
Reintegrata e risarcita la lavoratrice che era stata licenziata in tronco perché non aveva passato interamente le ore di permesso 104 con la madre disabile.
L'attrice è una lavoratrice che era stata licenziata in tronco per aver usufruito di 3 ore di permesso 104 senza trascorrerle per intero a casa della madre disabile, quindi non in sua compagnia, circostanze che erano state accertate da un investigatore privato.
Impugnando il licenziamento, la lavoratrice deduce di...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1. La ricorrente impugna il licenziamento, comminatole "in tronco" dalla Cooperativa convenuta dopo averle contestato di avere usufruito, in ciascuna di 8 giornate tra il 21/7/23 e il 24/8/23, di tre ore di permesso spettantele ai sensi dell'art 33 L.104/92, trascorrendole - (come risultava da una disposta investigazione privata) - per la maggior parte (ed in tre casi interamente) all'interno della propria abitazione o altrove, ed in ogni caso al di fuori della abitazione della madre X1 disabile (e quindi non in compagnia di quest'ultima).
2. Deduce tra l'altro nel ricorso la lavoratrice:
2.1. di essersi recata in alcuni degli indirizzi indicati nella relazione investigativa, per commissioni in favore della madre disabile; e di preparare i pasti e lavare gli indumenti per quest'ultima, abitualmente e quotidianamente nella propria abitazione;
2.2. di essere comunque solita recarsi presso al domicilio dei genitori (poco distante dal proprio) «tutti i giorni della settimana, .... più volte al giorno ovvero sia «nel tardo pomeriggio e quindi la sera prima e dopo cena», che «il mattino prima di andare in ufficio»;
2.3. che l'osservazione dei suoi movimenti da parte gli investigatori si esauriva in corrispondenza dell'orario di lavoro;
2.4. che ai permessi in oggetto deve riconoscersi anche il fine di assicurare un «generale equilibrio di vita del dipendente» impegnato nella assistenza di un familiare bisognoso, derivandone «la palese erroneità di una indagine e di un controllo che rinvenga la deviazione dalla funzione per cui la fruizione del permesso è prevista, 'misurandola' sulla base del mero minutaggio del tempo asseritamente sottratto alla prestazione di assistenza parametrato al turno di servizio»;
2.5. in altre parole, invocando Cass. penale 54712/16 (rectius, la precedente 4106/16, in essa richiamata, ndr) - che «Qualunque sia la lettura che si voglia dare della suddetta normativa ... quello che è certo è che, da nessuna parte della legge, si evince che, nei casi di permesso, l'attività di assistenza dev'essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa».
3. Sul punto la convenuta, costituendosi in giudizio, insiste (invocando «ex multis Cass. civ. Sez. lavoro, 22.1.2020, n. 1394») nel sostenere che «i permessi sono riconosciuti in ragione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa dovendosi escludere che questi possano essere fruiti in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza».
4. Il ricorso deve essere accolto, laddove, a fronte dell'accennato contrasto giurisprudenziale, appare senz'altro preferibile l'impostazione seguita dalla sezione Penale della Cassazione; si richiamano infatti, ai sensi dell'art.118, delle norme di attuazione del cpc:
4.1. la citata sentenza 4106/16 della Cassazione (fattispecie in cui il lavoratore, durante l'orario di permesso, aveva partecipato ad un «raduno ciclistico ... organizzato«), in particolare laddove, come accennato: ha giustamente rimarcato che «Qualunque sia la lettura che si voglia dare della suddetta normativa ... quello che è certo è che, da nessuna parte della legge, si evince che, nei casi di permesso, l'attività di assistenza dev'essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere ]a propria attività: lavorativa», attribuendo quindi alla legge anche la finalità di «consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali», ed osservato che «se è considerata assistenza continua quella che il lavoratore presta nei giorni in cui lavora (e, quindi, l'assistenza che presta dopo l'orario di lavoro, al netto, pertanto, delle ore in cui, lavorando, non assiste il parente handicappato), ne consegue che non vi è ragione per cui tale nozione debba mutare nei giorni in cui il lavoratore usufruisce dei permessi: infatti, anche in quei giorni egli è libero di graduare l'assistenza al parente secondo orari e modalità flessibili che tengano conto, in primis, delle esigenze dell'handicappato; il che significa che nei giorni di permesso, l'assistenza, sia pure continua, non necessariamente deve coincidere con l'orario lavorativo, proprio perché tale modo di interpretare la legge andrebbe contro gli stessi interessi dell'handicappato (come ad es. nelle ipotesi in cui l'handicappato, abbia bisogno di minore assistenza nelle ore in cui il lavoratore presta la propria attività lavorativa)».
