Svolgimento del processo
Il Tribunale di Roma ha rigettato, con sentenza n. 56/2015, la domanda proposta da M.V., già dipendente ISPESL, poi confluito nell’INAIL, al fine di ottenere la condanna di quest’ultimo ente a pagare in suo favore il complessivo importo di € 841.078,54 a titolo di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta tenuta nei suoi confronti dal menzionato ISPESL nel periodo dall’8 luglio 1998 al 31 marzo 2003, consistita in comportamenti mobbizzanti e vessatori.
M.V. ha proposto appello che la Corte d’appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 733/2019, ha rigettato.
M.V. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.
L’INAIL si è difeso con controricorso.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e l’errore di percezione sulla ricognizione del contenuto oggettivo delle prove documentali offerte.
La doglianza è inammissibile in quanto, con essa, il ricorrente chiede, nella sostanza, a questo Collegio di riesaminare le prove agli atti, attività non consentita in questa sede.
In particolare, si rileva che la Corte d’appello di Roma ha esaminato in maniera estremamente puntuale i motivi d’impugnazione e la documentazione agli atti alle pagine da 3 a 16 della sentenza contestata.
Essa ha chiarito, soprattutto, che legittimamente era stato inviato alla Conferenza Network Italiani - ISPESL in posizione di preminenza il coordinatore della X unità, in ragione del ruolo da lui svolto e del fatto che era stato proprio il ricorrente a rifiutarsi (e ciò non era stato negato in appello) di prendervi parte assieme al suo superiore, del quale non riconosceva la competenza tecnica.
Inoltre, ha evidenziato che il c.d. blocco delle relazioni di consulenza tecnica era avvenuto in quanto il ricorrente le aveva redatte disapplicando le parti della Conferenza da lui ritenute contrarie al contenuto del d.m. n. 381 del 1998 e che tale circostanza, rilevata dal Tribunale di Roma, non era stata criticata in appello. Per ciò che concerne la partecipazione ad eventi esterni, il giudice di appello ha verificato che le mancate autorizzazioni lamentate dal ricorrente erano avvenute nel rispetto della Circolare 2390 del 2000 della P.A. controricorrente e che il medesimo ricorrente non aveva allegato una specifica discriminazione in suo danno.
Il c.d. furto di ferie, poi, secondo la corte territoriale non ha avuto carattere discriminatorio, atteso che l’attività svolta fuori sede nei giorni interessati non era stata autorizzata e che era stato il ricorrente a domandarne la concessione. La Corte d’appello di Roma ha escluso, quindi, ogni rilievo della dedotta sottrazione degli strumenti di lavoro, poiché la relativa assegnazione ad altra stanza era avvenuta in ragione dell’avvenuta recente assegnazione presso l’unità in questione di cinque nuovi dipendenti, le esigenze dei quali erano state segnalate proprio dal ricorrente.
Quanto alle proposte di ricerca sottratte dalla valutazione scientifica per il piano triennale 1999-2002, il giudice d’appello ha accertato che queste erano state parzialmente accolte, che, alla fine, il piano di attività non era stato approvato e che erano state in seguito ritirate in un caso perché la competenza apparteneva ad altro dipartimento e, nell’altro, in quanto mancavano dati o informazioni sugli sviluppi della ricerca stessa.
I giudici del merito hanno pure escluso un’illecita appropriazione di ricerche sui campi elettromagnetici, in quanto non vi era stata la dedotta “scopiazzatura” di un lavoro del ricorrente che, comunque, era stato indicato come partecipante al lavoro quale “tecnologo”, con il superiore del medesimo ricorrente che era stato riportato come responsabile in quanto coordinatore dell’unità funzionale.
Per ciò che riguarda la mancata pubblicazione di uno studio scientifico, la corte territoriale ha evidenziato come questa non fosse obbligatoria e, comunque, non fosse stata dimostrata. Peraltro, ha sottolineato che la responsabilità di tale presunta violazione non era stata neppure attribuita al coordinatore del ricorrente.
