Ognuno ha il diritto di scegliere consapevolmente i trattamenti terapeutici da intraprendere e l'interferenza di soggetti terzi fa sorgere la responsabilità di questi. Lo chiarisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 14245/2024.
A seguito della diagnosi di un tumore incurabile G.V. veniva sottoposto a cicli di chemioterapia e morfina. I figli del malato venivano così messi in contatto da R.G. con P.F., un medico che prescriveva a G.V. una terapia alternativa, basata sulla somministrazione di uno specifico prodotto con necessaria sospensione delle cure tradizionali di cui il paziente aveva beneficiato fino a quel momento e ne prometteva la guarigione. Non riscontrando alcun miglioramento, la soluzione consigliata veniva somministrata endovena. G.V. moriva poco dopo. I figli della vittima chiedevano così il risarcimento sia del danno patrimoniale, quantificato nei 500 euro spesi per acquistare il prodotto prescritto, che di tutti i danni non patrimoniali patiti «a seguito del dolore e della sofferenza che con la condotta delle parti convenute avrebbe loro cagionato; facendo leva sulle debolezze dei congiunti in una situazione già connotata da evidente drammaticità, queste ultime avrebbero artificiosamente ingenerato nei primi una falsa speranza nella guarigione di G.V. al fine di trarne profitto». Si procedeva anche penalmente nei confronti di P.F., che veniva condannato per associazione a delinquere, esercizio abusivo dell'attività di biochimico farmaceutico, commercio di medicinali senza autorizzazione e truffa, quest'ultimo in concorso con R.G., con cui veniva condannato anche al risarcimento preteso dagli attori.
L'impugnazione della decisione da parte di P.F. veniva rigettata in quanto l'oggetto del processo doveva essere individuato nel nesso di causalità tra la condotta truffaldina e le sofferenze patite dalla vittima e dai prossimi congiunti, non tanto con il decesso. Inoltre, il danno lamentato dagli attori doveva essere identificato sia in quello patito iure proprio, per «le sofferenze condivise con il padre/marito derivanti dall'affidamento (mal) riposto nel miglioramento dello stato della malattia in conseguenza della assunzione del prodotto»; sia in quello vantato iure hereditatis «derivante dalla lesione della libertà di autodeterminazione di G.V. che si esplica anche attraverso la consapevole scelta dei trattamenti terapeutici a tutela della propria salute e della dignità umana». P.F. ricorreva in Cassazione.
I Giudici di legittimità rigettano il ricorso ed evidenziano come la situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento sia il diritto all'autodeterminazione, quale «diritto a intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per sé e la propria esistenza in assenza di qualsiasi alterazione o interferenza da parte di condotte riconducibili a soggetti terzi; là dove da tale lesione siano dunque derivate conseguenze dannose di natura patrimoniale (lesione del diritto alla autodeterminazione negoziale) ovvero di natura non patrimoniale (quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi) esse non potranno che essere risarcite, salva prova contraria».
Svolgimento del processo
1.T.G., M.V., M. V. e G.V. convennero in giudizio P.F. e R.G., al fine di sentirli condannare al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti a seguito delle condotte fraudolentemente lesive delle parti convenute, fonte di ingenti sofferenze.
A sostegno delle proprie pretese gli attori dedussero che, nell’ottobre del 2005, a G.V. (marito di T.G. e padre di M., M., G. e G.) fu diagnosticato un grave e incurabile tumore polmonare, per la cura del quale venne sin da subito sottoposto a cicli di chemioterapia e a trattamento con morfina; data la gravità della situazione oncologica, i figli di G.V., su suggerimento di terze persone, si rivolsero per la cura del padre a R.G., tramite il quale furono messi in contatto con un medico di Milano, nella persona di P-F., il quale avrebbe proposto loro una cura alternativa a quella tradizionale (basata sulla diretta aggressione della patologia tumorale) e fondata sulla somministrazione di un prodotto B., previa sospensione del trattamento chemioterapico e dei cicli di morfina.
Avviata la cura e non avendo notato alcun miglioramento, il F. integrò ulteriormente la terapia e consigliò di somministrare il B. per endovena, raccomandandosi di non ricorrere alla chemioterapia e alla morfina e assicurando la piena guarigione; senza riportare alcun miglioramento, G.V. morì in data 31 dicembre 2005.
