Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 7 novembre 2023 la Corte di appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale di Milano del 02/11/2022, che aveva condannato R. A. – quale l.r. della “101 S. srl” – alla pena di anni 1 di reclusione per il reato di cui all’articolo 10-ter d. lgs. 74/2000 relativamente all’anno di imposta 2014.
2. L’imputato interpone ricorso avverso la citata sentenza.
2.1. Con il primo motivo, lamenta vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta insussistenza di una crisi di liquidità della società amministrata dall’imputato (“101 S.” s.r.l.), che invece sarebbe esistente e determinata dal venir meno di importanti commesse, come ricostruito dal tecnico Rag. P. e dalla relazione del Dr. S., commercialista della società, elementi con cui la Corte territoriale non si è confrontata.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta assenza di motivazione in riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche in regime di prevalenza sulla contestata aggravante, nonché in relazione alla erronea ritenuta sussistenza della recidiva.
Il ricorrente, infatti, contrariamente a quanto asserito dalla sentenza, aveva un solo precedente, essendo state le precedenti condanne unificate sotto il vincolo della continuazione.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta mancanza di motivazione in riferimento alla confisca per equivalente disposta nei confronti dell’A..
Motivi della decisione
1. Il ricorso è complessivamente infondato.
2. Va preliminarmente evidenziato che, in riferimento alla annualità contributiva successiva a quella per cui oggi di procede (2015), l’odierno ricorrente è già stato condannato per il medesimo reato, avendo questa Corte (Sez. 3, n. 32722 del 31/05/2023, n.m.) dichiarato inammissibile il relativo ricorso, articolato in doglianze sostanzialmente sovrapponibili a quelle odierne (ad eccezione dell’ultimo motivo, relativo alla confisca, che costituisce un novum rispetto al precedente giudizio).
3. Ciò premesso, il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Già in occasione della precedente sentenza n. 32722/2023, con motivazione che il Collegio condivide e ribadisce, si era evidenziato che la tesi difensiva sulla rilevanza del pagamento degli stipendi è contraria ai principi espressi da Sez. 3, n. 52971 del 06/07/2018, Moffa, Rv. 274319- 01, secondo cui, in tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’Iva cui all’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non può essere giustificato, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., dal pagamento degli stipendi dei lavoratori dipendenti, posto che l’ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l’adempimento prioritario dei crediti da lavoro dipendente (art. 2777 cod. civ.) rispetto ai crediti erariali (art. 2778 cod civ.), vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi, ove non opera il principio della par condicio creditorum, al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato.
Del resto, anche Sez. 3, 13/11/2018, n.12906, Canella, ha affermato che il reato di omesso versamento IVA è integrato dalla scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti, non rilevando la circostanza che la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte al pagamento di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’Erario.
Analogamente, si è escluso che possa attribuirsi il carattere della «imprevedibilità ed ineluttabilità» al venir meno di alcune commesse storiche, motivo dedotto dal ricorrente quale causa della crisi di liquidità, incombendo sull’imprenditore (che neppure deduce in “quanto tempo” ciò si sia verificato) l’onere di operare scelte di diversificazione del mercato o strategie imprenditoriali nuove, rientrando l’inadempimento delle obbligazioni assunte da parte dei clienti nel tipico «rischio d’impresa» cui sono, loro malgrado, soggette tutte le aziende (Sez. 3, n. 13097 del 22/02/2023, Bazzoni, n.m.; Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi RV. 259190).
Scendendo in concreto, la sentenza, a pagina 8, precisa che – a fronte della dimostrazione da parte della pubblica accusa della sussistenza degli elementi oggettivi del reato – l’imputato non è andato al di là di una labiale allegazione circa la sussistenza di una improvvisa crisi di liquidità che avrebbe impedito il soddisfacimento dei debiti tributari: non sono state documentate tali situazioni di improvvisa e imprevedibile difficoltà finanziaria, né è stata in alcun modo allegata una strategia organizzativa per fronteggiare la crisi, risolvendosi l’assunto difensivo in una generica rappresentazione di uno scenario che rendeva ineluttabile l’omissione del versamento dell’IVA.
La doglianza, che lamenta il mancato apprezzamento della crisi di liquidità da parte della Corte territoriale, è in definitiva generica, non confrontandosi con il provvedimento impugnato, che aveva evidenziato la genericità della censura dedotta in appello, ed è quindi inammissibile.
4. Il secondo motivo è in parte manifestamente infondato e in parte inammissibile.
4.1. Quanto alla dedotta impossibilità di applicare la recidiva, in quanto alcuni dei reati precedenti erano stati unificati sotto il vincolo della continuazione, questa Corte (Sez. U, n. 9148 del 17/04/1996, Zucca, Rv. 205543 – 01; ex plurimis: Sez. 4, Sentenza n. 21043 del 22/03/2018, B., Rv. 272745 - 01) ha chiarito, con un orientamento cui il Collegio intende dare continuità, che non esiste incompatibilità fra gli istituti della recidiva e della continuazione, sicché, sussistendone le condizioni, vanno applicati entrambi, dovendosi praticare sul reato base, se del caso, l’aumento di pena per la recidiva e, quindi, quello per la continuazione, e che l’istituto della continuazione non comporta l’ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondata su una mera fictio iuris a fini di temperamento del trattamento penale (Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018, Pettenon, Rv. 275296 - 01).
