L'azienda sanitaria ricorreva in Cassazione che rilevava che «ai fini di una corretta liquidazione del danno risarcibile occorre accertare se la condizione preesistente (o anche contemporaneamente determinatasi, ma per causa indipendente) del soggetto leso abbia o meno una incidenza causale sulla sua condizione finale, se cioè essa possa ritenersi concorrente, e non meramente coesistente». Sarebbe quindi stato necessario procedere a verificare, ai fini di una corretta liquidazione del danno, con accertamento in concreto ed ex post, se le lesioni cardiache derivanti dall'infarto concorressero o meno ad aggravare la situazione del paziente nelle sue conseguenze permanenti derivanti dall'ischemia cerebrale. Se si fosse trattato di lesioni semplicemente concorrenti, prive di incidenza causale sulla condizione finale del controricorrente, l'appello avrebbe dovuto essere rigettato.
Nell'accertare il nesso di causalità giuridica, ciò che rileva è il giudizio controfattuale, e dunque quali sarebbero state le conseguenze dell'illecito, in assenza della patologia preesistente. «Se tali conseguenze possono teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per una ipotetica vittima perfettamente sana prima dell'infortunio, dovrà concludersi che non vi è nesso di causa tra preesistenza e postumi, i quali andranno perciò valutati e quantificati come se a patirli fosse una persona sana». Sul piano medico-legale il grado di invalidità permanente sofferto dalla vittima va determinato senza aprioristiche riduzioni, ma apprezzando l'effettiva incidenza dei postumi sulle capacità, idoneità e abilità da questi possedute. Nel caso di specie, il necessario giudizio controfattuale manca del tutto. La Suprema Corte accoglie quindi il ricorso e cassa la sentenza.
Svolgimento del processo
1.- F.S. subiva un infarto miocardico acuto a seguito del quale cadeva a terra sbattendo la testa, era trasportato in ospedale e in quella sede era curato per l'infarto con la somministrazione di terapia anticoagulante e antiaggregante. All'esito delle cure gli residuava una consistente invalidità permanente.
Il F.S. agiva in giudizio nei confronti dell'Azienda Ospedaliera Sant'Antonio Abate di Gallarate lamentando di aver riportato, oltre ai postumi permanenti derivanti dall’infarto, un danno biologico differenziale dovuto alla errata somministrazione di antiaggregante piastrinico, non avendo il personale medico provveduto alla previa verifica, mediante TAC, della presenza di un trauma cranico in corso. Sosteneva che, mentre la terapia anticoagulante era appropriata per contrastare gli esiti dell'infarto, prima di procedere anche alla somministrazione di terapia antiaggregante l'ospedale, atteso che il paziente presentava anche una escoriazione sulla testa conseguente alla caduta, avrebbe dovuto verificare che lo stesso non presentasse un trauma cranico, essendo la terapia antiaggregante in questo caso controindicata.
2.- La domanda di risarcimento danni proposta dal F.S. era accolta in primo grado dal Tribunale di Busto Arsizio, che condannava l'Azienda Ospedaliera Sant'Antonio Abate di Gallarate a risarcirgli il danno della misura di euro 69.397,20.
Il tribunale accertava la responsabilità del nosocomio per non aver disposto indagini diagnostiche in relazione all'abrasione al capo che presentava il paziente ed in particolare per non aver disposto una TAC encefalo volta ad escludere la sussistenza di patologie incompatibili con i trattamenti farmacologici praticati.
Sul quantum, il tribunale determinava l'ammontare applicando le tabelle del Tribunale di Milano determinando il grado complessivo di invalidità permanente del paziente, pari al 50%, accertando la percentuale di invalidità conseguente all’errato intervento medico ( pari al 20%), e liquidando in favore della vittima il corrispondente monetario di una invalidità permanente al 20%, correlata ai postumi imputabili al comportamento dei sanitari.
3.- Il F.S. proponeva appello chiedendo una più congrua determinazione della misura del risarcimento; l'azienda ospedaliera proponeva appello incidentale contestando l’esistenza di una responsabilità della struttura ospedaliera.