4.2. i precedenti di questo Giudice (ad es. sentenza 24/9/20, RG 1217/19) in particolare laddove, tra l'altro, viene evidenziato:
4.2.1. che nell'istituto in oggetto i diritti «costituzionalmente rilevanti» che vengono m gioco non sono solo quelli «dei disabili alla necessaria assistenza» e «de] datore di lavoro nella organizzazione della propria attività economica» (art.38 e 41 Cost), ma anche quello «del congiunto assistente e lavoratore ad esprimere la propria personalità anche nell'ambiente sociale (e in particolare verso i restanti componenti della famiglia), e ad un effettivo riposo dall'attività lavorativa» (art.2, 29-31, 36 Cost.);
4.2.2. che per altro verso «la legge non prevede "ore", ma "giornate" di permesso» (v Cass. 34588/23) e che «la possibilità di suddividere di tali giornate in singole ore, se da un lato può considerarsi legittima, dall'altro non può verosimilmente ritenersi "scontata", e cioè prescindere dalla disponibilità (eventualmente espressa anche in termini astratti e generali, in sede collettiva) del datore di lavoro la cui organizzazione aziendale, nella situazione concreta, potrebbe verosimilmente subire in tal caso pregiudizi anche maggiori»
4.2.3. che pertanto in generale, - «(considerando anche la possibile insorgenza di esigenze assistenziali indilazionabili di breve durata)» - da un lato il lavoratore si potrebbe trovare nella impossibilità di coprire esattamente la durata del permesso con quella delle esigenze dell'assistito, e dall'altro «non potrebbe plausibilmente esigersi... che egli individui, autonomamente (senza alcuna indicazione da parte della legge o del contratto) e con esattezza, la soglia della quota di orario impiegabile a tal fine, il superamento della quale trasformerebbe una condotta pienamente legittima in un illecito disciplinare punibile - addirittura - con il licenziamento (in tronco)»;
4.2.4. che infatti «un principio generale del nostro ordinamento (che assume rilevanza Costituzionale ... in materia penale) è quello della necessaria tipizzazione delle condotte assoggettabili a sanzione (v. art.25 Cost, art. 1 cp, art. 11 L.689/81), e che «esso, nella presente materia, è generalmente inteso nel senso che una condotta può essere sanzionata solo se prevista dal "codice disciplinare" (art.71 L.300/70), a meno che non consista in una grave e palese violazione di norme di legge o di contratto».
5. Sotto quest'ultimo aspetto, venendo al caso concreto - (nel quale non si riscontra in atti alcun accenno ad un «codice disciplinare» che regolamenti la fruizione dei permessi) - si può peraltro evidenziare che, se anche - in subordine, per mera completezza, e cioè per qui denegata opzione ermeneutica - si volesse ritenere più corretta l'accennata impostazione della Sez Lavoro della Cassazione, nella presente fattispecie la violazione di legge non sarebbe affatto "palese"; in altre parole, non si riscontrerebbero «gli artifizi o raggiri» costitutivi di una sostanziale truffa (cfr art.640 cp), nemmeno sotto l'aspetto di false o reticenti attestazioni, laddove nessun elemento porta ad escludere che la lavoratrice abbia semplicemente inteso esercitare (alla luce del sole) il proprio diritto, configurandolo in totale buona fede negli stessi termini in cui esso è definito dalla stessa (citata) Giurisprudenza (penale) di legittimità.