Il motivo, che è contraddetto dalla costante giurisprudenza della Corte e non adduce elementi nuovi in proposito, è quindi manifestamente infondato.
4.2. Quanto al mancato riconoscimento delle attenuanti atipiche in regime di prevalenza sulla recidiva, la doglianza è inammissibile.
A pagina 12 della sentenza impugnata si legge infatti che «l’invocazione di rimodulazione del giudizio di bilanciamento in termini di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla contestata recidiva reiterata è preclusa dall’espresso divieto contenuto nel quarto comma dell’articolo 69 del codice penale», che impedisce il giudizio di prevalenza delle attenuanti in caso di recidiva reiterata specifica infraquinquennale.
La censura, che non si confronta con il tenore della motivazione e con la stessa disciplina legale, è pertanto aspecifica.
5. Il terzo motivo è infondato.
5.1. Nel caso di specie, la Corte di appello dà atto (pag. 14) del fatto che la società è «inattiva» dal 31/12/2019 e che «non vi sono informazioni circa la disponibilità di beni in capo ad essa».
Sul punto, il Procuratore generale sottolinea come, fermo restando il principio secondo cui la confisca per equivalente sui beni personali dell’imputato risulta sussidiaria rispetto alla confisca diretta del profitto del reato (ex plurimis, Sez. 2, n. 30484 del 28/05/2015; Sez. IV, n. 15736 del 16/01/2015), il ricorso sarebbe formulato in modo non specifico, poiché il ricorrente si è limitato a segnalare un preteso «errore interpretativo» commesso dalla Corte d’appello senza indicare, né in sede d’appello, né di ricorso, alcun elemento idoneo a provare che la società disponeva di un patrimonio sociale passibile di confisca diretta. Al contrario la stessa difesa, nel motivo di ricorso, afferma che la società aveva a sua volta sofferto una seria crisi di liquidità che l’aveva indotta a prediligere il pagamento degli stipendi del personale rispetto ad altri, così evidenziando che neppure tale società possedeva un patrimonio su cui fosse possibile operare prima il sequestro e poi la confisca diretta del profitto del reato (cfr. in questa prospettiva Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018, dep. 2019, Canella, Rv. 276546 – 01, in motivazione).
Al di là di tale profilo di genericità, in realtà non conclusivamente dimostrato, il Collegio evidenzia come il motivo di doglianza sia comunque infondato.
5.2. La giurisprudenza di questa Corte ha ammesso la praticabilità della confisca per equivalente quando risulti ex actis, anche in via genetica, l’impossibilità di esecuzione del sequestro o della confisca in forma specifica (ex multis, Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, Scognamiglio, Rv. 265028).
Sugli elementi da cui desumere tale «impraticabilità» di dar corso alla confisca diretta si registrano tuttavia due diversi orientamenti interpretativi.
5.2.1. Secondo una prima giurisprudenza, una volta fornita la prova che il profitto o il prezzo del reato non è stato rintracciato e non è, con l’uso della normale diligenza, «prontamente rintracciabile», la condizione negativa si considera adempiuta e si può disporre la confisca di valore (v. sul punto Sez. 3, n. 46973 del 10/05/2018, Barletta).
Secondo tale orientamento, inoltre, quando si procede per reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato, sul presupposto dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nei confronti dell’ente, «nel caso in cui, successivamente alla imposizione del vincolo cautelare, dallo stesso soggetto non siano indicati i beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta» (Sez. 3, n. 40362 del 06/07/2016, D’Agostino, Rv. 268587 - 01).
5.2.2. In altra pronuncia, al contrario, si è affermato che «in caso di reati tributari commessi dall’amministratore di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dello stesso, solo quando, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato» (Sez. 4, n. 10418 del 24/01/2018, Rubino, Rv. 272238 - 01).
5.2.3. Secondo il primo orientamento, pertanto, ove i beni da sottoporre a confisca diretta non siano “prontamente reperibili”, sarebbe onere dell’imputato fornire indicazioni circa i beni della società da sottoporre a confisca, mentre, per il secondo, resterebbe sempre onere dell’accusa, quale organo dell’esecuzione, fornire la prova dell’impossibilità di procedersi a confisca diretta.
5.3. Il Collegio intende dare continuità al primo orientamento ed esprimere il principio secondo cui, quando allo stato degli atti e sulla base di un criterio di «normalità», non risulta possibile o prontamente agevole reperire beni di proprietà della società su cui eseguire la confisca diretta, incombe sull’imputato (legale rappresentante della società in favore della quale il reato è stato commesso) un onere di allegazione relativo ai beni da confiscare.
