In una controversia avente ad oggetto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di alcuni dipendenti, la Cassazione precisa che tali mansioni non necessitano di una specifica formazione che i predetti non hanno.
La Corte d'Appello di Lecce rigettava la domanda dei lavoratori avente ad oggetto l'impugnazione del loro licenziamento per giustificato motivo oggettivo per violazione dell'obbligo di repéchage, escludendo la violazione di tale obbligo in mancanza di posizioni fungibili di pari livello.
Ribadito il principio...
Svolgimento del processo
1. con sentenza 7 maggio 2021, la Corte d’appello di Lecce ha rigettato la domanda dei lavoratori indicati in epigrafe, di impugnazione del licenziamento loro intimato in data 8 marzo 2019 dalla datrice GVM s.r.l. per giustificato motivo oggettivo, in quanto ritorsivo in ragione della loro adesione al sindacato e comunque per violazione dell’obbligo di repéchage: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva negato la natura ritorsiva del recesso datoriale, ma invece ritenuto la sua illegittimità per violazione del suddetto obbligo, condannando pertanto la società al pagamento, in favore dei lavoratori, di un’indennità risarcitoria in misura di dodici mensilità, a norma dell’art. 3, primo comma d.lgs. 23/2015, in quanto assunti il 1° febbraio 2017;
2. venuto meno il contratto di “trasporto sangue” con la Città di Lecce Hospital, interessante il settore di attività dei due lavoratori (inquadrati al V livello con mansioni di autisti addetti prevalentemente al trasporto di emoderivati e farmaci, approvvigionamento di medicinali, servizio di autoambulanza e, quando non in esse impegnati, all’archiviazione di cartelle cliniche, alla spedizione di raccomandate e al trasporto di passeggeri), la Corte territoriale ha negato che la novellazione dell’art. 2103 c.c. imponesse alla società datrice l’obbligo di loro collocazione nell’inferiore livello VI-super (di inquadramento dei quattro addetti al servizio mensa, soli nuovi assunti dalla società dopo il loro licenziamento e peraltro destinati ad appalti fuori dalla Puglia), esigente la maturazione di un anno di anzianità nel VI livello.
Diversamente dal Tribunale, che aveva ritenuto violato l’obbligo di repéchage (per non avere la società offerto ai lavoratori la possibilità di assunzione come addetti al servizio mensa, in applicazione combinata del secondo e del terzo comma dell’art. 2103 c.c., di assegnazione a mansioni inferiori, per la modifica degli assetti organizzativi aziendali, assolvendo pure all’obbligo formativo), essa ha escluso la violazione dell’obbligo, in mancanza di posizioni fungibili di pari livello (il V), tutte impiegate nei diversi settori della ristorazione (per cui erano richieste le figure professionali di cuoco, aiuto cuoco e addetto servizio mensa), dei servizi vending (distributori automatici e macchinette, in cui impiegare tecnici e manutentori) e delle parafarmacie (per impiegati di concetto e addetti alle vendite);
3. ribadito il principio di limitazione dell’obbligo di repéchage alle attitudini, al bagaglio professionale ed alla formazione del lavoratore al momento del licenziamento, la Corte d’appello ha affermato, anche alla luce della nuova disciplina dell’art. 2103 c.c., l’onere del datore di lavoro, qualora disponibili nell’assetto aziendale posti corrispondenti a mansioni inferiori non esigenti un percorso di formazione, di proporre al lavoratore interessato la stipulazione di un patto di demansionamento, ai sensi dell’art. 2103, sesto comma c.c. (c.d. demansionamento negoziale), potendo il primo recedere soltanto in caso di rifiuto del secondo, non avendo l’onere di assegnarlo a mansioni inferiori, a norma dell’art. 2103, secondo comma c.c.