In ordine al dedotto “errore di percezione sulla ricognizione del contenuto oggettivo delle prove documentali offerte”, si evidenzia, altresì, che il travisamento del contenuto oggettivo della prova ricorre, comunque, in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trovando il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, ove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass., SU, n. 5792 del 5 marzo 2024).
Nella specie, palesemente non emerge la verificazione di una tale svista.
Pertanto, dovrebbe essere applicato il principio per il quale, “se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti”, il vizio va fatto valere ai sensi dell'art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale (Cass., SU, n. 5792 del 5 marzo 2024).
Nel caso in questione, però, come già sottolineato, il ricorrente ha domandato, in concreto, una rivalutazione nel merito delle risultanze istruttorie, che è preclusa a questo Collegio.
A queste considerazioni consegue, quindi, l’inammissibilità delle censure relative al risarcimento del danno avanzate dal ricorrente con il suo primo motivo.
2) Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato e l’infrapetizione in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel considerare assorbito il 14° motivo di appello e nel non motivare quanto alle richieste di mezzi istruttori che erano state avanzate. Infatti, il Tribunale di Roma avrebbe operato in maniera parziale.
La doglianza è inammissibile.
Infatti, come sopra esposto, la Corte d’appello di Roma ha valutato con cura le prove agli atti e risposto con piena motivazione a tutte le doglianze del ricorrente, al rigetto delle quali non poteva non conseguire l’assorbimento della 14° censura.
Peraltro, detto assorbimento non può essere contestato deducendo il vizio di omessa pronuncia, atteso che in tale caso, la pronuncia non è omessa, se non in senso formale, ma deriva implicitamente dalla decisione di assorbimento, né è resa in assenza di motivazione, in quanto la ragione del decisum è, appunto, nell’affermazione del carattere assorbente della questione esaminata, affermazione alla quale, se l’assorbimento è correttamente dichiarato, non occorre aggiungere null’altro per assolvere agli oneri motivazionali imposti dall’art. 132 c.p.c. (Cass., Sez. L, n. 20020 del 21 giugno 2022, non massimata). Estremamente generica è, poi, la contestazione di parzialità del primo giudice.
Nulla è detto di rilevante, infine, quanto alla decisività dei mezzi di prova menzionati nel ricorso.
3) Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 1173, 1174, 1218, 2087 e 2697 c.c., 2 Cost. e dei principi in tema di risarcimento danni.
Egli afferma, principalmente, che la corte territoriale avrebbe errato nel non tenere conto che il datore di lavoro avrebbe dovuto provare la non sussistenza dell’inadempimento e dei danni lamentati e dell’elemento soggettivo, rappresentato dal disegno persecutorio.
La doglianza è inammissibile, in quanto il ricorrente, oltre a cercare surrettiziamente di ottenere da questo Collegio una nuova valutazione di merito degli atti di causa al fine di superare l’accertamento in fatto della corte territoriale, non tiene conto che il giudice di appello non solo ha negato fossero stati provati il dedotto intento persecutorio in suo danno e l’esistenza di un pregiudizio causalmente riconducibile all’inadempimento lamentato, ma, anzi, ne ha affermato la non ricorrenza, il che esclude che possa prospettarsi una violazione dei principi in tema di ripartizione dell’onere della prova.
Soprattutto, sono non condivisibili, per le ragioni di seguito esposte, le considerazioni del medesimo ricorrente concernenti il mancato rispetto dell’art. 2697 c.c.
Al riguardo, si deve chiarire che le fattispecie comunemente qualificate come mobbing sono riconducibili a violazioni dell’art. 2087 c.c. e, quindi, integrano ipotesi di responsabilità contrattuale.
Le vicende di mobbing si caratterizzano, però, rispetto alle altre infrazioni dell’art. 2087 c.c., per il fatto di assumere rilievo principalmente in presenza di una serie di condotte legittime del datore di lavoro che siano unificate da un intento persecutorio le quali, nonostante la formale correttezza dell’operato del detto datore, rappresentano, comunque, un inadempimento agli obblighi derivanti dall’art. 2087 c.c. proprio in ragione di tale intento.