4.- La sentenza d'appello accoglieva l'appello del F.S., rigettava l'appello incidentale dell'azienda ospedaliera e condannava la medesima al pagamento dell'importo richiesto ovvero di 214.842,00 euro.
Quanto alla responsabilità dell'azienda, confermava che in presenza di segni di lesioni traumatiche si sarebbe dovuto effettuare un accertamento diagnostico per escludere la sussistenza di patologie incompatibili con le terapie anticoagulanti e antiaggreganti praticate; accertava che i postumi derivanti dalla emorragia cerebrale erano riconducibili al ritardo nella sospensione del trattamento antiaggregante; in ordine alla quantificazione del danno accoglieva i rilievi dell'appellante e ricalcolava l'ammontare del danno risarcibile in misura pari alla differenza tra i corrispettivi della invalidità permanente complessiva e dei postumi che sarebbero comunque residuati, oltre alla inabilità temporanea.
5.- l'Azienda Socio Sanitaria Territoriale della Valle Olona propone
ricorso per cassazione articolato in due motivi nei confronti di F.S.
F.S. per la cassazione della sentenza n. 2765 del 2020 della Corte d'appello di Milano pubblicata il 30 ottobre 2020. Resiste il F.S. con controricorso illustrato da memoria.
6.- La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale all'esito della quale il Collegio ha riservato il deposito della decisione nei successivi sessanta giorni.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso la struttura sanitaria denuncia l'omessa pronuncia e la violazione dell'articolo 112 c.p.c. segnalando che la Corte d'appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul secondo motivo di appello incidentale svolto dall'azienda, con il quale la sentenza di primo grado veniva censurata in riferimento al punto in cui il tribunale aveva affermato che sarebbe stato possibile e anzi doveroso sospendere la somministrazione del farmaco antiaggregante che aveva determinato il peggioramento della emorragia cerebrale in atto sul paziente, senza considerare che il cardiologo sentito come ausiliare dallo stesso CTU si era espresso in termini differenti, ritenendo il farmaco antiaggregante somministrato non sostituibile e non eliminabile.
2.- Il motivo è infondato.
Non sussiste in effetti la denunciata omessa pronuncia. Il giudice d'appello ha considerato la relazione del consulente tecnico ed anche il parere in quella sede reso dal cardiologo quale ausiliare del consulente, e ha motivatamente condiviso le conclusioni del consulente tecnico secondo le quali in quella particolare situazione in cui concorrentemente il paziente presentava un infarto in atto e un trauma cranico sarebbe stato opportuno ed anzi essenziale il mantenimento del trattamento anticoagulante con l'eparina mentre sarebbe stato altrettanto opportuno evitare il trattamento con antiaggregante delle piastrine, controindicato a fronte della concorrente lesione traumatica e fonte del danno cerebrale.
In particolare, la Corte d'appello afferma, condividendo la valutazione del primo giudice e le conclusioni del c.t.u., che i postumi invalidanti derivanti dall'emorragia cerebrale sono stati aggravati dal ritardo nella sospensione del trattamento antiaggregante evidenziando il rapporto tra emorragia in atto e somministrazione di antiaggregante in quanto questo favorisce il sanguinamento.
Quindi, la corte d’appello ha ritenuto che l’ospedale avrebbe potuto e dovuto verificare la contestuale presenza di un trauma cranico, ed eseguito questo accertamento avrebbe dovuto modificare la terapia.
3.- Con il secondo motivo l'azienda ospedaliera denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 1223,1225 1226 e 2056 c.c. in relazione alla quantificazione del danno differenziale, effettuata in contraddizione con i criteri di liquidazione indicati dal giudice di legittimità.