Essa ha, infatti, interpretato gli artt. 2103, secondo comma c.c. e 3 legge n. 604/1966 distinguendo i loro diversi piani di operatività (il primo, di scelta datoriale di attribuzione di mansioni inferiori a seguito di una modifica degli assetti organizzativi aziendali; il secondo, di licenziamento per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento): così approdando, in esito ad un articolato ragionamento argomentativo, all’esclusione di un aggravamento in termini assoluti dell’obbligo datoriale di repéchage in mansioni inferiori, invece limitato a quelle inferiori non necessitanti di una specifica formazione, a norma in particolare dell’art. 2103, terzo comma c.c., secondo cui il “mancato adempimento dell’obbligo formativo non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”;
4. con atto notificato il 2 novembre 2021, i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione con un unico motivo, cui la società ha resistito con controricorso;
5. entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c.;
6. il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Motivi della decisione
1. i ricorrenti hanno dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 3 legge n. 604/1966 e 2103 c.c., per avere la Corte d’appello erroneamente escluso l’obbligo di repéchage datoriale anche per mansioni inferiori rispetto a quelle dei lavoratori licenziandi (purché rientranti nella medesima categoria legale), in assenza peraltro di alcuna prova della loro carenza di capacità professionale all’occupazione della diversa posizione di assistenti del servizio mensa, in applicazione del novellato art. 2103, secondo comma c.c., per la prefigurazione del suo condizionamento ad una “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” e pertanto anche nell’interesse del lavoratore, altrimenti destinato al licenziamento: sempre da considerare una extrema ratio (come ribadito ancora dalla sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 2021, che ha richiamato il “vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale” che “garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio”), comportante l’obbligo di verificare se sia possibile, ai sensi del quinto o del sesto comma dell’art. 2103 c.c., un demansionamento rispondente al“l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione” (unico motivo);
2. esso è infondato;
3. in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, giova ribadire il principio dell’obbligo del datore di lavoro di provare che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, in base a circostanze oggettivamente riscontrabili, altrimenti risultando il rispetto dell'obbligo di repéchage sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell'imprenditore (Cass. 27 settembre 2018, n 23340); sicché, ai fini qui in esame, il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva costituisce elemento che il giudice deve valutare per accertare in concreto se il lavoratore licenziato fosse o meno in grado di espletare le mansioni di chi sia stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in un livello inferiore, in base a circostanze addotte dal datore medesimo verificabili oggettivamente, avuto riguardo alla specifica formazione e all'intera esperienza professionale del dipendente (Cass. 13 novembre 2023, n. 31561);
3.1. d’altro canto, anche prima della novellazione dell’art. 2103 c.c., questa Corte ha escluso l’esistenza di un obbligo del datore di lavoro di formazione professionale e riferito l’obbligo di repéchage limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016 n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653), non essendo il primo tenuto a fornire al secondo un'ulteriore o diversa formazione per salvaguardare il suo posto di lavoro (Cass. 11 marzo 2013, n. 5963). Ed ha pure giustificato l’affermazione per il bilanciamento del diritto al mantenimento del posto con quello del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, tutelabile senza la necessità (ove il demansionamento rappresenti l'unica alternativa al recesso datoriale), di un patto in tale senso anteriore o contemporaneo al licenziamento, nei limiti di una prospettazione, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, della possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (Cass. 19 novembre 2015, n. 23698; Cass. 11 novembre 2019, n. 29099, in motivazione sub p.to 3.2; Cass. 3 dicembre 2019, n. 31520, in motivazione sub p.ti da 43 a 48).
Tale principio ha orientato il legislatore delegante la novellazione dell’art. 2103 c.c. (ad opera dell’art. 3, primo comma d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”), che all’art. 1, settimo comma, punto e) della legge 10 dicembre 2014, n. 183 ha in particolare, per la “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi”, fissato il principio direttivo del contemperamento del“l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento”. Ed esso, sia pure non esplicitamente recepito dalla norma delegata, ne costituisce ratio interpretativa, da declinare nelle diverse ipotesi di mutamento delle mansioni nella prestazione lavorativa.
Sicché, nel caso in esame, di esercizio dello ius variandi datoriale, “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali”, incidente sulla posizione del lavoratore (art. 2103, secondo comma c.c.), pertanto di natura unilaterale e non concordata (come invece nella diversa ipotesi di stipulazione di un patto di demansionamento c.d. negoziale, ai sensi dell’art. 2103, sesto comma c.c., “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”), il principio da applicare è quello suenunciato di obbligo di repéchage limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento (così anche: Cass. 19 aprile 2024, n. 10627, in motivazione, sub p.to 8).
Ed esso trova sostanziale conferma nella chiara previsione, conseguente al mutamento di mansioni per la modifica degli assetti organizzativi aziendali, per la quale “il mancato adempimento” all’assolvimento “dell’obbligo formativo … non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni” (art. 2103, terzo comma c.c.);
4. la Corte territoriale, in esatta applicazione del principio di diritto, ha accertato in fatto (in particolare, al primo capoverso di pg. 15 della sentenza) l’incapacità dei lavoratori licenziati, siccome non provvisti di un idoneo bagaglio professionale, allo svolgimento delle mansioni inferiori di addetto al servizio mensa dei nuovi assunti, se non a seguito di un percorso di riqualificazione (come pure ritenuto dal Tribunale, che ha tuttavia ravvisato a carico datoriale anche l’obbligo della formazione professionale, in funzione del corretto esercizio del repéchage).
Tale accertamento, congruamente argomentato, è insindacabile in sede di legittimità ed è comunque stato contestato dai lavoratori in modo assolutamente generico (al secondo periodo di pg. 9 del ricorso);
5. pertanto il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio regolate secondo il regime di soccombenza, con il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535), sulla base del seguente principio di diritto:
“In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo datoriale di repéchage, anche ai sensi del novellato art. 2103, secondo comma c.c., è limitato alle mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento, che non necessitino di una specifica formazione che il predetto non abbia”.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna i lavoratori ricorrenti alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.