
Svolgimento del processo
1. Con decreto n. cronol. 59/2022, la Corte d’appello di Palermo respinse il ricorso con cui la dante causa dell’attuale ricorrente, A. Z., nella qualità di erede di G. T., aveva chiesto l'indennizzo per la non ragionevole durata del giudizio da lui instaurato il 13/9/2004, deciso nel 2009, in primo grado, con sentenza n. 5565/2009, proseguito e quindi conclusosi in appello nel 2016 con sentenza n. 939/2016 e, infine, a seguito di impugnazione per revocazione, definito nel 2021 con sentenza n. 219/2021 della stessa Corte d’appello di Palermo.
La Corte rigettò la domanda di equa riparazione rilevando che A. Z. aveva agito quale erede, ma il de cuius era deceduto in pendenza del giudizio di primo grado, prima che maturasse il triennio di durata ragionevole; quanto al giudizio di revocazione, instaurato anche nei confronti di Z. e conclusosi nel 2021, la Corte d'appello escluse il diritto all’indennizzo per non essere stato proposto il rimedio acceleratorio del 281 sexies cod. proc. civ., come previsto dagli art. 1 bis e 1 ter legge 89/2001.
2. Avverso questo decreto G. T., figlia ed erede di A. Z., ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi, a cui il Ministero ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo che, pur in mancanza di indicazione di una delle cinque ipotesi tassativamente previste quali vizi di legittimità, può intendersi articolato in riferimento al n. 3 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la ricorrente ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli articoli 100 e 300 cod. proc. civ.: la Corte di merito non avrebbe tenuto conto che quando il difensore della parte costituita deceduta non dichiara l'evento interruttivo, il processo prosegue tra le parti originarie, a prescindere da ogni questione sull’opponibilità della sentenza contro i successori.
1.1. Il motivo è infondato. Come ha chiaramente spiegato la Corte d’appello nella sua motivazione, la parte deceduta anteriormente al decorso del termine di ragionevole durata del processo presupposto non ha subito alcun pregiudizio e, perciò, evidentemente, non ha maturato alcun diritto all’indennizzo; conseguentemente, il suo avente causa non può pretendere alcun indennizzo a titolo ereditario.
D’altro canto, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo iure proprio soltanto per il periodo successivo all’assunzione della qualità di parte formale del giudizio, per essere stato dichiarato l’evento interruttivo e riassunto il giudizio nei suoi confronti o per essersi egli comunque costituito in giudizio.
Il processo presupposto, infatti, in mancanza della dichiarazione dell’evento interruttivo, prosegue tra le parti originarie, se il procuratore omette di dichiarare o di notificare l'evento, perché la posizione giuridica della parte da lui rappresentata, in forza del principio di ultrattività del mandato, resta stabilizzata, rispetto alle altre parti e al giudice: la presenza in giudizio del procuratore ad litem, infatti, assicura e garantisce il rispetto del contraddittorio per sé sola e non pregiudica alcun diritto dei successori della parte deceduta perché l'esercizio dell'attività tecnica difensiva è di esclusiva competenza del procuratore (Cass. S.U. n. 15295 del 2014).
Da un canto, allora, proprio l’autonoma rilevanza della difesa tecnica ai soli fini della prosecuzione del giudizio esclude che la parte deceduta possa concretamente subire un pregiudizio dal superamento della durata ragionevole del giudizio verificatosi soltanto dopo la sua morte, quando ogni tipo di sofferenza è già per lei cessata.
D’altro canto, la prosecuzione del giudizio tra le parti originarie per scelta del difensore esclude pure che l’erede possa subire un pregiudizio da irragionevole durata prima di aver assunto la qualità di parte in senso formale: in tal senso, l’equiparazione con la posizione del contumace è priva di fondamento giuridico perché il contumace ha, invece, comunque assunto la qualità di parte (Cass. Sez. 6 - 2, n. 3001 del 03/02/2017).
