Solo qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare.
L'imputato veniva assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” dal reato
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 10 novembre 2023, la Corte di appello di Potenza ha confermato la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Matera in data 19 marzo 2019 con la quale, all'esito di giudizio abbreviato, P. Q. era stato assolto, con la formula «perché il fatto non sussiste», dai delitti previsti dall'art. 580 cod. pen., per avere indotto al suicidio N.V., direttore sanitario dell'Ospedale di (omissis) e alle sue dirette dipendenze quale direttore generale della ASL .D., 2 di (omissis), istigandola anche verbalmente nel corso di un'accesa lite per questioni inerenti alla gestione finanziaria dell'ospedale, avvenuta al culmine di una costante e perdurante attività di mobbing, realizzata con minacce e molestie nei confronti della donna: in (omissis) il 15 maggio 2006 (capo A); nonché dagli artt. 81 cpv. e 317 cod. pen. perché, abusando della predetta qualità, con una costante e perdurante attività di mobbing, con minacce e molestie ai danni della stessa V., la induceva a subire atti sessuali; in (omissis) sino al 15 maggio 2006 (capo B).
1.1. Secondo quanto emerso in sede istruttoria non erano state acquisite prove che l'imputato avesse, in alcun modo, istigato al suicidio la V.. Ciò in quanto non era stato dimostrato, stante l'inattendibilità dell'unico testimone oculare, N.G., che i due avessero avuto un acceso diverbio nel corso del quale Q., dinnanzi al proposito di uccidersi espresso dalla donna, l'avesse invitata ad attuarlo. Né era stato accertato che l'imputato avesse compiuto azioni di mobbing ai danni della V., che lavorava alle sue dipendenze presso la direzione sanitaria dell'Ospedale di (omissis), essendo, invece, emerso pacificamente che Q. e la donna avessero una contrastata relazione sentimentale, nel corso della quale l'uomo non aveva però espresso, nei confronti di costei, alcuna minaccia o violenza. E, anzi, la circostanza che tra i due vi fosse stata tale relazione aveva condotto a escludere, fin dal giudizio di primo grado, che la donna potesse essere stata costretta da Q. ad avere rapporti sessuali, peraltro mai accertati. Quanto, poi, alla configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, aggravato dall'evento della morte della vittima per suicidio, ipotizzato dalla difesa della parte civile, le sentenze di merito avevano escluso, da un lato, che ricorresse una sit\.lazione qualificabile in termini di maltrattamenti, essendo anzi emerso, da una fitta corrispondenza, un atteggiamento affettuoso dell'imputato verso la donna; e, dall'altro lato, che, anche a voler ipotizzare la ricorrenza di siffatte condotte, il suicidio fosse da mettere in collegamento con esse, non essendo dimostrato che la morte fosse conseguenza delle azioni dell'imputato, né della lite riferita dall'inattendibile G., tanto più che dalle indagini svolte era emerso che la donna aveva deciso di uccidersi già dalla mattina, prima che l'ipotetica lite fosse avvenuta, allorché ella si era rifornita della benzina poi utilizzata per il tragico gesto.
