Svolgimento del processo
1.Con ricorso affidato a tre motivi, L.B. ha impugnato la sentenza della Corte di appello di Bologna, resa pubblica in data 21 marzo 2022, che, in parziale accoglimento (nel contraddittorio anche con la Casa di Cura Privata San Giacomo s.r.l.) del gravame principale interposto dalla Azienda USL di Piacenza e di quello incidentale da egli stesso proposto avverso la decisione del Tribunale di Piacenza, condannava la Azienda USL al pagamento in suo favore, quale erede di G.F. (originaria attrice che aveva agito nei confronti della Azienda USL per il ristoro di tutti i danni patiti in conseguenza della necrosi all’arto inferiore destro all’esito di operazione chirurgica di artroprotesi, che aveva portato all’amputazione dell’arto medesimo, di cui erano da reputarsi responsabili i medici dell’Ospedale di Fiorenzuola D’Arda), della somma di euro 50.358,00, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali, a titolo di danno non patrimoniale iure haereditatis (danno biologico permanente e temporaneo), e della somma di euro 46.808,00, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali, a titolo di danno patrimoniale iure haereditatis (per spese mediche e di assistenza).
2.La Corte territoriale, a fondamento della decisione (e per quanto ancora rileva in questa sede), osservava che: a) l’appello principale della Azienda USL di Piacenza era fondato anzitutto là dove censurava la quantificazione del danno non patrimoniale per omessa considerazione delle “precedenti patologie di cui soffriva la paziente” ai fini del “calcolo del danno differenziale”; a.1) il c.t.u., in sede di chiarimenti, aveva, infatti, rettificato la precedente valutazione e, tenendo conto dell’incidenza delle patologie pregresse, «ha ridotto l’invalidità permanente al 35% in ragione di un deficit flessorio articolare, e di una instabilità di entità “lieve” contenuta in una “scheda di valutazione per protesi di ginocchio” risalente al mese precedente l’intervento»; a.2) era, inoltre, da condividersi la valutazione del c.t.u. circa le conseguenze “effettivamente ricollegabili alla condotta dei sanitari” e, quindi, tenendo conto “che la situazione di equilibrio dell’autonomia precedente l’intervento di cui è causa non può intendersi come stato di benessere psicofisico esente da patologie, essendo piuttosto riferibile a quella situazione di giornaliero adattamento a ridursi fisio/patologico delle risorse psico-fisiche che interviene nell’età avanzata e tenendo altresì conto del fatto che dai referti neuropsicologici del 3.4.2012 e 18.4.2012 risulta l’esistenza di un deterioramento cognitivo classificabile come demenza e interferente con le attività e l’autonomia che richiedeva assistenza e che il referto TC cerebrale eseguito molto tempo prima dell’intervento, il 6.5.2009, e chiaramente evocativo di una pregressa encefalopatia su base vascolopatia cronica e atrofia cerebellare bilaterale”; b) pertanto, considerata l’invalidità permanente del 35% e “l’intervallo temporale di 5 anni tra la data dell’intervento e quella della morte”, in base alle tabelle del Tribunale di Milano del 2021 sul danno non patrimoniale da premorienza era da liquidarsi la somma di euro 35.393,00, alla quale andava aggiunto l’importo di euro 19.800,00 per 200 giorni di invalidità temporanea totale differenziale e, dunque, un importo complessivo di euro 55.193,00, che devalutato alla data del fatto ammontava ad euro 50.358,00, sul quale erano da calcolarsi rivalutazione monetaria ed interessi legali.
3. Ha resistito con controricorso l’Azienda USL di Piacenza, mentre non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimata Casa di Cura Privata San Giacomo s.r.l.