Sicché, gli anzidetti attori chiesero il risarcimento sia del danno patrimoniale, quantificato in euro 500,00, corrispondente alla somma erogata a titolo di corrispettivo per l’acquisto del prodotto B., sia di tutti i danni non patrimoniali patiti a seguito del dolore e della sofferenza che la condotta delle parti convenute avrebbe loro cagionato; facendo leva sulle debolezze dei congiunti in una situazione già connotata da evidente drammaticità, queste ultime avrebbero artificiosamente ingenerato nei primi una falsa speranza nella guarigione di G.V. al fine di trarne profitto.
1.1. Nei confronti del F. si procedette altresì in sede penale; giudizio conclusosi il 2 ottobre 2007 con l’emanazione, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, per i reati di associazione per delinquere, esercizio abusivo dell’attività di biochimico farmaceutico, commercio di medicinali senza autorizzazione e truffa, quest’ultimo in concorso con R.G..
1.2. L’adito Tribunale di Firenze, con sentenza pubblicata del novembre 2016, accolse integralmente le pretese attoree e condannò, in solido tra loro, P.F. e R.G. al pagamento di euro 500,00, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, e di euro 25.000,00, in favore di ciascuno degli attori, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.
2. L’impugnazione di tale decisione da parte di P.F. veniva rigettata dalla Corte d’Appello di Firenze con sentenza resa pubblica il 3 febbraio 2021, che confermava integralmente la sentenza di primo grado.
La Corte territoriale, a fondamento della decisione (e per quel che rileva in questa sede), osservava che: a) l’oggetto del processo era da individuarsi nella sussistenza del nesso di causalità non tra la condotta truffaldina del F. e del G. e il decesso di G.V., quanto piuttosto tra la predetta condotta e le sofferenze patite dal paziente e dai prossimi congiunti in sua conseguenza; b) il danno lamentato in giudizio dai prossimi congiunti doveva essere ascritto sia a quello patito iure proprio, per le sofferenze condivise con il padre/marito derivanti dall’affidamento (mal) riposto nel miglioramento dello stato della malattia in conseguenza della assunzione del prodotto B., e di quello vantato iure hereditatis, derivante dalla lesione della libertà di autodeterminazione di G.V. che si esplica anche attraverso la consapevole scelta dei trattamenti terapeutici a tutela della propria salute e della dignità umana; c) sotto il profilo del quantum debeatur, nonostante l’omessa indicazione dei parametri utilizzati dal primo giudice ai fini della liquidazione, era da confermarsene la quantificazione in ragione della reiterata gravità del comportamento perpetrato dal F. e dal G. che, con un “agire illecito protrattosi nel tempo e con modalità sempre più subdole […] e con disprezzo della dignità dell’uomo” approfittarono dello stato di sofferenza del malato e dei suoi prossimi congiunti al fine di trarne profitto.
3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre P.F., affidando le sorti della impugnazione a quattro motivi di ricorso.
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati T.G., M.V.,M.V., G.V. e R.G..
In prossimità dell’adunanza in camera di consiglio, fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., il ricorrente ha depositato “nota” con la quale ha chiesto rinvio per “consentire il reperimento della ricevuta di ritorno, attestante la notifica” nei confronti di R.G. o, in subordine, “termine per rinnovare la notifica degli atti processuali” nei confronti del medesimo G..
Motivi della decisione
1. Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2051 (recte: 2059) c.c., per avere la Corte territoriale illegittimamente concluso nel senso della responsabilità a carico di esso F., nonostante avesse escluso la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta di quest’ultimo, asseritamente illecita, e il decesso del G.V..
Il ricorrente sostiene che l’efficienza causale dell’azione o dell’omissione del soggetto nei cui confronti viene emanata una sentenza di condanna al risarcimento dei danni non può prescindere da una valutazione del rapporto eziologico tra l’agere e l’evento verificatosi che, nella fattispecie, non può arbitrariamente ricondursi al mero patema d’animo dei più stretti congiunti, ma deve necessariamente rinvenirsi nel decesso occorso.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente ha inteso, infatti, sindacare l’interpretazione del contenuto della domanda giudiziale effettuata dalla Corte territoriale e ciò, peraltro, andando di contrario avviso alla ricostruzione del fatto da lui stesso effettuata con il ricorso (“svolgimento del fatto”, pp. 4 ss.).
1.1.1. Occorre in primo luogo evidenziare come l’interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile in sede di legittimità nelle seguenti ipotesi: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell'attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del "petitum", potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la ‘qualificazione giuridica’ dei fatti allegati nell'atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un ‘fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo’, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di "error in judicando", in base all'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., o al vizio di "error facti", nei limiti consentiti dall'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c., (Cass. n. 3041/2007; Cass. n. 11103/2020).
