Svolgimento del processo
1. Oggetto dell'impugnazione è la sentenza con la quale la Corte d'appello di Torino, confermando sostanzialmente la condanna pronunciata in primo grado (riformata solo in termini di trattamento sanzionatorio), ha ritenuto M. M. responsabile del reato di violenza privata continuata commessa ai danni di alcuni tifosi nel corso di due diverse manifestazioni calcistiche.
2. Propone ricorso per cassazione l'imputato articolando sei motivi d'impugnazione.
2.1. Il primo, formulato sotto i profili della violazione di legge (in relazione all'art. 610 cod. pen.) e del connesso vizio di motivazione, attiene alla ritenuta sussistenza del reato di violenza privata.
La difesa premette che il tifo sportivo, al pari di altre forme di manifestazione, ha bisogno di un'attività organizzativa interna tale da regolare non solo il comportamento dei propri associati, ma, più in generale, anche di tutti coloro che si uniscono alla manifestazione stessa. Ebbene, l'attività di delimitazione del settore con il nastro adesivo (alla quale era preposto il M.), rientrando nella normale e ordinaria attività organizzativa connessa al libero esercizio del tifo sportivo, non solo non potrebbe ontologicamente sussumersi all'interno della fattispecie contestata, ma rappresenterebbe essa stessa esercizio di un diritto, posto in essere, peraltro, nel pieno rispetto delle prerogative altrui. D'altronde, le stesse persone offese avrebbero dato atto dell'assenza di qualsivoglia tono intimidatorio, nonostante il particolare contesto ove le condotte sarebbero state poste in essere e la particolare forma di manifestazione del linguaggio utilizzata all'interno degli stadi.
2.2. Il secondo e il quarto, anch'essi formulati sotto il profilo della violazione di legge (in relazione agli artt. 51, 55 e 59 cod. pen.) e, il secondo, anche sotto quello del connesso vizio di motivazione, attengono ugualmente al profilo della ritenuta responsabilità, seppur valutata sotto il profilo della sussistenza della scriminante dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere. La difesa, infatti, sostiene che le condotte contestate, in quanto svolte nell'ambito del tifo organizzato, troverebbero copertura costituzionale nella libertà di riunione in luogo aperto al pubblico o nella libertà di associazione (artt. 17 e 18 Cost). Il M., infatti, null'altro avrebbe compiuto se non contribuire alla gestione dell'attività di posizionamento degli striscioni senza impedire ad alcuno di sedersi in curva, ma solo indicando di sedersi in un altro posto all'interno del medesimo settore. Tanto renderebbe configurabile, ad avviso della difesa, le scriminanti invocate, quantomeno sotto il profilo putativo o dell'eccesso colposo. Cosicché nulla sarebbe imputabile al ricorrente, quantomeno sotto il profilo soggettivo, essendo convinzione di quest'ultimo che la delimitazione della curva fosse legittima attività di organizzazione del tifo sportivo.
2.3. Il terzo deduce, invece, la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui il M. sarebbe stato condannato nonostante altri soggetti, che hanno concorso nei medesimi fatti, siano stati prosciolti; e ciò in presenza degli stessi elementi oggettivi e soggettivi in forza dei quali è stata ritenuta la responsabilità del ricorrente. Illogicità ancor più manifesta alla luce del principio della pari responsabilità cristallizzato nell'art. 110 del codice penale.
2.4. Il quinto, formulato sotto i profili della violazione di legge, dell'inosservanza di norma processuale e del connesso vizio di motivazione (in relazione agli artt. 189, 192, 213 e 214 cod. proc. pen.) deduce che la Corte d'appello avrebbe fondato la responsabilità del ricorrente sulle sole dichiarazioni degli agenti di polizia giudiziaria che, nelle loro annotazioni, asseriscono di aver riconosciuto il M. in alcuni fotogrammi estrapolati dalle videoregistrazioni effettuate. Così attribuendo a tali riconoscimenti la natura di prova assoluta e inconfutabile, in violazione dei principi normativi e giurisprudenziali che regolano la valutazione degli elementi probatori.
2.5. Il sesto, in ultimo, formulato sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione (in relazione agli artt. 163 e 164 cod. pen.), attiene al mancato riconoscimento della sospensione condizionale, esclusa alla luce di una motivazione meramente assertiva.
Motivi della decisione
Il ricorso è, complessivamente, inammissibile.
1. Va premesso che, nella ricostruzione offerta dai giudici di merito, le condotte contestate si inseriscono in un più ampio quadro caratterizzato da una pluralità di azioni volte, per quel che rileva in questa sede, ad interdire alcune parti della curva ai tifosi non appartenenti alla tifoseria organizzata (anche mediante la delimitazione degli spazi interdetti a mezzo di nastri) e al materiale allontanamento dei tifosi "ordinari", dotati di regolare biglietto, dai posti da riservare agli appartenenti ai gruppi "ultras".