Motivi della decisione
1.Con il primo mezzo è denunciato, ai sensi dell’art 360, primo comma, n. 5, c.p.c., omesso esame di fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, per aver la Corte territoriale erroneamente liquidato il danno non patrimoniale tenendo conto delle “precedenti patologie” della paziente danneggiata, in quanto avrebbe omesso di considerare il fatto, decisivo e già “oggetto contestazione tra le parti”, che, “prima dell’intervento di protesizzazione subito presso l’Ospedale di Fiorenzuola D’Arda, la sig.ra G.F. era in realtà completamente autosufficiente”, essendo “contrastata da elementi di prova … mai considerati” dal giudice di appello (circostanze non contestate e, quindi, accertate ex art. 115 c.p.c. dedotte con le comparse conclusionali di primo e secondo grado e rilievi del c.t. di parte attrice) la valutazione del c.t.u. sulle condizioni psico-fisiche pregresse della paziente, fondata, peraltro, su referti successivi all’intervento di artroprotesi, là dove quello precedente (del 2009) non era, però, indicativo di condizioni tali da aver impedito alla stessa G.F. “di svolgere una vita normale e pienamente autonoma”, come, del resto, testimoniava una certificazione in data 30.11.2012, di vari mesi successiva all’intervento chirurgico, che dava atto di “paziente cosciente, vigile, collaborante …”.
1.1.Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. Giova rammentare, anzitutto, il principio, consolidato, secondo cui il vigente art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., S.U., n. 8053/2014).
Nella specie, è dirimente il rilievo per cui il “fatto storico” del quale il ricorrente assume esser stato omesso l’esame (“la mai disconosciuta autonomia ed autosufficienza personale godute dalla sig.ra G.F. fino all’intervento subito presso il nosocomio di Fiorenzuola d’Arda”) è, invece, circostanza, di fatto, che la Corte territoriale ha esaminato allorquando ha valutato l’incidenza delle pregresse patologie di cui era affetta la G.F. sulla complessiva invalidità permanente a carico della medesima paziente.
Il giudice di appello ha, infatti, preso in considerazione la difesa del L.B. in ordine alla asserita “autosufficienza” della madre, “nonostante la vasculopatia”, la quale non sarebbe stata “affetta da deterioramento cognitivo” (p. 4 della sentenza di appello), ma – sulla scorta della c.t.u. e dei chiarimenti resi dallo stesso consulente d’ufficio, superando le critiche del consulente di parte attrice – ha ritenuto (cfr. § 2 dei “Fatti di causa” e p. 7 della sentenza di appello) “che la situazione di equilibrio dell’autonomia precedente l’intervento di cui è causa non può intendersi come stato di benessere psicofisico esente da patologie, essendo piuttosto riferibile a quella situazione di giornaliero adattamento a ridursi fisio/patologico delle risorse psico-fisiche che interviene nell’età avanzata e tenendo altresì conto del fatto che dai referti neuropsicologici del 3.4.2012 e 18.4.2012 risulta l’esistenza di un deterioramento cognitivo classificabile come demenza e interferente con le attività e l’autonomia che richiedeva assistenza e che il referto TC cerebrale eseguito molto tempo prima dell’intervento, il 6.5.2009, e chiaramente evocativo di una pregressa encefalopatia su base vascolopatia cronica e atrofia cerebellare bilaterale”.
Le doglianze del ricorrente si incentrano, pertanto, su un “fatto storico” esaminato dal giudice di appello e si risolvono, infine, in una mera riproposizione delle difese svolte in secondo grado, peraltro veicolando critiche che attengono piuttosto alla valutazione del giudice di merito delle risultanze probatorie, suggerendo delle stesse una lettura diversa e più favorevole. Sotto tale profilo, dunque, sono articolate censure inammissibili, giacché non riconducibili al paradigma del vizio di cui al vigente n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (e, invero, neppure – così come prospettate – a quello del previgente ‘vizio motivazionale’).
2. Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., violazione dell’art. 115 c.p.c., nonché denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., omesso esame di fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, per aver la Corte territoriale erroneamente liquidato il danno non patrimoniale utilizzando un valore punto in base al range di valore da 0% a 35%, in tal modo dissentendo immotivatamente dalla c.t.u. e omettendo, quindi, di considerare il fatto decisivo “consistente nell’indicazione fornita dal CTU …, in sede di chiarimenti …, di collocare il valore punto del danno biologico da invalidità permanente, quantificato sulla persona della sig.ra G.F., nella percentuale “del 35% da computare con valore punto dal 17,5 al 52,5%”.
2.1.Il motivo è ammissibile e anche fondato.