2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la parte civile, Giovanni V., a mezzo del difensore di fiducia, avv. C.D.P., deducendo due distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell'art. 572 cod. pen. La Corte di appello avrebbe escluso che le condotte di mobbing in ambito lavorativo possano integrare il delitto previsto dall'art. 572 cod. pen. trattandosi di rapporti di lavoro non di tipo parafamiliare, obliterando il fatto che tra l'imputato e la vittima fosse intercorsa, accanto a un rapporto professio,nale, nel caso di specie non rilevante, anche una relazione sentimentale, nell'ambito della quale Q. aveva riservato alla partner «indebite attenzioni», «esasperanti morbosi comportamenti passionali non corrisposti» e «perduranti azioni vessatorie e ritorsive», come riconosciuto sia nell'informativa preliminare del 16 maggio 2006 e nell'informativa del 9 agosto 2007 della Polizia di Stato, sia nell'ordinanza di archiviazione per prescrizione del 21 marzo 2013 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Matera. Un comportamento, quello tenuto dall'imputato, che sarebbe stato suscettibile di integrare, appunto, il delitto previsto dall'art. 572 cod. pen., tenuto conto di alcune prove documentali (quali: la parte del libro L'Ospedale in cui la V. aveva sottolineato che le vittime di mobbing possono arrivare a suicidarsi; le pagine web consultate dalla donna, relative alle molestie sessuali da parte di un dirigente; la corrispondenza con l'imputato, in cui questi riferiva di essere ricorso alle cure di uno psichiatra e di non riuscire «a capire bene il confine tra l'innamoramento e la follia»; i documenti del traffico telefonico relativo alle utenze in uso a Q. e alla V., da cui emergeva che il primo aveva chiamato la seconda, dall'inizio del 2006 e sino al giorno del decesso, circa 850 volte) e testimoniali (quali: la deposizione di M.R., secondo cui la V., assai preoccupata per le carenze dei progetti di ristrutturazione dell'Ospedale (omissis), di cui era referente per l'Azienda ospedaliera, le aveva confidato di essere stata sottoposta a mobbing; quella di G.A., secondo cui la V. gli aveva confidato di essere oggetto di pressioni ossessive da parte di Q., tanto da essersi determinata a chiedere un trasferimento; quella di M.L., amica della V., che le aveva confidato di essere oggetto di pressioni da parte di Q. e del timore di ritorsioni ove lo avesse denunciato; quella di G.V., secondo cui la sorella gli aveva confidato di essere esausta per le continue molestie telefoniche da parte dell'imputato, che le provocavano crisi di pianto e secondo cui la donna gli aveva riferito di irregolarità nella gestione dell'ospedale, in particolare per quanto riguarda i lavori di ristrutturazione, avviati nonostante la futura chiusura del presidio; quella di G.V., secondo cui la sorella gli aveva riferito di irregolarità nell'esecuzione dei lavori di ristrutturazione cui si era opposta rispetto alla direzione generale).
2.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione alla responsabilità penale dell'imputato per il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. Invero, numerose informative di polizia giudiziaria avrebbero evidenziato una condizione di forte stress della donna riconducibile alle pressioni esercitate dall'imputato, che l'avrebbe ricattata sul piano professionale, nonché alle forti preoccupazioni per alcuni ammanchi di denaro e per l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione dell'ospedale in difformità rispetto alle indicazioni progettuali. Tale quadro probatorio colliderebbe con la conclusione dei Giudici di merito secondo cui le càuse del suicidio sarebbero avulse dal tormentato rapporto sentimentale con Q. e, in particolare, dai maltrattamenti dallo stesso agiti. Secondo la difesa, una volta che questi ultimi siano stati dimostrati, l'assenza di un rapporto di causalità tra gli stessi e il suicidio andrebbe provata, individuando un ulteriore movente del tragico gesto rispetto a quello, evidente, di cercare un rimedio alla sofferenza provocata dal maltrattante. Quanto, poi, all'elemento soggettivo, la prevedibilità del suicidio sarebbe pienamente sussistente nel caso di specie, atteso che Q., profondo conoscitore della donna, sarebbe stato di certo in condizione di apprezzare il rischio cui l'aveva esposta. La illogica interpretazione di un dato probatorio chiaramente delineato nei suoi significati configurerebbe il denunciato vizio motivazionale.
3. In data 18 luglio 2024 è pervenuta la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stata sollecitata una declaratoria di inammissibilità del ricorso. Ciò in quanto l'impugnazione realizzerebbe una richiesta di rivalutazione delle prove e di una ricostruzione del fatto storico del tutto diversa da quella accertata dai Giudici di merito, operata prospettando un travisamento della prova in maniera non autosufficiente. A tal fine, il ricorso avrebbe dovuto, a pena di inammissibilità: a) identificare l'atto processuale cui intendeva fare riferimento; b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che, da tale atto, emergeva e che risultava incompatibile con la ricostruzione svolta in sentenza; c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fondava; d) indicare le ragioni per cui l'atto comprometteva, in modo decisivo, la tenuta logica della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento.