Nel caso di specie, il ricorrente non ha articolato la presente censura in conformità a nessuno delle tre ipotesi anzidette in cui la giurisprudenza di questa Corte ammette un sindacato sul merito del contenuto della domanda giudiziale, risolvendosi – come già accennato – in una prospettazione in questa sede del contenuto della domanda giudiziale inammissibilmente alternativa rispetto a quella effettuata dalla Corte d’Appello di Milano.
Il F., infatti, nel momento in cui afferma l’esistenza di un’incompatibilità tra una sentenza di condanna al risarcimento dei danni – quale quella posta a sua carico – e l’assenza di un nesso di causalità materiale tra la condotta illecita a lui ascritta e il decesso di G.V., manifesta la sua intenzione di ricondurre i fatti dedotti in giudizio nell’alveo dell’unica domanda risarcitoria, sollevata iure proprio dai prossimi congiunti della vittima, che in materia di responsabilità civile postula il decesso della vittima nonché la sua riconducibilità causale alla condotta illecita del terzo convenuto, cioè il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale.
Pretesa risarcitoria, il cui danno evento viene individuato nella lesione del diritto all’esplicazione della propria personalità mediante lo sviluppo dei propri legami affettivi e familiari, quale bene fondamentale della vita, protetto dal combinato disposto degli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione (tra le altre: Cass. n. 28989/2019; Cass. n. 26301 del 2021; Cass. n. 25541 del 2022; Cass. n. 26140/2023).
Ciò trova ulteriore conferma proprio nell’articolazione del motivo di ricorso in esame, cui il F. affida il compito di ricondurre la quaestio iuris sottesa al giudizio alla “sua corretta angolazione” (p. 9 del ricorso), prospettando dunque un’interpretazione della domanda giudiziale alternativa rispetto a quella effettuata dal secondo giudice e incidente, a sua volta, sulla definizione dell’oggetto del processo.
1.1.2. Come del resto confermato dallo stesso ricorrente in sede di ricostruzione del fatto (p. 4 del ricorso), sin dal primo grado di giudizio l’oggetto del processo venne individuato sulla scorta del contenuto della domanda giudiziale con cui “gli attori agivano in proprio e quali eredi di G.V., contro R.G. e P.F., pretendendo da questi il risarcimento del danno patrimoniale e non, patito a causa dell’ingiusto profitto, nonché a ristoro della sofferenza e della disperazione, causata dalla falsa speranza di guarigione che avrebbero generato i convenuti ni capo agli attori”; petitum, prima, e oggetto del processo, poi, ulteriormente specificati dalla Corte territoriale.
Quest’ultima, infatti, secondo un giudizio insindacabile in tale sede al di fuori, si ribadisce, delle tre ipotesi di cui sopra (par. 1.2.1.) – in ogni caso non sussistenti nel caso di specie – ha individuato il petitum del giudizio d’appello nel nesso di causalità sussistente tra la condotta truffaldina e fraudolenta del F. e l’alterazione della sfera di libera determinazione del V.; alterazione che avrebbe provocato ingenti sofferenze sia nel paziente che nei prossimi congiunti, causate dall’aver ingenerato un affidamento circa l’efficacia curante del B. (pag. 8 sentenza d’appello).
Pertanto, la situazione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento – posta dal secondo giudice a fondamento del danno evento asseritamente leso dalla condotta illecita – è il diritto all’autodeterminazione, quale diritto ad intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per sé e la propria esistenza in assenza di qualsiasi alterazione o interferenza da parte di condotte riconducibili a soggetti terzi; là dove da tale lesione siano dunque derivate conseguenze dannose di natura patrimoniale (lesione del diritto alla autodeterminazione negoziale) ovvero di natura non patrimoniale (quai sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi) esse non potranno che essere risarcite, salva pur sempre la prova contraria.
Seppur con riferimento a fattispecie di omessa tempestiva diagnosi di patologie oncologiche ad esito, comunque, infausto è attuale nella giurisprudenza di questa Corte la considerazione per cui è configurabile in termini di perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo quello correlato al diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto (così, in motivazione, Cass. n. 7260/2018).