2. Con il secondo motivo, che, ugualmente non riferito esplicitamente ad una delle cinque ipotesi tassativamente previste quali vizi di legittimità, deve intendersi articolato in relazione ai nn. 3 e 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., la ricorrente ha denunciato «la violazione e falsa applicazione degli art. 2 e 2 comma 2 sexies della legge 89/2001 come modificato dalla l. 208 del 2015 e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio» (così in ricorso): il giudice del merito avrebbe erroneamente ritenuto che la dante causa Z., personalmente convenuta nel giudizio per revocazione della sentenza fosse rimasta contumace e avrebbe interpretato l'articolo 2 «in modo da mettere a repentaglio la garanzia costituzionale del diritto di difesa» perché avrebbe ritenuto indispensabile la proposizione da parte sua di un rimedio acceleratorio nonostante la peculiarità del giudizio di revocazione che coinvolgeva oltre cinquanta parti e che, instaurato nel luglio 2016, alla prima udienza celebratasi nel gennaio 2017 ancora non risultava correttamente instaurato nei confronti di tutte le parti.
2.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
La Corte d’appello di Palermo ha fondato il rigetto della domanda di equo indennizzo relativamente al giudizio di revocazione (iniziato nel 2016 e definito nel 2021), su di una duplice motivazione, sia in applicazione del primo comma dell’art. 2, rilevando la mancata proposizione preventiva di un rimedio acceleratorio, sia in applicazione del comma 6 sexies dell’art.2, ritenendo non superata la presunzione di insussistenza di un danno conseguente alla contumacia.
Quanto alla prima ratio, la ricorrente ha rappresentato che il processo coinvolgeva oltre 50 parti e che alla prima udienza, in data 20/1/2017 (la citazione in revocazione le era stata notificata l’8/7/2016), la Corte d’appello aveva assegnato all’attore in revocazione un nuovo termine per provvedere alla rinnovazione della notifica nei confronti di una parte; instaurato ritualmente il contraddittorio, alla successiva udienza del 22/9/2017, la causa era stata rinviata per la precisazione delle conclusioni all’udienza del 24/5/2019; il giudizio era stato poi interrotto e dopo ulteriori rinvii per regolarizzare la notifica della riassunzione era stato infine deciso, con certo superamento della durata ragionevole.
Sul punto, è necessario allora premettere, in diritto, che la durata ragionevole di un giudizio di revocazione deve essere comunque individuata in un anno, atteso che, come più volte puntualizzato da questa Corte, l’indicazione della durata ragionevole, nel comma 2 bis dell’art. 2 della l.89/2001, in tre anni per il primo grado e due per il secondo deve essere interpretata come riferita soltanto ad una durata «tipica» costituita da due gradi di merito (cfr. Cass. Sez. 1, n. 15003 del 07/07/2011); il comma 2 ter, infatti, fissa in sei anni la durata ragionevole di un giudizio articolatosi in tre gradi; la previsione di una ragionevole durata maggiore per i due gradi di merito si giustifica in considerazione del tempo necessario all’espletamento dell’istruttoria, ordinariamente più complessa in primo grado; lo stesso legislatore ha, invece, ritenuto sufficiente un anno quale tempo di espletamento di un giudizio di legittimità, caratterizzato dalla critica vincolata.
Per le stesse caratteristiche di impugnazione a critica vincolata e, per la natura di mezzo di impugnazione di carattere eccezionale che perciò stesso esorbita dalla «tipica» articolazione di un procedimento, la durata ragionevole della revocazione può essere tendenzialmente fissata in un anno, come peraltro affermato, in via interpretativa, da questa Corte per i gradi successivi al secondo grado di merito che costituiscano prosecuzione eccezionale dell’articolazione «tipica» del giudizio di merito (cfr. per il giudizio di rinvio anche disposto ai sensi dell'art. 383, comma III cod. proc. civ. o disposto, ai sensi dell'art. 354, comma I cod. proc. civ., dallo stesso giudice di appello, Cass. Sez. 2, n. 22299 del 5/09/2019; Sez. 2, n. 19769 del 2/10/2015; Sez. 1, n. 8769 del 15/4/2011).