2.1.1. È ammissibile, in quanto, al di là delle (erronee) indicazioni presenti nella rubrica del motivo, occorre tenere conto della sostanza delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura (tra le altre :Cass. n. 14026/2012; Cass. n. 12690/2018). Da queste si comprende chiaramente che la denuncia – sebbene transiti attraverso l’addebito al giudice di appello di aver operato il calcolo della invalidità permanente a carico della G.F. tenendo conto delle patologie pregresse, ma pretermettendo i dati al tal fine esplicativi presenti nella c.t.u., pur condividendone le risultanze - è volta far valere un error iuris della Corte territoriale nella liquidazione del danno biologico.
2.1.2.Le censure sono fondate alla luce del principio (Cass. n. 28986/2019; Cass. n. 28327/2022; Cass. n. 26851/2023) – da cui si è discostato il giudice di secondo grado – secondo il quale, ai fini della liquidazione del danno biologico cd. differenziale, rilevante qualora l’evento risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, la preesistente menomazione del danneggiato “concorrente”, può costituire concausa dell’evento di danno, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica, in quanto gli effetti invalidanti sono più gravi se associati ad altra menomazione, con la conseguenza che essa va considerata ai fini della sola liquidazione del pregiudizio e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità, da determinarsi, comunque, in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni.
Sicché, in base ai criteri della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., andrà sottratta dalla percentuale complessiva del danno (nella specie, accertata dal CTU nella misura dell’52,5%), interamente ascritta all’agente sul piano della causalità materiale, la percentuale di danno non imputabile all’errore medico (nella specie, del 17,5%), poiché, stante la progressione geometrica e non aritmetica del punto tabellare di invalidità, il risultato di tale operazione risulterà inevitabilmente superiore a quello relativo allo stesso valore percentuale (35%) ove calcolato dal punto 0 al punto 35, come accadrebbe in caso di frazionamento della causalità materiale
La liquidazione del danno differenziale si avrà, quindi, convertendo entrambe le anzidette percentuali in una somma di denaro per poi procedere, infine, a sottrarre dal valore monetario dell’invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente; fermo restando l’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto.
La Corte territoriale – che, evidentemente, ha ritenuto di non dover esercitare quel potere discrezionale - ha, invece, erroneamente proceduto alla liquidazione del danno biologico ‘differenziale’ patito dalla G.F. operando il calcolo monetario in base al valore percentuale del punto 35 (e dunque muovendo dal punto 0), quale mera risultante tra l’invalidità permanente totale accertata dal c.t.u. (52,5%) e quella dovuta alle preesistenti menomazioni (17,5%), mentre avrebbe dovuto operare tale liquidazione in conformità al principio di diritto sopra enunciato.
3.Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 3 Cost., 1226 e 2056 c.c., per aver la Corte territoriale erroneamente applicato le tabelle del Tribunale di Milano del 2021 sul danno da premorienza del 2021: a) per non aver tenuto conto che la danneggiata all’epoca del sinistro aveva 77 anni ed era deceduta in corso di giudizio all’età di circa 81 e, quindi, era minima l’incidenza rispetto all’aspettativa di vita media delle donne in Italia fissata all’età di 84,9 anni; b) per aver applicato una tabella “non equa”, come ritenuto da Cass. n. 41933/2021, così da doversi operare la liquidazione in base ad un criterio alternativo che avrebbe condotto ad un risarcimento del danno di ben maggiore importo (e ancora più consistente ove applicato il diverso ranfe dal 17% al 52,5%).
3.1.Il motivo è ammissibile – in quanto non prospetta una “censura di merito” (come dedotto dalla parte controricorrente), ma censura chiaramente, e in linea con il paradigma del vizio denunciato, un error iuris del giudice di appello – e fondato per quanto di ragione.
Non è in discussione il principio, consolidato (tra le molte: Cass. n. 23053/2009; Cass. n. 679/2016), per cui, qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile.
È sul criterio di liquidazione di siffatto danno che le stesse censure di parte ricorrente operano un distinguo e che si articolano le difese della AUSL controricorrente.
Non può trovare applicazione nel caso di specie (danneggiata all’età di 77 anni poi deceduta all’età di 81 anni) il criterio di sterilizzazione delle riduzioni indicato da Cass. n. 25157/2018 in ipotesi di “ridottissime aspettative di vita” – e assunto a sostegno della doglianza sub a) del motivo di ricorso in esame (che, pertanto, sotto tale profilo è infondata) - in quanto, come posto in rilievo dalla citata Cass. n. 41933/2021, applicato allora ad un caso di morte avvenuta, in corso di giudizio, di un soggetto di 96 anni di età, “per il quale l’aspettativa di vita residua era, per ovvie ragioni, talmente ridotta da non poter acquisire alcun rilievo”.