A prescindere dai profili attinenti al risarcimento del danno da perdita di chance indissolubilmente legati alla lesione del diritto alla salute per fatto illecito imputabile al terzo, per quel che rileva ai presenti fini occorre considerare come può dirsi autonomamente risarcibile la perdita di quel ventaglio di opzioni tra le quali il paziente ha il diritto di scegliere dinanzi alla prospettiva di un exitus imminente, ovvero non solo l’eventuale scelta di procedere all’attivazione di una strategia terapeutica, o la determinazione per la possibile ricerca di alternative d’indole meramente palliativa, ma anche la stessa e ultime fasi della propria vita nella cosciente e consapevole accettazione della sofferenza e del dolore fisico (senza ricorrere all'ausilio di alcun intervento medico) in attesa della fine, giacché, tutte queste scelte "appartengono, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali" (Cass. n. 7260/2018; Cass. n. 10429/2019).
1.1.3. Ciò posto, non è incorsa in violazione la Corte territoriale nella parte in cui, previa individuazione della situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela, cioè il diritto all’autodeterminazione della propria sfera personale, ha concluso nel senso della risarcibilità dei danni, sia patrimoniali che non patrimoniali, da tale lesione derivanti: a) nel primo caso, la liquidazione della somma di euro 500,00, corrispondente alla somma pagata a titolo di corrispettivo per il prodotto B.; b) nel secondo, la liquidazione della somma di euro 25.000,00 in favore di ciascuno dei congiunti, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale patito dai prossimi congiunti, sia iure proprio, come conseguenza in termini di sofferenza morale e disperazione circa il tradito affidamento sulla efficacia curativa ovvero palliativa del prodotto B., sia iure hereditatis, in ragione dell’alterazione delle scelte personali effettuate da G.V. in prossimità dell’ultima (consapevole) fase della propria vita.
La Corte, in sede di quantificazione del danno – correttamente individuato in conformità della gravità della condotta perpetrata dal F. –, ha, infatti, preso in considerazione le conseguenze scaturenti dalla lesione del diritto alla autodeterminazione (danno evento) nei termini sopra descritti, ritenendoli meritevoli di risarcimento: a) il grave approfittamento da parte del F. e del G. della condizione di particolare soggezione psicologica ed emotiva in cui vennero a trovarsi il V. e i suoi congiunti di fronte all’infausta diagnosi di malattia tumorale; b) la protervia dei convenuti nell’agire illecito protrattosi nel tempo e con modalità sempre più subdole (somministrazione endovenosa); c) il profondo senso di frustrazione derivante dalle fraudolente promesse di guarigione; d) l’interruzione delle cure chemioterapiche e di morfina, su suggerimento dei predetti convenuti, che seppur non avrebbero determinato la guarigione, quantomeno ne avrebbero lenito il dolore derivante dal progredire della malattia.
Queste, dunque, le conseguenze patite iure proprio e in qualità di eredi del V. correttamente ascritte dalla Corte territoriale nell’alveo dei danni conseguenti alla lesione del diritto all’autodeterminazione, individuato come perno del petitum, prima, in sede di interpretazione della domanda giudiziale, e del processo, poi.
2. Con il secondo mezzo è dedotto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte territoriale erroneamente rigettato la richiesta di ammissione di mezzi di prova, in particolare per testi, ritualmente avanzata dall’odierno ricorrente in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio di appello.
Il secondo giudice, in assenza di qualsiasi motivazione sul punto che potesse giustificarne il rifiuto, avrebbe dunque omesso di acquisire al giudizio prove decisive ai fini del decisum.
2.1. Il motivo è inammissibile.
2.1.1. Giova a tal riguardo rammentare che il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è censurabile con ricorso per cassazione per violazione del diritto alla prova, ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c. allorquando il giudice di merito rilevi preclusioni o decadenze insussistenti ovvero affermi l'inammissibilità del mezzo di prova per motivi che prescindano da una valutazione della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite, nonché per vizio di motivazione in ordine all'attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione, con la conseguenza che è inammissibile il ricorso che non illustri la decisività del mezzo di prova di cui si lamenta la mancata ammissione (Cass. n. 30810/2023; Cass. n. 18285/2021; Cass. n.16214/2019).
Il mancato accoglimento dell’istanza di ammissione dei mezzi istruttori non è, dunque, qui censurabile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., strumento con cui è viceversa prospettato l’illegittimo omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia di un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti avente carattere decisivo (per tutte: Cass., S.U., n. 8053/2014).
Pertanto, non è conforme alla ratio dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., così come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, richiedere un sindacato di questa Corte su un’asserita omissione che, anzitutto, non si è consumata su un preciso fatto storico/naturalistico, bensì su un’istanza della parte convenuta (odierna ricorrente) e che, in secondo luogo, costituisce non un’attività omissiva quanto piuttosto un’attività giudiziale commissiva, seppur di segno negativo.
