La Legge n. 247/2012 ha innalzato il termine a sei anni, ma a fronte di fatti sospensivi o atti interruttivi, lo aumenta al massimo di un quarto.
La controversia trae origine da una sanzione disciplinare (censura) irrogata dal CNF ad un avvocato per essersi sottratto in modo reiterato all'adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti della propria assistita.
Giunti in sede di legittimità, il professionista assume l'intervenuta...
Svolgimento del processo
1. L’avvocato G. M. è stato incolpato dell’illecito disciplinare di cui all’art. 64 del Codice deontologico forense (di seguito: CDF), già art.59 del precedente CDF, per essersi sottratto in modo reiterato all’adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti della società (omissis) e dell’avv. S.C., e ciò in modo grave, per importi rilevanti accertati da sentenze definitive, in Bologna dal marzo 2009 sino all’attualità.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) di Bologna, ritenuta la responsabilità dell’avv. M. con riferimento ai comportamenti tenuti nei confronti della società (omissis), con decisione del 25.9.2017 gli ha perciò inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per due mesi.
2. Il Consiglio Nazionale Forense (CNF), investito dal reclamo proposto dall’avv. M., con sentenza del 16.1.2022, pubblicata l’11.7.2023 e notificata il 25.7.2023, ha confermato la responsabilità disciplinare, riducendo però la sanzione irrogata alla sola censura e dando atto che solo per errore materiale la decisione di primo grado si era apparentemente riferita anche all’inadempimento di obbligazioni verso l’avv. S.C..
3. Avverso la predetta sentenza con atto notificato il 25.9.2023 ha proposto ricorso per cassazione l’avv.G. M., svolgendo due motivi.
Le parti intimate non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso discusso oralmente alla pubblica udienza del 9.7.2024.
Motivi della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia difetto e contraddittorietà della motivazione quanto alla responsabilità dell’avv. M. nei confronti della (omissis) s.r.l.
4.1. Il motivo, invero non formulato con specifico riferimento ai vizi indicati nell’art.36, comma 6, della legge n. 247 del 2012 (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge) o a uno dei mezzi tipici previsti dall’art.360, comma 1, c.p.c., appare inammissibile perché non si confronta in modo specifico e puntuale con la motivazione della sentenza impugnata.
Secondo questa Corte in tema di procedimento disciplinare a carico di avvocato, è sindacabile per anomalia motivazionale, nei limiti di cui al testo attuale dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., la sentenza del C.N.F che si basa su di una motivazione meramente apparente e viziata da una irriducibile contraddittorietà interna (Sez. U, n. 42090 del 31.12.2021); si è detto, però, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, a una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Sez. U, n. 34476 del 27.12.2019).
4.2. Anche a prescindere da una specifica configurazione del motivo in termini di mancanza assoluta o mera apparenza della motivazione (art.360, comma 1, n.4) o di omesso esame di fatto decisivo discusso tra le parti (art.360, comma 1, n.5), è da escludere che la sentenza impugnata sia assolutamente carente di motivazione o abbia omesso di esaminare il tema su cui insiste il ricorrente.
Il ricorrente avv. M., infatti, nega la propria responsabilità per inadempimento delle obbligazioni assunte sulla base del fatto che il contratto stipulato con la (omissis) prevedeva inizialmente un corrispettivo di £ (vecchie lire) 90.000.000, successivamente levitato sino a £ 245.895.000 e sottolinea di essersi rifiutato di pagare la ben maggior somma di £ 471.594.150 pretesa dall’appaltatore.
Così argomentando, tuttavia, il ricorrente non affronta e non confuta la specifica affermazione del Consiglio Nazionale Forense, peraltro puntualmente conforme a quella espressa dal Consiglio Distrettuale di Disciplina, basata sulle sentenze pronunciate nei rapporti tra l’avv. M. e la (omissis), secondo cui la levitazione dei costi rispetto al preventivo iniziale era stata determinata dalla richiesta di lavori aggiuntivi da parte del committente e l’opposizione dell’avv. M. alla maggior pretesa della ditta appaltatrice era da ritenersi ingiustificata.
5. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente assume l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare a partire dal deposito della decisione del CDD di Bologna in data 11.10.2017.