Ciò perché, nell’ordinamento processuale penale, a fronte dell’onere probatorio assolto dalla pubblica accusa, anche sulla base di presunzioni o massime di esperienza, spetta all’imputato allegare il contrario sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, poiché è l’imputato che, in considerazione del principio della c.d. «vicinanza della prova», può acquisire o quanto meno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva (Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373 – 01; Sez. 2, n. 43387 del 08/10/2019, novizio, Rv. 277997 – 04; Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020, Pomilio, Rv. 278679 - 03).
Onere cui il ricorrente non si è attenuto, pur in presenza di elementi da cui era agevole dedurre, secondo il predetto criterio di normalità, l’insussistenza di beni societari confiscabili (ossia lo stato di pluriennale inattività della società e l’assenza di indicazioni sulla esistenza di beni sociali).
La motivazione fornita dalla Corte territoriale non è pertanto affetta da difetto di motivazione e il motivo di ricorso è infondato e va respinto.
6. Il ricorso va in conclusione rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Alla ammissibilità del ricorso consegue l’obbligo da parte del Collegio di verificare la sussistenza di cause estintive del reato che, tuttavia, non sussistono.
Nel caso in esame, infatti, all’imputato è stata applicata la recidiva ex articolo 99, comma 4, cod. pen..
In tal caso, l’articolo 157, secondo comma, cod. pen. stabilisce testualmente che, per determinare il tempo necessario a prescrivere, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato (consumato o tentato), tenendo conto del solo aumento per le circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinarla e per quelle ad effetto speciale.
Circostanze aggravanti «ad effetto speciale» sono, ai sensi dell’art. 63 c.p., comma 3, ultima parte «quelle che importano un aumento (...) della pena superiore ad un terzo».
La contestata recidiva può comportare, ai sensi dell’art. 99 c.p., comma 4, cod. pen., un aumento di pena pari a due terzi ed è quindi qualificabile come circostanza aggravante ad effetto speciale (v. Sez. U., n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664). Di essa deve, pertanto, tenersi conto, dell’ex art. 157 c.p., secondo comma, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere.
L’art. 161, secondo comma, cod. pen., a sua volta stabilisce che, con riguardo ai reati per i quali attualmente si procede, in nessun caso l’interruzione della prescrizione (disciplinata, quanto agli eventi processuali interruttivi, dall’art. 160 c.p.) può comportare l’aumento di più di due terzi del tempo necessario a prescrivere nel caso di cui all’art. 99 c.p., comma 4.
La giurisprudenza assolutamente prevalente della Corte, che il Collegio intende ribadire, interpreta questa disciplina nel senso che la recidiva de qua incida due volte sulla determinazione del termine di prescrizione: prima quanto al computo del termine-base in riferimento alla pena edittale massima; poi, quanto all’entità della proroga del predetto termine in presenza di eventi interruttivi (Sez. 3, n. 33275 del 02/07/2024, Raso, n.m.; Sez. 5, n. 26884 del 07/03/2024, Morino, n.m.; Sez. 4, n. 44610 del 21/09/2023, Bisiccè, Rv. 285267 – 01; Sez. 2, n. 57755 del 12/10/2018, Saetta, Rv. 274721 – 01; Sez. 4, n. 6152 del 19/12/2017, Freda, Rv. 272021 – 01; Sez. 2, n. 13463 del 18/02/2016, Giofrè, Rv. 266532 – 01; Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010,
Di Canio, Rv. 248502 – 01; Sez. 5, n. 22619 del 24/03/2009, Baron, Rv. 244204 - 01).
Deve, pertanto, ribadirsi che la contestata recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale incide sul calcolo del tempo necessario a prescrivere l’ex art. 157 c.p., comma 2, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, e sull’entità della proroga di detto tempo, in presenza di atti interruttivi, dell’ex art. 161 c.p., comma 2.
Il Collegio evidenzia altresì che le Sezioni Unite della Corte hanno chiarito (Sez. U, n. 30046 del 23/06/2022, Cirelli, Rv. 283328 - 01) che, in tema di recidiva, il limite all’aumento di pena previsto dall’art. 99, sesto comma, cod. pen. non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, prevista dal secondo e dal quarto comma del predetto articolo, come circostanza ad effetto speciale, né influisce sui termini di prescrizione, determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 cod. pen., come modificati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, il cui computo è da effettuarsi secondo i parametri oggettivi, generali e astratti, dianzi evidenziati.
Pertanto, partendo dalla data di consumazione del reato del 30 settembre 2015, il tempo necessario a prescrivere, previsto in sei anni, in prescrizione massima, va innalzato a 10 anni ai sensi dell’articolo 161; alla data del 30 settembre 2025, così ottenuta, va aggiunto il periodo di sospensione della prescrizione.
Il termine massimo non risulta pertanto spirato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.