Evidenzia che il giudice d’appello, nell’accogliere l’appello del F.S., sia giunto ad una quantificazione eccessiva se non addirittura abnorme dell’importo liquidato a titolo di danno differenziale, avendogli riconosciuto, applicando per la quantificazione le tabelle di Milano, quanto dovuto per l’invalidità permanente complessiva (50%) detratta la percentuale di danno dal 30% che sarebbe comunque residuata in capo al F.S. come postumo permanente dell’infarto subito e correttamente curato dall’ospedale, e quindi un risarcimento pari all’equivalente monetario di una invalidità del 20 % così calcolata senza affatto considerare se la menomazione preesistente fosse da considerarsi concorrente o coesistente con quella dovuta a responsabilità medica. Segnala la rilevanza di tale valutazione in quanto, come già affermato da Cass. n. 514 del 2020, le menomazioni coesistenti sono irrilevanti ai fini della liquidazione del danno, dovendo essere prese in considerazione a questi fini solo le limitazioni concorrenti, ossia quelle che insistono, aggravandola, sull’invalidità preesistente.
Sottolinea che, nel caso di specie, la grave patologia cardiaca riportata dal F.S. deve ritenersi meramente coesistente con quella neurologica imputata al comportamento dei sanitari, non incidendo minimamente nel senso di aggravare le condizioni del paziente legate al danno neurologico, e quindi non doveva essere tenuta in conto ai fini della quantificazione del danno.
4.- Il controricorrente F.S. osserva che il suo appello era proprio volto ad ottenere dal giudice dell’impugnazione un corretto calcolo del danno differenziale, pari in sostanza alla differenza tra quanto liquidato in primo grado e quanto chiesto e liquidato in appello, e che su quel punto nulla abbia detto in appello la struttura sanitaria, prestando acquiescenza all’appello e comunque non sviluppando alcuna argomentazione sulla natura coesistente, e non concorrente, delle lesioni.
5.- Per contro, in memoria l’Azienda sanitaria sottolinea che è del tutto irrilevante la condotta processuale tenuta dall’Azienda nel secondo grado di giudizio in merito alla liquidazione del danno risarcibile, in quanto la Corte di merito era comunque tenuta ad accertare correttamente l’ammontare del danno risarcibile e a valutare la fondatezza del motivo di appello svolto sul punto dall’originario attore. Quindi, nel riconoscere in favore dell’attore il risarcimento avrebbe dovuto comunque accertare, anche se sul punto non vi fosse stata contestazione da parte della struttura sanitaria, se le lesioni fossero concorrenti o coesistenti, perché all’accertamento conseguiva l’applicazione di un diverso criterio di calcolo e un diverso importo del danno liquidabile.
6.– Il secondo motivo è fondato e va accolto.
A fronte di un motivo di appello finalizzato alla liquidazione del danno differenziale, quindi alla liquidazione di un importo maggiore rispetto a quanto liquidato in primo grado, proprio in quanto accertato e calcolato come danno differenziale, la struttura sanitaria contestava in radice la propria responsabilità, ma nulla diceva sui criteri da utilizzare per la liquidazione del danno.
La sentenza impugnata applica correttamente i criteri per la liquidazione del danno differenziale indicati da Cass. n. 6341 del 2014, che richiama, secondo i quali in tema di responsabilità medica, allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell'integrità fisica, sia sottoposto ad un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell'intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario.
La corte d’appello calcola, cioè, il totale del danno riportato (conseguente ad una invalidità permanente complessiva, all’esito dell’infarto, della caduta, e dell’intervento dei sanitari, al 50%) e sottrae da esso la percentuale di danno non iatrogeno, comunque ineliminabile perché derivante esclusivamente dai postumi permanenti della infermità che ha colpito il paziente (invalidità permanente al 30%). Quello che rimane è il danno differenziale: nel caso di specie, l’equivalente di una invalidità permanente al 20%, calcolata però come detto.
La sentenza impugnata non tiene in conto però, nell’effettuare il calcolo del danno differenziale, la differenza tra postumi coesistenti e concorrenti, e la sua rilevanza ai fini dell’esatta determinazione del danno risarcibile, differenza evidenziata da Cass. n. 28986 del 2019 e poi ripresa da Cass. n. 514 del 2020 e, tra le altre, da Cass. n. 26851 del 2023. Non spiega, cioè, perché i postumi della patologia cardiaca ischemica di natura non iatrogena dovrebbero ritenersi “concorrenti” con le conseguenze neurologiche della emorragia cerebrale oggetto della liquidazione risarcitoria, di talché le conseguenze dell’illecito sarebbero rese più gravi dall’incidere su un soggetto con quella specifica patologia pregressa, e non semplicemente coesistenti con essa.
