Svolgimento del processo
1. E. M. Holding s.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un motivo, avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza n. 10757/2018 del locale Tribunale che l’aveva condannata a pagare in favore di J.a.z. I. Group s.r.l., S. s.r.l. e A. Z. la somma di euro 638.325,11 a titolo di adempimento alle obbligazioni contenute nella scrittura privata sottoscritta inter partes in data 3 maggio 2011, avente per oggetto una permuta azionaria.
2. J.a.z. I. Group s.r.l., S. s.r.l. e A. Z. hanno resistito con unico controricorso.
3. La Corte territoriale, per quanto in questa sede ancora rileva, ha osservato che la doglianza con cui l’odierna ricorrente deduceva la nullità dell’art. 5, lettera b) del contratto di permuta per violazione del patto leonino era infondata, siccome carente del requisito essenziale della assolutezza e costanza dell’esclusione dalle perdite per tutta la durata della carica di socio da parte dell’odierna ricorrente, essendo in contrario dimostrato che l’operazione che dava diritto all’indennizzo era regolamentata entro limiti temporali ben determinati, entro la cui scadenza E. poteva acquistare le azioni permutate al prezzo contrattualmente stabilito, così mettendosi al riparo da oscillazioni di mercato, e che alla scadenza nessun pregiudizio avrebbe subito la posizione sociale degli odierni controricorrenti, che sarebbero divenuti puramente e semplicemente soci per effetto della permuta azionaria. In sostanza, escluso che la permuta violasse il patto leonino, la Corte territoriale ha qualificato la clausola in questione (art. 5, lett. b) del contratto) come opzione put, valida e meritevole di tutela, in forza della quale E. si impegnava a garantire ai controricorrenti un indennizzo per l’ipotesi che il valore delle azioni di Class Editori s.p.a., al momento della loro immissione sul mercato, si fosse rivelato inferiore al valore di 1,00 euro ad azione. Essendosi le condizioni del patto in fatto verificate, era quindi sussistente il diritto all’indennizzo nella misura pattuita.
4. Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il ricorso lamenta:
«Violazione o falsa applicazione dell’art. 2265 c.c. in relazione agli artt. 2247, 1322, 1418 e 1344 c.c., con espresso riferimento all’art. 1462, co. 1°, c.c. (clausola solve et repete). Nullità della clausola di indennizzo n. 5b del contratto di permuta delle azioni T. con quelle di Class Editori, inter partes», deducendo che la Corte di appello avrebbe errato nell’escludere che la clausola menzionata avesse violato il divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 cod. civ., confondendo il patto di indennizzo stipulato nella presente fattispecie con il patto di opzione c.d. PUT che, diversamente dal caso in esame, ha per oggetto un finanziamento partecipativo. Nel caso di specie, invece, si sarebbe stipulato un patto di indennizzo che si risolverebbe in un’illimitata garanzia di rimborso per gli odierni controricorrenti dell’eventuale differenziale di prezzo dei titoli tra il momento della permuta e quello dell’operativa della clausola indennitaria che, per i suoi caratteri di assolutezza e costanza, avrebbe natura di patto parasociale, peraltro immeritevole di tutela perché metterebbe al riparo un socio dalle eventuali perdite derivanti dalla partecipazione, addossando tale rischio esclusivamente sull’altro socio (odierno ricorrente), in ciò violando il divieto di cui all’art. 2265 cod. civ., comportando come effetto l’esclusione totale e costante di alcuni soci dal rischio d’impresa.
Osserva la Corte che la clausola n. 5b del contratto di permuta, per come le parti l’hanno in maniera identica trascritta nei loro scritti introduttivi del presente giudizio, recita:
“Le parti si danno reciprocamente atto che l'obbligo di cui alla precedente lettera A) e la valorizzazione delle Azioni Class ad euro 1,00 ai sensi dell'Art. 1 del presente atto, anziché ai correnti valori di mercato borsistico sono stati accettati dai Soci sul presupposto essenziale che, nel caso in cui al termine del primo periodo i soci fossero ancora in possesso di Azioni Class e/o Azioni Class Sottoscritte, E. si impegnasse, come con il presente atto si impegna, a versare ai Soci a prima richiesta e rimossa ogni eccezione al riguardo entro 15 (quindici) giorni lavorativi dalla relativa richiesta una somma (di seguito l'”Indennizzo”) pari alla differenza tra il prezzo di vendita realizzato obbligatoriamente al miglior prezzo mediante le vendite effettuate dai soci sul mercato relativi alle Azioni Class residue ed 1,00 Euro”.
A parere della ricorrente, tale clausola sarebbe un patto parasociale nullo, in quanto realizzerebbe un’ipotesi vietata dall’art. 2265 cod. civ.