5.1. Il motivo è infondato.
La prescrizione dell'azione disciplinare nei confronti degli avvocati è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo, qualora non comporti indagini fattuali che sarebbero precluse in sede di legittimità (Sez. U, n. 36204 del 28.12.2023; Sez. U., 4.11.2022 n.32634).
Il regime più favorevole della prescrizione degli illeciti disciplinari degli avvocati, introdotto dall'art. 56 della l. n. 247 del 2012, non trova applicazione con riguardo ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della citata norma e tale conclusione è compatibile sia con la giurisprudenza costituzionale, la quale ha chiarito che le garanzie riguardanti la pena in senso stretto possono essere ritenute inapplicabili (o, quantomeno, applicabili in forme più flessibili) alle sanzioni disciplinari, sia con la giurisprudenza della Corte Edu, secondo cui il principio di retroattività della lex mitior concerne esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, non anche le norme sopravvenute che modifichino la disciplina della prescrizione. (Sez. U, n. 20650 del 17.7.2023; Sez. U, n. 20383 del 16.7.2021).
5.2. Tuttavia, come puntualizzato da Sez. U. del 28.2.2020, n.5596, il punto di riferimento di applicazione del regime della prescrizione dell'azione disciplinare resta la commissione del fatto, da cui la prescrizione decorre quando il fatto è punibile solo in sede disciplinare (Sez. U. n. 14985 del 2005 e n. 1609 del 2020).
Nella specie il CNF ha accertato il carattere permanente dell'illecito de quo con giudizio di fatto, quanto alla permanenza dell’illecito e alla sua cessazione, non sindacabile nella presente sede.
La prescrizione dell'azione disciplinare decorre dalla cessazione della permanenza (Cass. n. 1822 del 2015 e n. 28159 del 2008) e al momento di cessazione della permanenza deve aversi riguardo anche per stabilire la legge applicabile. È infatti la disposizione sulla prescrizione vigente all'epoca di cessazione della permanenza che trova applicazione. La nuova normativa è entrata in vigore il 2 febbraio 2013 e trova quindi applicazione solo agli illeciti la cui permanenza è cessata, secondo l'accertamento del CNF, nell'anno 2013.
Nella fattispecie, poiché in quel momento l’avv. M. non aveva ancora adempiuto alle proprie obbligazioni, il CNF ha accertato la cessazione della permanenza nella data del deposito della sentenza del CDD di Bologna (11.10.2017).
Questa statuizione non solo non è stata censurata dal ricorrente, ma anzi lo stesso avv. M. vi ha fatto espresso riferimento nel suo ricorso.
5.3. L’art.56 della legge n.247 del 2012, in tema di Prescrizione dell'azione disciplinare» dispone:
«1. L’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto.
2. Nel caso di condanna penale per reato non colposo, la prescrizione per la riapertura del giudizio disciplinare, ai sensi dell’articolo 55, è di due anni dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna.
3. Il termine della prescrizione è interrotto con la comunicazione all’iscritto della notizia dell’illecito. Il termine è interrotto anche dalla notifica della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal CNF su ricorso. Da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni. Se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre un quarto. Non si computa il tempo delle eventuali sospensioni.»
Nel nuovo ordinamento professionale forense, l’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto; da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni; se gli atti interruttivi sono più d’uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine di sei anni può essere prolungato di oltre un quarto. Pertanto, il termine complessivo di prescrizione dell’azione disciplinare deve intendersi in sette anni e mezzo (Cass., Sez. Un., 17.7.2023, n. 20464; Sez. U, 16.2.2024 n.4249).
Si tratta di una novità della nuova legge, che segue, sotto questo profilo, criteri di natura penalistica, mentre secondo la disciplina previgente, ispirata a un criterio di natura civilistica, la prescrizione, una volta interrotta, riprendeva a decorrere nuovamente per altri cinque anni.
5.4. Il ricorrente considera però solo il termine di sei anni e, così ragionando, non tiene conto degli eventi interruttivi (notifica della decisione del Consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal CNF su ricorso) che impongono di riferirsi al termine complessivo di sette anni e sei mesi.
Termine questo, che come rileva esattamente il Procuratore Generale, non è scaduto alla data (9.7.2024) della decisione di questa Corte e che andrà infatti a scadere solo l’11 aprile 2025.
6. Per i motivi esposti occorre rigettare il ricorso, senza pronuncia sulle spese, in difetto di costituzione della parte intimata.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002,
inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, occorre dar atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.