In effetti, la presenza di una volontà vessatoria potrebbe emergere anche in presenza di una condotta illegittima del datore di lavoro, ma ciò non assumerebbe una particolare valenza ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 2087 c.c., la quale già deriverebbe dal comportamento datoriale.
La comune responsabilità contrattuale, essendo collegata all’inadempimento di un’obbligazione contrattuale (ad esempio, quella che individua le mansioni del dipendente o quella sulla sicurezza dell’ambiente di lavoro, meglio definita dal d.lgs. n. 81 del 2008) segue le regole ormai consolidate della giurisprudenza, in base alle quali, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (Cass., SU, n. 13533 del 30 ottobre 2001). Più precisamente, in ambito lavorativo, la S.C. ha chiarito che, posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 c.c., sul piano della ripartizione dell’onere probatorio al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito (se lamentato), mentre non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante (Cass., Sez. L, n. 12445 del 25 maggio 2006).
Con riferimento ai casi di mobbing, invece, occorre tenere conto che questa figura assume rilievo, come detto, in presenza di condotte datoriali legittime che diventano inadempimenti in ragione della presenza di un intento persecutorio.
Gli elementi che caratterizzano il mobbing sono, quindi, dei fattori di rischio che esprimono la nocività dell’ambiente di lavoro e rendono qualificabile come inadempimento azioni e omissioni che, in assenza di siffatti elementi, non sarebbero contestabili.
Ne deriva che il lavoratore che denunci la ricorrenza di un’ipotesi di mobbing deve non solo allegare l’inadempimento datoriale e provare il titolo del suo diritto, il danno eventualmente subito e il nesso causale fra detto inadempimento e il pregiudizio lamentato, ma, in aggiunta a ciò, è tenuto a dimostrare anche il menzionato intento persecutorio (Cass., Sez. L, n. 10992 del 9 giugno 2020).
Pertanto, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, l’onere di provare l’elemento soggettivo del mobbing grava, per le ragioni esposte, sul lavoratore e non sulla P.A.
4) Con il quarto motivo il ricorrente contesta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (motivazione apparente) atteso che la corte territoriale non avrebbe basato la sua decisione sui documenti agli atti, ma sulle deduzioni della P.A. controricorrente.
La doglianza è inammissibile, in quanto, come emerge dall’esame dei precedenti motivi di ricorso, il giudice di appello ha motivato in maniera completa la decisione.
5) Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1173, 1218 e 2087 c.c. e dei principi in tema di risarcimento del danno per erronea ritenuta insussistenza degli elementi costitutivi del mobbing e del correlato diritto al risarcimento del danno.
La doglianza è inammissibile, atteso che, come rilevato anche sopra, il ricorrente chiede, nella sostanza, a questo Collegio un’illegittima rivalutazione degli atti di causa al fine di sostituire un nuovo giudizio di merito a quello compiuto, con motivazione completa, dalla corte territoriale.
6) Il ricorso è dichiarato inammissibile, in applicazione dei seguenti principi di diritto:
“Le ipotesi di mobbing costituiscono violazioni dell’art. 2087 c.c. e, quindi, integrano fattispecie di responsabilità contrattuale che si caratterizzano, rispetto alle altre infrazioni del menzionato art. 2087 c.c., per il fatto di assumere rilievo principalmente in presenza di una serie di condotte legittime del datore di lavoro unificate da un intento persecutorio le quali, nonostante la formale correttezza dell’operato del detto datore, rappresentano, comunque, proprio in ragione di tale intento, un inadempimento agli obblighi derivanti dal citato art. 2087 c.c.”; “Il lavoratore che lamenti la violazione della prescrizione dell’art. 2087 c.c. è tenuto, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, a riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo in questione nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui eventualmente subito, mentre non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante; peraltro, ove denunci la ricorrenza di un’ipotesi di mobbing, egli deve non solo allegare l’inadempimento datoriale e provare il titolo del suo diritto, il danno asseritamente subito e il nesso causale fra detto inadempimento e il pregiudizio lamentato, ma anche dimostrare l’intento persecutorio di controparte”.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
- dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in complessivi € 7.000,00 per compenso, oltre € 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;
- attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.