Respinta l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del motivo, sollevata dai controricorrenti per presunta carenza di autosufficienza del ricorso, atteso che il motivo è essenzialmente espresso in diritto e si sostanzia nell’interpretazione della precitata (e ritualmente trascritta in ricorso) clausola, è a dirsi che la tesi propugnata nella censura è infondata.
Giova premettere un sintetico inquadramento del patto parasociale. Questa Corte (Sez. 1, sent. n. 22375 del 25 luglio 2023, cui si fa per brevità rinvio per una disamina ancor più approfondita) ha di recente affermato che con l’espressione “patto parasociale” si intende quell’accordo contrattuale che intercorre fra più soggetti (di norma due o più soci, ma anche tra soci e terzi), finalizzato a regolamentare il comportamento futuro che dovrà essere osservato durante la vita della società o, comunque, in occasione dell’esercizio di taluni diritti derivanti dalle partecipazioni detenute. Il patto parasociale trova, quindi, il proprio elemento qualificante nella distinzione rispetto al contratto di società e allo statuto della medesima, in quanto realizza una convenzione con cui i soci attuano un regolamento complementare a quello sancito nell’atto costitutivo e poi nello statuto della società, al fine di tutelare più proficuamente i propri interessi. La validità di queste pattuizioni può dirsi in linea di principio assodata ed emerge, in modo ormai diretto, dalla previsione normativa dell’art. 2341-bis cod. civ., introdotto dalla Riforma del diritto societario del 2003, che prevede che non possano avere una durata superiore a 5 anni - salvo rinnovo - quei patti che “al fine di stabilizzare gli assetti
proprietari o il governo della società:
a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano;
b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano;
c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società”.
Una previsione che implica il riconoscimento da parte del legislatore della meritevolezza e della tutelabilità dei patti parasociali, da ritenere dunque sempre validi, purché non si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento in materia societaria.
Elemento caratterizzante del patto parasociale, per come tipizzato dal legislatore nell’enucleazione del regolamento di interesse che attraverso esso le parti stipulanti intendono realizzare, è che l’assetto obbligatorio in esso convenuto abbia come obiettivo uno dei due elementi caratterizzanti indicati nell’art. 2341-bis cod. civ.: stabilizzazione degli assetti proprietari o del governo della società.
Tali finalità possono essere perseguite, quindi, anche tramite accordi che, in ogni modo previsti, abbiano per effetto una regolamentazione dei diritti patrimoniali ricadenti su un socio, di cui l’altro stipulante (socio o terzo che sia) si renda in qualsivoglia modo garante.
Più in particolare, questa Corte (Sez. 1, ord. n. 27227 del 2021, cui parimenti per brevità si rinvia) ha affermato in maniera del tutto condivisibile che anche un patto di opzione c.d. “put”, per effetto del quale l'acquirente acquista il diritto, ma non l'obbligo, di vendere un determinato bene a un prezzo specifico (Sez. 3, sent. n. 763 del 2016, cui di nuovo si rinvia), è qualificabile nell’ambito dei patti parasociali, se ha come obiettivo finale quello di stabilizzare l’assetto della partecipazione di uno degli stipulanti nel capitale della società. La medesima pronuncia del 2021 ha chiaramente e altrettanto condivisibilmente affermato che, in tali termini, il patto di opzione appare meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., siccome è finalizzato ad “assecondare iniziative imprenditoriali specifiche, tutelate quali espressioni dell'autonomia negoziale privata ex artt. 41 Cost. e 1322 c.c., con il sorgere di reciproci diritti ed obblighi delle parti: al cui adempimento un contraente non può strumentalmente sottrarsi invocando ex post e secundum eventum un preteso insussistente contrasto con norme imperative”.
Può, quindi, essere affermato che è valido e meritevole di tutela un patto parasociale che, attraverso un’opzione put, consenta ai soci di vedersi garantita la remunerazione del valore della partecipazione a un prezzo predeterminato.
Una pattuizione, del resto, che - rispetto all’interesse nella specie concretamente perseguito dall’odierna ricorrente - non si limita a una mera garanzia “assoluta e costante” di redditività della partecipazione del beneficiario dell’opzione, ma costituisce una garanzia eventuale (correttamente la Corte territoriale osserva che l’esigibilità dell’opzione era condizionata alla detenzione della partecipazione per un congruo periodo di tempo, nella specie triennale) che si inscrive sinallagmaticamente in un contratto di permuta, per effetto del quale E. ha acquisito al proprio patrimonio le azioni permutate dai controricorrenti in altra società.
La lamentata nullità del patto - come detto parasociale - per cui è causa si individuerebbe secondo la ricorrente nella violazione del divieto del c.d. patto leonino.
In via generale, va osservato che il divieto di “patto leonino” è posto dall’art. 2265 cod. civ., secondo cui “è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”.