Le condotte contestate sono state attribuite al ricorrente alla luce delle immagini estrapolate dai filmati delle videoregistrazioni effettuate dalla polizia giudiziaria, successivamente riversate nelle relative annotazioni.
Ebbene, in linea di principio, il riconoscimento dell'imputato nel soggetto ritratto nei fotogrammi estratti dalla registrazione effettuata dalle telecamere di sicurezza presenti sul luogo di consumazione del delitto, operato da parte del personale di polizia giudiziaria che vanti pregressa personale conoscenza dello stesso, ha valore di indizio grave e preciso a suo carico, la cui valutazione, tuttavia, è rimessa al giudice di merito (Sez. 2, n. 45655 del 16/10/2014, Bennato, Rv. 260791).
Parallelamente, gli atti formati unilateralmente dalla polizia giudiziaria riproducono, seppur nella dimensione cartolare, una prova dichiarativa e devono essere valutati liberamente, in base ai parametri che regolano l'apprezzamento di queste ultime, ove compatibili, in conformità ai criteri generali di valutazione (Sez. 3, n. 16977 del 22/03/2022, Casanova, Rv. 283069).
Ebbene, la Corte territoriale, facendo corretta applicazione di tali principi, ha dato atto della precisa identificazione del M. da parte degli agenti della Digos; della piena attendibilità di tale identificazione, effettuata da operanti che da tempo seguivano con regolarità le iniziative e le attività della tifoseria (omissis), e dunque ben conoscevano le effigie degli appartenenti ai gruppi ultras; della disponibilità da parte della difesa dei filmati me/desimi, versati agli atti per consentire la verifica processuale di tale riconoscimento.
A fronte ciò, la difesa si è limitata a contestare genericamente la valutazione offerta dai giudici di merito, senza allegare, neanche in questa sede, alcun concreto elemento di inattendibilità dell'individuazione medesima.
La censura (sollevata con il quinto motivo di ricorso), quindi, non solo è manifestamente infondata (quanto all'asserita erroneità della valutazione), ma anche generica nella sua formulazione (omettendo di enunciare le ragioni di una pur prospettata inattendibilità). E, in quanto tale, indeducibile.
2. Ciò considerato, le condotte per le quali il M. è stato ritenuto responsabile sono riconducibili a due diverse manifestazioni sportive: la partita (omissis) del 24 novembre 2018 (durante la quale il M. veniva individuato mentre delimitava il settore con il nastro adesivo e, con atteggiamento intimidatorio, imponeva a diversi tifosi di spostarsi e di andare a sedere dove lui indicava) e la partita (omissis) del 7 dicembre 2018 (durante la quale il M., coadiuvato da tale T. L., dopo aver appeso gli striscioni e delimitato l'accesso ad alcune aree, imponeva a numerosi tifosi di spostarsi e di prendere posto altrove, facendo allontanare, in particolare, in malo modo, tale F. Z., avvicinandogli il capo fino ad appoggiare la sua fronte a quella del giovane con fare di sfida e indicandogli col braccio di tornare sugli spalti).
Il ricorrente deduce (secondo e quarto motivo), per come si è detto, che l'attività di delimitazione del settore con il nastro adesivo (alla quale era preposto il M.) rientrerebbe nella normale e ordinaria attività organizzativa connessa al libero esercizio del tifo sportivo, per cui non solo non potrebbe ontologicamente sussumersi all'interno della fattispecie contestata, ma rappresenterebbe essa stessa esercizio di un diritto costituzionalmente rilevante (la libertà di riunione o di associazione: artt. 17 e 18 Cost.), posto in essere, peraltro, nel pieno rispetto delle prerogative altrui.
Le censure sono tutte manifestamente infondate.
Al ricorrente, per come si è detto, è contestato il reato di violenza privata, per aver imposto a diversi tifosi di spostarsi e di andare a sedere dove lui indicava, delimitando lo spazio "riservato" ed assumendo atteggiamento violento e minaccioso.
La relativa previsione normativa (art. 610 cod. pen.) tutela la libertà morale di ciascuno (quale essenziale forma di manifestazione della più ampia libertà individuale), sotto il profilo della libertà di ciascuno di autodeterminarsi spontaneamente, orientando i propri comportamenti in conformità alle decisioni liberamente prese (Sez. 5, n. 11522 del 03/03/2009, Fabro, Rv. 244199).
La condotta si identifica nell'uso della violenza (anche impropria, realizzata attraverso condotte ostruzionistiche: Sez. 5, n. 40482 del 18/05/2018, Cutina) o nella minaccia (non necessariamente verbale) e, in generale in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente la persona offesa della libertà di azione e di determinazione (Sez. 5, n. 3991 del 14/12/2022, dep. 2023, C., Rv. 283961) o anche solo a rendere disagevole una lecita modalità di esplicazione del diritto nella titolarità della persona offesa (Sez. 5, n. 1053 del 06/10/2021, dep. 2022, Cinefra, Rv. 282467); in tal modo realizzando l'evento naturalistico del reato, rappresentato dalla condotta posta in essere dal soggetto coartato (fare, tollerare o omettere qualcosa).