Il Collegio intende, quindi, riaffermare il principio enunciato da Cass. n. 41933/2021 (e ribadito da Cass. n. 15112/2024), non essendo state addotte ragioni tali da doversene discostare, per cui il danno anzidetto va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente (IP), alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti.
In tal modo è soddisfatto il criterio dell’equità di cui all’art. 1226 c.c., poiché a parità di durata della vita residua viene corrisposto, in caso di uguale invalidità permanente, un risarcimento uguale; ciò in quanto l’IP è (logicamente, giuridicamente e secondo la medicina legale) una condizione di menomazione della persona che sorge con lo stabilizzarsi dei postumi del danno alla salute e non ‘decresce’ più col passare del tempo.
La Corte territoriale, avendo fatto riferimento per la liquidazione del danno biologico permanente patito dalla G.F. alle tabelle sul c.d. danno da premorienza elaborate nel 2021 dal Tribunale di Milano (che si discostano da quelle del 2018 unicamente in ragione della rivalutazione monetaria degli importi liquidabili, in applicazione degli indici ISTAT dall’1.1.2018 all’1.1.2021), basate sull’attribuzione al danno biologico permanente di un valore economico decrescente nel corso del tempo, non si è attenuta all’anzidetto principio di diritto, applicando un criterio non conforme al criterio dell’equità di cui all’art. 1226 c.c.
Né sono concludenti le critiche che parte controricorrente svolge contro l’applicazione del criterio della proporzionalità, sopra richiamato, adducendo che dalla relativa applicazione si avrebbe “il paradossale effetto”, da reputarsi “assolutamente iniquo”, per cui più giovane è il danneggiato e più ridotto risulta il risarcimento. A sostegno dell’argomentazione, si porta l’esempio, quindi, di due donne, rispettivamente di 35 e 72 anni di età, con IP del 62%, le quali – in base ad una aspettativa di vita fissata a 84 anni e a 5 anni di effettiva sopravvivenza – riceverebbero (applicando le tabelle milanesi di liquidazione danno biologico del 2018), in base al criterio della proporzionalità, la prima euro 181.102,91 [euro 464.647,00: 12 anni di aspettativa di vita=euro 36.220,38 all’anno x 5 anni effettiva sopravvivenza], mentre la seconda euro 57.862,34 [euro 567.051,00:49 anni di aspettativa di vita=euro 11.572,46 all’anno x 5 anni effettiva sopravvivenza].
Invero, non è dall’applicazione del criterio della proporzionalità che è generato il “paradosso” denunciato (ossia, risarcimento maggiore al crescere dell’età della vittima), giacché esso dipende dalla intrinseca configurazione della tabella, per cui il valore del punto viene fatto crescere in funzione dell’IP in modo proporzionale, mentre è fatto decrescere in funzione dell’età in modo lineare, ossia 0,5% per ogni anno di età della vittima, a prescindere dal grado di invalidità permanente.
Di qui, la conseguenza (di cui dà evidenza lo stesso calcolo proposto dalla parte ricorrente, nell’indicare, a parità di IP, il valore monetario di ogni anno di aspettativa di vita) che a parità di IP, il risarcimento non risulta proporzionale all’età e ciò in base ad un criterio – quello anzidetto, per cui il valore del punto è abbattuto in funzione d’una percentuale fissa per ogni anno di età – che è stato recepito dal legislatore nell’art. 139 cod. ass. proprio come criterio equitativo di liquidazione del danno biologico.
4.Va, dunque, rigettato il primo motivo ed accolti gli altri due motivi per quanto di ragione.
La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, che, nel liquidare il risarcimento del danno in favore di L.B., quale erede di G.F., si atterrà ai principi innanzi enunciati e provvederà, altresì, alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il secondo e il terzo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione, e rigetta il primo motivo;
cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Dispone che, in caso di utilizzazione del presente provvedimento in qualsiasi forma, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di G.F. ivi riportati.