In altri termini, la mancata ammissione dei mezzi di prova per testi richiesta dall’appellante in sede di precisazione delle conclusioni è espressione di esercizio di attività giudiziale incompatibile con una condotta omissiva; omissione che si sarebbe consumata, a titolo esemplificativo, se la Corte territoriale non si fosse proprio pronunciata sull’istanza di ammissione dei mezzi di prova citati.
2.1.2. Nel caso di specie, occorre ulteriormente precisare come il secondo giudice – contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente nella presente censura – si sia non soltanto pronunciato sull’istanza di ammissione, non potendo dunque per definizione configurarsi neanche in astratto un’omissione rilevante ai sensi del n. 5), ma abbia anche motivato tale scelta.
Quando il ricorrente denuncia la sentenza impugnata in quanto “nessuna valida spiegazione è rinvenibile nelle pagine della sentenza di secondo grado in ordine al rifiuto di volere disporre ulteriore accertamento probatorio secondo l’articolato suindicato; […] con il secondo motivo si doglia, pertanto, che la Seconda Sezione della Corte di Appello di Palermo abbia determinato un’omessa manifestazione della motivazione a fondamento della quale ha ritenuto di [non] dover ammettere l’istruzione probatoria richiesta” (p. 13 del ricorso), non solo muove un’impugnazione sostanzialmente incompatibile con la rubrica del mezzo – finalizzata cioè a sindacare la sentenza sotto il profilo della omessa motivazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 132 c.p.c. –, ma neppure coglie la ratio decidendi sulla base della quale si fonda la mancata ammissione dei mezzi di prova per testi in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio d’appello.
La Corte territoriale ha, infatti, sufficientemente motivato la mancata ammissione dei mezzi di prova nel senso che le predette istanze istruttorie non potevano essere proposte nuovamente in sede di impugnazione, in quanto non reiterate in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado; in tale sede - ha precisato ulteriormente il giudice di merito - il convenuto si era limitato a richiamare le circostanze esposte nella narrativa della comparsa di costituzione precedute dal prefisso “vero che”, elemento che avrebbe implicato implicita rinuncia alle istanze medesime. E ciò, secondo una argomentazione giuridicamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte sul punto, secondo cui la mancata prospettazione delle richieste istruttorie in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado ne impedisce la rinnovazione in appello (Cass. n.19352/2017; Cass. n. 5741/2019).
3. Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione di norme di diritto per avere la Corte territoriale illegittimamente fondato la sussistenza della responsabilità civile di esso F. sulla base di prove acquisite al giudizio penale, conclusosi con una sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p.
Il ricorrente assume che, in violazione dell’art. 445, co. 1-bis, c.p.c., il secondo giudice avrebbe attribuito efficacia di prova in sede civile a prove formatesi nel giudizio penale, contravvenendo altresì con quella giurisprudenza di legittimità secondo cui queste ultime possono costituire nel giudizio civile solo un elemento di prova rimesso al prudente apprezzamento del giudice.
3.1. Il motivo è infondato.
3.1.1. La Corte territoriale non ha fatto malgoverno dei principi elaborati da questa Corte in materia di efficacia nel giudizio civile delle prove acquisite all’interno del giudizio penale, avendo attribuito alle stesse l’efficacia propria degli argomenti di prova (tra le molte: Cass. n. 12973/2020; Cass. n. 2897/2024).
Il giudice di appello, infatti, ha valorizzato il contenuto degli atti e delle prove acquisite al giudizio penale definito con sentenza di patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – nella specie, querela presentata ai Carabinieri di Empoli il 17.01.2006 e conversazione n. 729 del 6.04.2006 – al fine di prendere posizione su uno dei fatti, prospettati da esso F., che avrebbe dovuto confermare la sua irresponsabilità nella causazione del danno, cioè il fatto che esso F. non avrebbe mai incontrato il V..
Dunque, occorre preliminarmente considerare come tale prospettata circostanza costituisca solo una parte del più ampio giudizio di responsabilità posto dalla Corte a fondamento della natura illecita della condotta tenuta dal F. e ricostruita dal secondo giudice tenendo conto non soltanto del contenuto dei già menzionati atti e prove acquisite nel giudizio penale, ma anche dal tenore delle dichiarazioni offerte dall’appellante e dalla sua difesa nel giudizio civile.