La nullità del patto è connessa alla natura dell'attività economica svolta dalla società e allo scopo perseguito dai soci, cioè quello dividersi gli utili (art. 2247 cod. civ.), cosicché, se non vi è distribuzione degli utili tra tutti i soci, non c'è società, così come, parimenti, non può considerarsi partecipe della società quel socio che sia totalmente esentato dai rischi connessi al verificarsi di perdite. Da notare, tuttavia, che la giurisprudenza di questa Corte da tempo ritiene che non rientrino nel divieto in parola quelle clausole che stabiliscono una partecipazione agli utili o alle perdite non proporzionale al valore della propria quota: si veda Sez. 2, Sent. n. 642 del 2000 secondo cui “Il cosiddetto patto leonino, vietato ai sensi dell'art. 2265 cod. civ., presuppone la previsione della esclusione totale e costante del socio dalla partecipazione al rischio d'impresa o dagli utili, ovvero da entrambi. Esulano, pertanto, da tale divieto le clausole che contemplino la partecipazione agli utili e alle perdite in una misura diversa dalla entità della partecipazione sociale del singolo socio, sia che si esprimano in misura difforme da quella inerente ai poteri amministrativi, sia che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti.”.
E più di recente, un orientamento giurisprudenziale di merito che riteneva sussistere la violazione dell’art. 2265 cod. civ. in quei patti parasociali di put option allo stesso prezzo di acquisto della partecipazione, perché indirettamente volti a consentire al socio di rientrare integralmente del proprio esborso finanziario senza subire alcun possibile pregiudizio dallo svolgimento dell’impresa economica, è stato superato dalla pronuncia resa da questa Corte n. 17498 del 2018, ricordata anche nella sentenza impugnata, secondo cui «è lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. "put") entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società».
Non rileva, come infondatamente argomenta la ricorrente, che la fattispecie in concreto decisa nel 2018 da questa Corte riguardasse un finanziamento partecipativo.
Il principio affermato dalla predetta sentenza, peraltro ancor più di recente ribadito da questa stessa Sezione (Ord. n. 25594 del 2023), è che l’elemento caratterizzante del patto leonino è che lo “stravolgimento” del ruolo del socio per effetto della sua stipulazione sia: a) totale e b) costante: totale (a), in quanto deve avere come effetto un’alterazione completa della causa societatis, che per effetto di esso subisca una completa modificazione dell’assetto, sì da porsi con essa in totale contrasto (in tal modo dovendo interpretarsi la locuzione normativa laddove menziona l’esclusione del socio «da ogni» partecipazione agli utili o alle perdite); costante (b), perché l’effetto di totale alterazione deve risultare tendenzialmente irreversibile per effetto della pattuizione vietata e non risolversi in un’alterazione transeunte dei diritti patrimoniali del socio.
Con tali premesse, va rilevato che l’affermazione, sinteticamente ma correttamente contenuta nella sentenza impugnata (pag. 10, sesto capoverso), secondo cui nella fattispecie non si sarebbe in presenza della violazione del divieto del patto leonino siccome mancherebbe il carattere “assoluto e costante dell’esclusione dalle perdite per la durata della carica di socio da parte del cessionario” non risulta minimamente contestata dal ricorso, che si limita ad affermare in via teorica che nella specie si sarebbe in presenza di un’alterazione stabile e assoluta della qualità di socio, senza tuttavia dedure alcuna circostanza specifica che spieghi, da un canto, l’erroneità del contrario accertamento effettuato dai giudici di merito e, dall’altro, la fondatezza del proprio assunto, che resta pertanto confinato a una mera petizione.
Quanto, infine, alla meritevolezza del patto di indennizzo nel caso di specie, oltre a quanto in via generale già considerato, mette ancora una volta conto rilevare che, per come le parti hanno concordemente riportato la vicenda, esso si inserisce in una più generale operazione di permuta, sicché il giudizio di va condotto alla luce non solo del “tipo” di operazione concretamente identificata (il patto di opzione put in sé astrattamente considerato), ma nel suo ineliminabile nesso funzionale con il raggiungimento degli interessi identificati dalle parti nel contratto di permuta, in relazione al quale l’odierna ricorrente, pur obbligandosi con il patto di opzione, ha per certo ottenuto in contropartita l’acquisizione della titolarità delle azioni trasferite per effetto del contratto stesso.
Tanto in astratto, quanto in concreto, va quindi escluso che nella specie il patto parasociale dedotto in lite abbia costituito una violazione del divieto di patto leonino.
2. La soccombenza regola le spese, liquidate come in dispositivo.
3. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto (Cass. S.U., n. 4315 del 20 febbraio 2020).
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna E. M. Holding s.a. a rifondere a J.a.z. I. Group s.r.l., S. s.r.l. e Z. A., le spese della presente fase di legittimità, che liquida in complessivi euro 14.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento e agli accessori di legge; dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.