Tale condotta, tuttavia, ancorché violenta o minacciosa, può, in linea di principio, essere legittimamente posta in essere, ove imposta da altra specifica norma giuridica (come nell'ipotesi del dovere di soccorso, prescritto dall'art. 593 cod. pen., che giustifica l'eventuale condotta violenta, astrattamente rientrante nel perimetro normativo dell'art. 610 cod. pen., utilizzata, ad esempio, per impedire un suicidio: Sez. 5, n. 1770 del 09/02/1984, Troncon, Rv. 162866), ma non può mai trovare la sua giustificazione nell'esercizio di paralleli diritti, ancorché questi ultimi manifestazione di libertà fondamentali (quali lo sciopero, la riunione o la manifestazione del pensiero), perché, all'evidenza, l'esercizio del diritto non può trasmodare nella parallela lesione di interessi altrui. In questi casi, la condotta violenta non è più esercizio di libertà (concetto che, ontologicamente, presuppone il rispetto di quella altrui e solo in tali limiti può essere riconosciuta), ma solo lesione di diritti, condotta (violenta o minacciosa) rispetto alla quale non può mai ritenersi applicabile la scriminante di cui all'art. 51 cod. pen. (Sez. 5, n. 7084 del 16/10/2015, dep. 2016, P., Rv. 266063).
Ciò considerato, in concreto, la concorde ricostruzione offerta dai giudici di merito dà atto che il M. ha concretamente impedito a terze persone di utilizzare parte della balconata dello stadio, utilizzando atteggiamenti evidentemente minacciosi (analiticamente descritti nella sentenza impugnata, per entrambi gli episodi), attraverso i quali ha consapevolmente imposto alle persone offese la propria volontà, coartando la loro. Ebbene, anche a voler aderire alla ricostruzione prospettata dalla difesa (secondo cui il M. era "incaricato" di fissare gli striscioni nel corso della manifestazione sportiva), tanto, alla luce di quanto sinteticamente osservato, non può legittimare una prevaricazione della volontà altrui.
Alla luce di quanto evidenziato dalla Corte territoriale, quindi, risultano integrati gli estremi del reato contestato, in tutti i suoi elementi, e provata la conseguente responsabilità del ricorrente.
3. Il terzo è inammissibile in quanto deduce circostanze irrilevanti ai fini della valutazione di responsabilità del ricorrente. Così come, in caso di sentenza di assoluzione di due coimputati per il medesimo reato, contestato nell'ambito del medesimo procedimento, la scelta insindacabile del pubblico ministero di non proporre impugnazione contro il proscioglimento nel merito di uno degli stessi, non determina alcun effetto preclusivo ai fini dell'impugnazione della sentenza assolutoria nei confronti dell'altro coimputato (Sez. 2, n. 32033 del 21/03/2019, Berni, Rv. 277512), anche la relativa assoluzione (nei confronti del coimputato nel medesimo reato), in sé, non determina alcuna illogicità della motivazione di condanna a carico dell'altro imputato condannato.
4. Il sesto, in ultimo, è, anch'esso manifestamente infondato. Com'è noto, infatti, il giudice ha, sì, l'onere di indicare le emergenze processuali determinanti per la formazione del proprio convincimento, così da consentire l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata, ma il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame diviene irrilevante ove essa sia disattesa dalla motivazione complessivamente considerata (Sez. 3, n. 3239 del 04/10/2022, dep. 2023, T., Rv. 284061).
Ebbene, in concreto, la Corte ha esplicitamente evidenziato come i numerosi procedimenti penali (anche gravi) emersi a carico dell'imputato abbiano precluso la formulazione di una prognosi positiva in ordine al futuro comportamento dell'imputato.
La motivazione è dettata con specifico riferimento all'invocata possibilità di una sostituzione della pena detentiva, ma, all'evidenza, essendo fondata sui medesimi elementi rilevanti anche ai fini del riconoscimento della sospensione condizionale (anch'essa fondata sulla medesima valutazione prognostica), è idonea a giustificarne l'esclusione.
D'altronde, il ricorrente nulla argomenta in ordine alle ragioni per cui i precedenti valutati dalla Corte territoriale non siano impeditivi rispetto alla formulazione di un positivo giudizio prognostico. Tanto più che a carico del ricorrente risultano plurime condanne definitive anche per reati gravi: lesioni personali colpose in concorso, omicidio colposo in concorso (condanna per la quale era stata riconosciuta la sospensione condizionale della pena, poi revocata), rissa, ricettazione (per la quale la pena è stata sostituita con la libertà controllata), plurimi fatti di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti (in relazione al quale era stata concesso l'affidamento in prova ai servizi sociali, poi revocata), estorsione. Elementi tutti ostativi al riconoscimento del beneficio invocato.
5. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.