4. In data 2 agosto 2024 la difesa della parte civile ha fatto pervenire una memoria scritta, con la quale, in replica alle conclusioni del Procuratore generale, ha dedotto che nessun travisamento della prova sarebbe nella specie ravvisabile, avendo il ricorso, sin dal principio, invocato una differente qualificazione giuridica dei fatti contestati e, segnatamente, l'integrazione del delitto di maltrattamenti in famiglia, su cui la Corte di appello non si sarebbe adeguatamente pronunciata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso della parte civile è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
2. La difesa ha prospettato, quali vizi che inficerebbero la sentenza impugnata, quelli, dedotti ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., di inosservanza o erronea applicazione dell'art. 572 cod. pen., nonché di mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione alla responsabilità penale dell'imputato in ordine al predetto delitto. In sostanza, la tesi articolata nel ricorso, così come nel giudizio di merito, è che le sentenze abbiano pretermesso alcune informative di polizia che avrebbero delineato un quadro di condotte maltrattanti dell'imputato ai danni della V., la quale si sarebbe tolta la vita per sottrarsi alla condizione di grave prostrazione che tali condotte avevano determinato. E l'imputato, dal canto suo, avrebbe potuto certamente prevedere tale drammatico epilogo, considerata la profonda conoscenza che aveva della donna e della sua condizione di sofferenza.
3. Le censure difensive, per quanto appena osservato, hanno come premessa la sussistenza dei presupposti, giuridici e fattuali, per configurare il delitto di maltrattamenti in famiglia.
3.1. Tale ipotesi ricostruttiva, diversamente da quanto opinato in ricorso, è stata certamente esplorata in sede di merito, avendo la Corte di appello espressamente escluso la sussistenza del delitto previsto dall'art. 572 cod. pen. sul presupposto che all'imputato fossero state ascritte condotte di mobbing in ambito lavorativo e che, nondimeno, il rapporto di lavoro non fosse di tipo para familiare, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto mobbing) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (cfr. Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M., Rv. 272804 - 01; Sez. 6, n. 24057 del 11/04/2014, Marcucci, Rv. 260066 - 01; Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, L., Rv. 260063 - 01; Sez. 6, n. 13088 del 5/03/2014, B., Rv. 259591 - 01; Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, S., Rv. 255976 - 01).
3.2, Nondimeno, come già accennato, la difesa ha, in realtà, ipotizzato che la condotta di maltrattamenti potesse essere integrata a partire dal fatto che tra l'imputato e la V. fosse intercorsa una relazione sentimentale, nell'ambito della quale Q. avrebbe riservato alla partner «indebite attenzioni», «esasperanti morbosi comportamenti passionali non corrisposti» e «perduranti azioni vessatorie e ritorsive».
La censura è, tuttavia, articolata a partire da una alternativa ricostruzione fattuale rispetto a quella compiuta dalle due sentenze di merito, che hanno escluso qualunque condotta di violenza, minaccia o molestia da parte dell'imputato, essendo stato, anzi, evidenziato l'atteggiamento di particolare sollecitudine che egli aveva manifestato nei confronti della donna, assecondando la relazione, nel marzo 2006, con un accordo di separazione dalla moglie omologato dal Presidente del Tribunale di Matera.
In proposito, la tesi difensiva si fonda, sostanzialmente, sulla considerazione che la ricostruzione degli accadimenti compiuta in sede di merito sarebbe contraddetta da una serie di elementi di prova di univoco tenore - tra cui le ricerche nel web effettuate dalla V. sul mobbing in ambito sanitario o le 850 telefonate fattele da Q. tra il gennaio e il maggio 2006 - che, invece, descriverebbero, appunto, quelle «indebite attenzioni» di cui si è detto.