Come chiarito appunto da Cass. n. 28986 del 2019, è una questione di diritto, e non di mero fatto, individuare secondo quale criterio giuridico debbano sceverarsi, dal novero delle conseguenze dannose provocate da una lesione della salute, quelle che, sole, possano dirsi risarcibili ai sensi dell'art. 1223 c.c. Ai fini di una corretta liquidazione del danno risarcibile, quindi, occorre accertare se la condizione preesistente (o anche contemporaneamente determinatasi, ma per causa indipendente) del soggetto leso abbia o meno una incidenza causale sulla sua condizione finale, se cioè essa possa ritenersi concorrente, e non meramente coesistente.
Sarebbe stato pertanto necessario procedere a verificare, ai fini di una corretta liquidazione del danno, con accertamento in concreto ed ex post, se le lesioni cardiache derivanti dall’infarto concorressero o meno ad aggravare la situazione del F.S. nelle sue conseguenze permanenti derivanti dall’ischemia cerebrale, in quanto, se si fosse trattato di lesioni semplicemente concorrenti, prive di incidenza causale sulla condizione finale del controricorrente, l’appello avrebbe dovuto essere rigettato.
Quel che rileva, al fine della stima percentuale dell'invalidità permanente, non sono né formule definitorie astratte ("concorrenza" o "coesistenza" delle menomazioni), né il mero riscontro della identità o diversità degli organi o delle funzioni menomati. Poiché si tratta di accertare un nesso di causalità giuridica, quel che rileva è il giudizio controfattuale, e dunque lo stabilire col metodo c.d. della "prognosi postuma" quali sarebbero state le conseguenze dell'illecito, in assenza della patologia preesistente. Se tali conseguenze possono teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per una ipotetica vittima perfettamente sana prima dell'infortunio, dovrà concludersi che non vi è alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno perciò valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana.
In tal caso, pertanto, sul piano medico-legale il grado di invalidità permanente sofferto dalla vittima andrà determinato senza aprioristiche riduzioni, ma apprezzando l'effettiva incidenza dei postumi sulle capacità, idoneità ed abilità possedute dalla vittima prima dell'infortunio.
Nel caso di specie, il necessario giudizio controfattuale manca del tutto.
Il motivo di ricorso deve essere accolto, la sentenza impugnata è cassata sul punto e deve in questa sede ribadirsi che:
1)la liquidazione del danno biologico cd. differenziale deve modellarsi sui criteri propri della causalità giuridica, e cioè con riferimento alla percentuale complessiva del danno (nella specie, il 50%), interamente ascritta all’agente sul piano della causalità materiale, da cui sottrarre quella non imputabile all’errore medico, del 30%, il cui risultato (20%) postula una liquidazione “per sottrazione”, tra il primo e il secondo valore numerico (50%-30%). Il relativo importo (stante la progressione geometrica e non aritmetica del punto tabellare d’invalidità) risulta inevitabilmente superiore a quello relativo allo stesso valore percentuale (20%) se calcolato da 0 a 20;
2)tuttavia, in caso di coesistenza – come nella specie - di una menomazione non imputabile ad errore medico e di altra menomazione ad esso riconducibile, vi è spazio per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno differenziale, calcolato come sopra, soltanto nel caso in cui, con giudizio controfattuale ex post, si accerti che le due tipologie di postumi (quella indipendente dall’errore medico, nel nostro caso, i postumi dell’infarto, e quella provocata dall’errore medico, nel nostro caso, i postumi dell’ischemia cerebrale), siano in rapporto di concorrenza e non di semplice coesistenza, ovvero che la presenza della prima tipologia di postumi incida negativamente, aggravando la situazione del soggetto leso, sui postumi derivanti dall’errore medico.
Conclusivamente, il primo motivo è rigettato, il secondo è accolto. La sentenza è cassata e la causa è rinviata alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al secondo motivo e rinvia alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.