere svolte e integrate dalla parte in qualsiasi momento ed anche essere concepite autonomamente dal giudice (Cass. nn. 2146/2006, 18458/2005, 569/1988, 5390/1980).
Poiché la ricorrente afferma e documenta di avere tempestivamente allegato il proprio livello di inquadramento e le mansioni effettivamente assegnatele, si deve concludere che il nucleo essenziale ed esclusivo delle mancate «allegazioni in fatto ed in diritto» di cui alla motivazione della sentenza impugnata va individuato proprio nella mancanza del raffronto, nel ricorso introduttivo di primo grado, tra mansioni dovute e mansioni svolte. Pertanto, la sentenza sul punto è errata e il primo motivo di ricorso deve essere accolto.
2. Il secondo motivo di ricorso denuncia «violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e 2043 c.c., anche alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 32 e 97 Cost. nonché degli orientamenti della Suprema Corte sottesi alle categorie giurisprudenziali di mobbing e straining … ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.».
3. Con il terzo motivo si denuncia «nullità della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost. e 132, n. 4, c.p.c. … ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.».
4. I due motivi sono entrambi volti a censurare – sotto i diversi profili della violazione di legge e dell’assenza di una comprensibile motivazione – il rigetto della domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno alla salute subito a causa di condotte del datore di lavoro (o, meglio, di altri suoi dipendenti) qualificabili come mobbing o, alternativamente, straining. Essi vanno quindi trattati congiuntamente, per la stretta connessione logica e giuridica, e sono da considerare fondati, per quanto di ragione, nei termini e nei limiti di seguito precisati.
4.1. La sentenza non si presta a censure nella parte in cui ha motivato l’accertamento negativo del mobbing lavorativo. Quest’ultimo, secondo l’ormai consolidata definizione di origine giurisprudenziale, «è configurabile … ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima» (Cass. n. 7641/2022, citata, che richiama anche le precedenti Cass. nn. 12437/2018 e 26684/2017).
La Corte emiliana ha esaminato sia il profilo oggettivo (riscontrando, con apprezzamento non sindacabile in questa sede, che «risulta la prova positiva di pochissimi episodi»), sia quello soggettivo (escludendo che quei «pochissimi episodi» fossero manifestazione di un unificante intento persecutorio).
4.2. Ha invece errato, il giudice del merito, laddove ha ritenuto sufficiente escludere la configurabilità del mobbing lavorativo per rigettare totalmente la domanda di risarcimento del danno proposta dalla lavoratrice, nonostante l’ambito della responsabilità del datore di lavoro per il pregiudizio alla salute e alla personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) sia ben più ampio di quello occupato dalla specifica, e più grave, fattispecie del mobbing.
Tale carenza è tanto più vistosa dal momento che la Corte d’Appello ha dato atto degli esiti, «integralmente condivisi», della c.t.u. medico-legale svolta in primo grado, la quale «ha chiaramente evidenziato che il disturbo dell’adattamento con aspetti emotivi ansioso depressivi di grado moderato e cronico sofferto dalla [ricorrente] si pone in nesso di causalità con la dequalificazione professionale» e che «i singoli episodi esaminati hanno inciso esclusivamente in termini di temporaneo aggravamento in un quadro generale già strutturato prima del settembre 2009».
Ora, a parte la grave contraddizione tra l’affermare che gli esiti della c.t.u. sono «integralmente condivisi» e il negare il rapporto causale tra dequalificazione e malattia (aspetto che dovrà comunque essere riconsiderato previo riesame della causa in seguito all’accoglimento del primo motivo di ricorso per cassazione), non si vede come la Corte d’Appello abbia potuto rigettare integralmente la domanda di risarcimento del danno alla salute pur affermando l’esistenza di un «temporaneo aggravamento» della malattia dovuto proprio all’ambiente di lavoro stressogeno e ai «singoli episodi esaminati», la cui illiceità non è eliminata dal giudizio che non sono tra di loro unificati dall’intento persecutorio.
Questa Corte ha già avuto diverse volte occasione di affermare che la riscontrata assenza degli estremi del mobbing non fa venire meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute dei lavoratori.
Infatti, «è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori …, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civ.» (Cass. 3692/2023, che cita a sua volta Cass. n. 3291/2016).
Ciò fermo restando che l’art. 2087 c.c. non prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro per i danni subiti dai lavoratori a causa dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma lo onera della prova di avere adottato tutte «le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (v. Cass. nn. 24804/2023, 34968/2022, 33239/2022, 29909/2021, 14192/2012, 4184/2006).
In tali misure rientra senz’altro la prevenzione e, ove possibile, la rimozione di un «clima lavorativo teso e caratterizzato da reciproche incomprensioni» (pag. 7 della sentenza impugnata; sulla conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, v. Cass. n. 26684/2017).
5. In definitiva, accolto il ricorso, per quanto di ragione, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze per decidere, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, attenendosi ai seguenti principi di diritto:
«nell’ambito del pubblico impiego, in una causa avviata dal lavoratore per lamentare un danno da dequalificazione professionale, il lavoratore ha l’onere di allegare le mansioni effettivamente svolte, nonché il comparto di appartenenza e il proprio livello di inquadramento, mentre è dovere del giudice porre a raffronto tali dati con la contrattazione applicabile, per verificare la fondatezza o meno dell’assunto secondo cui l’attività non sarebbe stata coerente con l’inquadramento formale;
in caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; su quest’ultimo grava l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie».
6. Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Firenze, anche per decidere sulle spese legali del presente giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi della ricorrente riportati nell’ordinanza.