Tuttavia, le circostanze di fatto dedotte, che sarebbero state oggetto di una sorta di travisamento per omissione, sono state richiamate in ricorso attraverso la citazione, non autosufficiente, di alcuni documenti (e, segnatamente, di informative di polizia acquisite nella prima fase delle indagini preliminari, che inizialmente erano state chiuse con un provvedimento di archiviazione), non prodotti ma citati attraverso il sintetico riferimento al loro contenuto; o di dichiarazioni di persone informate sui fatti, il cui tenore, per come riportato in ricorso, non pare affatto univoco e che, in taluni casi, sembrano ricondurre ancora una volta le asserite condotte di maltrattamenti non alla relazione sentimentale, quanto al rapporto di lavoro. Ciò è a dirsi, in particolare, per la deposizione di M. M. R., secondo cui la V., assai preoccupata per le carenze dei progetti di ristrutturazione dell'Ospedale (omissis), di cui era referente per l'Azienda ospedaliera, le avrebbe confidato di essere stata sottoposta a mobbing, senza che, peraltro, il ricorso specifichi da chi tali condotte sarebbero state agite; o per quella di G.V., secondo cui la sorella aveva riferito di irregolarità nell'esecuzione dei lavori di ristrutturazione cui si era opposta rispetto alla direzione generale. Mentre le ulteriori deposizioni richiamate in ricorso (quelle di G.A., di M.L., G.V.), oltre a essere state, nuovamente, citate in maniera non autosufficiente, ancora una volta paiono sì descrivere un contesto di tensioni tra Q. e la V., finanche con l'esercizio di «pressioni» da parte del primo, ma che non paiono davvero essere riconducibili alla nozione tecnico-giuridica di maltrattamenti. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, per l'integrazione del delitto di maltrattamenti è necessario che l'agente realizzi comportamenti reiterati, ancorché non sistematici, che, valutati complessivamente, siano volti a ledere, con violenza fisica o psicologica, la dignità e identità della persona offesa, limitandone la sfera di autodeterminazione (ex plurimis Sez. 6, n. 37978 del 3/07/2023, B., Rv. 285273 - 01). Nel caso di specie, tuttavia, non risulta accertata nessuna delle indicate condotte, posto che, alla stregua della motivazione delle sentenze di merito, non risulta affatto dimostrato che sulla donna siano state esercitate particolari pressioni da parte dell'imputato volte a lederne la dignità e identità, né che egli l'abbia ricattata sul piano professionale o abbia assunto, ai suoi danni, atteggiamenti realmente minacciosi nei termini dianzi indicati.
4. Giova, peraltro, rilevare che quand'anche fosse dimostrata la realizzazione di siffatte condotte, la fattispecie evocata dalla difesa di parte civile presupporrebbe, in primo luogo, l'esistenza di un rapporto di causalità tra le stesse e il suicidio.