Ciò posto, deve ancora considerarsi che secondo l’art. 1 ter della legge 89/2001, nelle cause in cui non si applica il rito semplificato di cognizione, ivi comprese quelle in grado di appello, costituisce rimedio preventivo a norma dell'articolo 1-bis, comma 1, la proposizione di un’istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma degli articoli 275, commi secondo, terzo e quarto, 281-sexies e 350-bis del codice di procedura civile, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'articolo 2, comma 2-bis.
L’art. 281 sexies cod. proc. civ. era utilizzabile quale forma di decisione anche nel giudizio di revocazione avverso la sentenza di appello, in forza dell’ultimo comma dell’art. 352 cod. proc. civ. come aggiunto dalla legge 12 novembre 2011, n. 183, applicabile ratione temporis.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 121/2020, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1 della legge n. 89/01, ha osservato che ciò che la normativa censurata richiede alla parte del processo in corso è soltanto «un comportamento collaborativo con il giudicante, al quale manifestare la propria disponibilità al passaggio al rito semplificato o al modello decisorio concentrato, in tempo potenzialmente utile ad evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo stesso», restando, per l’effetto, ammissibile il successivo esperimento dell’azione indennitaria per l’eccessiva durata del processo, che, nonostante la richiesta di attivazione del rimedio acceleratorio, si fosse poi comunque verificata. Nella specie, in particolare, la presentazione dell’istanza acceleratoria ex 281 sexies cod. proc. civ. avrebbe reso noto al Giudice che la parte era disponibile al passaggio ad un modello decisorio concentrato, consistente nella decisione della causa all'esito della discussione orale, con lettura a verbale della pronuncia, senza concessione dei termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, con deposito della sentenza nei 30 giorni successivi e motivazione semplificata.
Come chiarito dalla Corte Costituzionale, l'effettività del mutamento dello schema decisorio non dipende direttamente dalla istanza della parte, ma piuttosto dalla valutazione, nel caso concreto, da parte del Giudice di merito, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, della opportunità o meno di accoglierla; ciò che la normativa censurata richiede alla parte del processo in corso è soltanto, perciò, un comportamento collaborativo con il giudicante.
Nella successiva sentenza n.107/2023, la stessa Corte Costituzionale ha poi proprio puntualizzato che non contrasta con l'effettività del rimedio la circostanza che il suo utilizzo risulti mediato dalla decisione del Giudice nel senso che è comunque il Giudice chiamato a stabilire, in relazione alle ragioni di urgenza prospettate dall'istante, «se ricorrano i presupposti relativi alla completezza del contraddittorio e dell'istruttoria» (così, testualmente, in sentenza); al contrario, proprio la valutazione discrezionale da parte del Giudice dell’opportunità di adottare il procedimento di decisione concentrata consente di ritenere compatibile con le garanzie di un giusto processo la previsione di una necessaria manifestazione del sollecito ad una trattazione rapida.
Pertanto, non era rilevante che nella fattispecie, alla scadenza del termine previsto dall’art. 1 ter, il contraddittorio non risultasse ancora integro: la parte interessata ad una ragionevole durata avrebbe dovuto comunque manifestare il suo comportamento collaborativo, restando di competenza del Giudice verificare l’utilizzabilità del diverso modello decisorio.
La prima ratio decidendi del decreto di rigetto qui impugnato, come fondata sul mancato esperimento del rimedio preventivo ex art. 1 ter legge 89/2001, è, perciò, immune da censure.
Conseguentemente, in disparte la questione della configurabilità nella fattispecie di un errore revocatorio e non di un motivo di ricorso ex art. 360 cod. proc. civ., come sollevata dal Ministero, certamente la censura relativa alla ratio decidendi fondata sull’applicazione della presunzione prevista dal comma 2 sexies dell’art. 2 è inammissibile per difetto di interesse, atteso che la prima ratio decidendi, autonomamente idonea a sorreggere la decisione, risulta valida (v. ex plurimis, Cass. Sez. 3, n. 5102 del 26/02/2024).
3. Il ricorso è perciò respinto, con conseguente condanna del ricorrente al rimborso delle spese processuali in favore del Ministero, liquidate in dispositivo in applicazione dei parametri stabiliti per le cause di valore indeterminabile e di complessità bassa.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 906,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.