In particolare, rilevanti ai fini dell’accertamento della natura della condotta illecita del F. furono da un lato l’affermazione secondo cui il B. non era un farmaco bensì un semplice integratore alimentare – elemento che, secondo un argomento a fortiori, è stato utilizzato dalla Corte territoriale per avvalorare la tesi della manipolazione e dei raggiri perpetrati ai danni di G.V. e dei suoi prossimi congiunti; e, dall’altro, l’affermazione effettuata dallo stesso appellante per evidenziare la sua irresponsabilità nella causazione del decesso del V. circa la inefficacia del farmaco prodotto in ragione del grave stato di avanzamento della malattia che, come evidenziato dalla Corte territoriale, “equivale ad ammettere la finalità truffaldina della condotta tenuta dall’appellante”.
3.1.2. Ciò posto, la Corte territoriale, facendo buon governo degli anzidetti principi, si è limitata a richiamare nel giudizio civile il contenuto di atti e prove acquisite nel giudizio penale ai soli fini dell’accertamento di uno degli elementi costitutivi dell’illecito civile, ossia la condotta illecita posta in essere dal F., non avendo dunque fondato la sussistenza dell’illecito civile in ragione del mero esito del giudizio penale.
Infatti, come precisato dallo stesso giudice di merito (p. 8 della sentenza d’appello), i fatti risultanti dal procedimento penale costituiscono “elementi di prova”, cioè “indizi gravi, precisi e concordanti circa la corrispondenza a verità dei fatti denunciati da M.V. nella querela presentata ai Carabinieri di Empoli il 17.01.2006 ed esposti anche a fondamento dell’azione civile”; in ciò emergendo dunque l’intenzione della Corte non di porre a fondamento del giudizio civile il contenuto di atti e prove formatisi all’interno del giudizio penale, quanto piuttosto di utilizzarli al fine di provare un fatto, cioè la natura illecita della condotta prospettata dagli attori, inserendo tali elementi all’interno di un ragionamento presuntivo più ampio in qualità dunque di indizi precisi, gravi e concordanti.
4. Con il quarto mezzo è denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti per avere la Corte territoriale erroneamente omesso di considerare, ai fini del giudizio di responsabilità oggetto del decisum, la posizione di R.G..
L’interruzione di qualsiasi rapporto con il G. da parte di esso F. a partire dal momento in cui quest’ultimo avrebbe scoperto che il prodotto B. veniva dal primo rivenduto ad un prezzo notevolmente superiore a quello d’acquisto – come confermerebbe la documentazione prodotta in giudizio – avrebbe dovuto condurre la Corte a ritenere sussistente l’esclusiva responsabilità in capo allo stesso G..
4.1. Il motivo è (pur a prescindere dalla sua formulazione non congruente in riferimento al vizio di cui all’evocato n. 5 dell’art. 360 c.p.c.) manifestamente infondato.
4.2. Emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza impugnata come nessuna omissione si sia consumata in ordine al fatto prospettato, cioè l’asserita interruzione del rapporto tra il F. e il G. (comprovata dal doc. 8 comparsa di costituzione e risposta) e da cui, secondo la prospettazione del primo, la Corte territoriale avrebbe dovuto concludere nel senso della esclusiva responsabilità del G., essendosi da quel momento il F. asseritamente emancipato dalla condotta illecita tenuta successivamente in via esclusiva dal secondo.
Ebbene, su tale fatto la Corte territoriale si è sufficientemente pronunciata nel senso della irrilevanza della “circostanza che successivamente ai fatti di causa i rapporti tra il F. ed il G. si fossero interrotti con strascichi giudiziari (cfr. doc. 8 e 13 all. fascicolo parte appellante)” (p. 9 della sentenza d’appello).
Non solo, dunque, è assente una omissione giuridicamente rilevante, avendo invece la Corte tenuto tale circostanza in considerazione nell’economia della propria decisione, ma – e a fortiori – anche la decisività del fatto, ovvero che tale circostanza (la rottura dei rispettivi rapporti) si sia realizzata successivamente ai fatti di causa; precisazione effettuata dalla Corte d’Appello e celata all’interno del ricorso.
5. In riferimento alla “nota” depositata dal ricorrente in prossimità dell’adunanza camerale, va osservato, alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte (tra le altre: Cass. n. 15106/2013; Cass. n. 12515/2018), che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato a produrre i suoi effetti.
Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione evidentemente infondato (come nella specie), appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l'integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell'effettività dei diritti processuali delle parti.
6. Il ricorso va, dunque rigettato, non occorrendo provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva degli intimati.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.