Infatti, l'unico elemento di prova che, quantomeno in fase di indagini preliminari, era faticosamente emerso, costituito dal racconto di N.G., è stato motivatamente ritenuto inidoneo a supportare l'ipotesi accusatoria. G., già dipendente dell'ASL di (omissis) e autista di Q. all'epoca in cui costui era direttore generale, aveva riferito di averlo accompagnato, il 15 maggio 2006, presso la direzione sanitaria dell'Ospedale di (omissis), ove l'imputato si era incontrato con la V., con la quale aveva avuto una discussione molto accesa. Nel corso della lite, la donna aveva riferito di avere riscontrato delle fatture anomale e degli ammanchi in denaro, dicendosi indisponibile ad andare in carcere per colpa di altri e di volersi ammazzare; e aveva invitato Q. a regolarizzare la loro situazione sentimentale, parlando con la moglie. Sul finire della discussione, secondo il teste, la V. aveva ribadito di volersi ammazzare e, per tutta risposta, Q. le aveva rivolto la frase testuale:
«se ti ammazzi mi fai due piaceri», per poi congedarsi da lei. Dopo il suicidio della donna, a suo dire Q. l'aveva, inoltre, inviato a non riferire a nessuno l'accaduto. Tuttavia, secondo i Giudici di merito le dichiarazioni di G. erano state smentite dagli accertamenti di polizia giudiziaria, che avevano consentito di escludere come, nel giorno indicato, egli fosse alla guida dell'auto di servizio, posto che, in quella data, il veicolo non era stato impegnato in alcun viaggio ed essendo emerso che, nel frangente, Q. era giunto da Montalbano a (omissis) a bordo della propria autovettura, ottenendo anche il rimborso delle spese affrontate. Le dichiarazioni di G., inoltre, erano state smentite da quelle di altri testimoni, che non avevano riferito di una discussione animata tra Q. e la V.; che avevano collocato l'incontro tra i due in una fascia oraria diversa da quella indicata da G. e che, soprattutto, quel giorno non avevano notato la presenza di quest'ultimo. Inoltre, le due sentenze di merito "1anno anche rilevato che G. era stato condannato per gravi reati e annoverava pendenze per reati contro il patrimonio, reati di falso e altro; e aveva ragioni di risentimento nei confronti di Q. in quanto costui non si era adoperato per la sua riassunzione in servizio e stabilizzazione lavorativa. Tutti elementi, quelli ora riepilogati, che sono stati valorizzati, in maniera niente affatto illogica, per concludere nel senso della inattendibilità del testimone, il quale, del resto, è stato anche condannato, con sentenza del Tribunale di Matera del 20 dicembre 2022, per falsità dichiarative rese nell'ambito di questo procedimento.
Dunque, la frase «se ti uccidi mi fai due piaceri», riferita da G., cui in astratto avrebbe potuto annettersi rilievo sul piano causale tra l'azione dell'imputato e il successivo suicidio, ha perso di qualunque rilevanza sul piano probatorio allorché, come detto, il teste è stato ritenuto inattendibile. Tanto più che, in ogni caso, una siffatta idoneità sul piano eziologico si sarebbe scontrata con il dato, evidenziato dalle sentenze di merito, della personalità della V., descritta come brillante, di carattere molto forte e dalla spiccata intelligenza. E in ogni caso, quand'anche l'episodio del litigio fosse stato ritenuto provato, la sua efficienza causale rispetto al suicidio avrebbe dovuto essere esclusa per il fatto che la donna aveva certamente deciso il tragico gesto fin dalla mattina, allorché si era rifornita della benzina, e, dunque, prima della asserita discussione con Q..
5. Del pari, quand'anche tale rapporto eziologico fosse stato dimostrato, si sarebbe dovuta, altresì, accertare la sussistenza dei requisiti che l'art. 59 cod. pen. ravvisa per l'imputazione soggettiva di una circostanza aggravante, ovvero che l'evento non voluto, in questo caso il suicidio della V., potesse essere stato concretamente previsto o fosse, comunque, prevedibile da parte dell'agente.
Ma anche in questo caso, le sentenze di merito hanno motivatamente escluso che Q. avesse potuto prevedere ciò che era poi accaduto, né tantomeno che lo avesse effettivamente previsto, non essendo stato dimostrato, una volta ritenuta l'inattendibilità della testimonianza di G., che egli fosse venuto a conoscenza del proposito suicidario della donna.
Né la tesi affermata dalla difesa di parte civile appare idonea a sovvertire il logico ragionamento sviluppato dalle due sentenze, essendosi il ricorso limitato a rappresentare come Q. fosse un profondo conoscitore della donna, con una modalità argomentativa che si rivela del tutto assertiva e, ancora una volta, rivalutativa.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere complessivamente rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
6.1. Ai sensi dell'art. 52, d.lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento sarà necessario omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti private, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.