6. Per tutto quanto sopra, non riscontrandosi alcuna violazione disciplinare nella condotta contestata, la causa deve essere decisa nei termini di cui al seguente dispositivo, osservando in breve (anche per completezza) che:
6.1. il fatto che la lavoratrice, - nonostante che «a distanza di qualche mese da quando aveva iniziato a usufruire dei permessi ai sensi dell'art. 33 comma 3 L. 104/1992>> fosse <<stata cortesemente invitata al formulare, ove possibile, le richieste con maggior preavviso in modo da contemperare il proprio diritto con le esigenze organizzative della datrice di lavoro» - abbia comunicato «la propria assenza all'ufficio del personale senza alcun congruo preavviso» esula dall'oggetto della contestazione disciplinare;
6.2. il richiamo al contenuto le previsioni «Codice etico», per come riportato in ricorso, appare meramente pleonastico e comunque inconferente, laddove si limita a prescrivere che «il Personale deve informare la propria condotta... alla normativa vigente... evitare di porre in essere, di dare causa o di collaborare alla realizzazione di comportamenti idonei ad integrare alcuna delle fattispecie di reato»;
6.3. la convenuta deduce espressamente di non aver «mai messo in dubbio che la sig.ra X1 versasse in una situazione di patologia grave»? ed in alcun modo contesta che fosse la sola ricorrente ad occuparsi della madre;
6.4. non è (pertanto) in alcun modo contestata la continuità dell'assistenza, e cioè che essa sia stata prestata nelle ore o nelle giornate attigue a quelle di utilizzo dei permessi: elemento ritenuto necessario dalla stessa Cassazione penale (sentenza 54712/16 cit.), nonché dalla legge come si evince dalla disposizione del comma 3 bis del citato ait.33 (il quale, è opportuno evidenziare, si riferisce ad un distanza significativa e non prescrive che i «titoli di viaggio» rechino un orario corrispondente a quello lavorativo)?
6.5. come eccepito dalla convenuta, deve essere peraltro disattesa l'autonoma domanda volta a sentir <accertare e dichiarare la natura illecita del comportamento tenuto da parte datoriale all'atto della consegna della contestazione e successivamente ad oggi per tutte le ragioni espresse in narrativa e, per l'effetto condannare la convenuta all'integrale risarcimento del danno non patrimoniale patito, anche morale e esistenziale nella misura riconosciuta dal giudice in via equitativa», per carenza:
6.5.1. sia di una condotta imputata al datore di lavoro, esorbitante (con particolare riferimento ad una dolosa "ingiuriosità") dai limiti di una legittima (se pur intransigente) reazione ad comportamento della dipendente il quale - in base ad una interpretazione della disciplina applicabile, seguita anche da parte della giurisprudenza di legittimità, come accennato - poteva comprensibilmente ritenersi lesivo in misura significativa del rapporto fiduciario;
6.5.2. sia della deduzione, e comunque della prova, di uno specifico danno (ulteriore a quello plausibilmente riconducibile alla [giustamente] inaspettata perdita del lavoro, già risarcito forfettariamente dalla indennità di cui all'art.18 L.300/70).
6.5.3. sia della indicazione i criteri per procedere alla richiesta liquidazione «in via equitativa» (cfr Cass. 3794/08, 8941/22).
6.6. Considerazioni del tutto analoghe valgono per l'ulteriore domanda volta a sentir «accertata e dichiarata la Violazione art 5 del Regolamento UE 2016/679, condannare la convenuta al risarcimento del danno patito nella misura riconosciuta dal giudice in via equitativa», osservando che le persone presenti alla lettura delle contestazioni (da parte della Responsabile delle Risorse Umane) erano in tutta apparenza legittimate a conoscerne il contenuto (Direttore e Vicedirettore Generale, Consulente del lavoro), o già a conoscenza dei fatti in quanto dal loro stessi accertati (agenti investigativi, come ipotizzato dalla stessa ricorrente).
7. Le spese di lite seguono la (sostanziale) la soccombenza (considerata anche la qualità delle parti).
P.Q.M.
Il Giudice,
definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, istanza ed eccezione respinta o disattesa,
ANNULLA il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento in suo favore cli un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione; e lo condanna altresì al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale, e al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi € 4.000,00 per compenso professionale, oltre 15% per spese forfettarie ed oltre accessori di legge.