Nel caso di specie, la condotta del lavoratore ha assunto i connotati del reato di truffa andando a ledere l'immagine dell'azienda e legittimando i controlli difensivi posti in essere attraverso un'agenzia investigativa.
Il Giudice di seconde cure respingeva l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore basandosi sulle indagini che erano state effettuate attraverso un'agenzia investigativa dalle quali era emerso che egli, addetto alla raccolta dei rifiuti, usava intrattenersi all'interno di esercizi commerciali durante l'orario di lavoro, e ciò non solo per consumare cibi e bevande o per espletare i suoi bisogni fisiologici, ma anche per chiacchierare con i presenti. Tali “pause”, peraltro, non erano di breve durava ma talvolta raggiungevano e superavano i 30 minuti. Per queste ragioni, la Corte ha reputato il licenziamento proporzionato alla condotta posta in essere che assumeva i connotati del reato di truffa, perché il mancato svolgimento della prestazione nei termini in cui era dovuta era poi seguita dalla presentazione di inveritiere attestazioni di fogli di serviziodell'osservanza integrale dell'orario pattuito, determinando quindi una ingiusta percezione della retribuzione che non era parzialmente dovuta, con correlativo danno per l'azienda.
Il lavoratore impugna la decisione mediante ricorso per cassazione.
Con l'ordinanza n. 27610 del 24 ottobre 2024, gli Ermellini rigettano il ricorso, ricordando anzitutto che il controllo effettuato dalle agenzie investigative può estendersi ad atti illeciti compiuti dal lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione scaturente da contratto, quando sia volto a verificare condotte in grado di configurare ipotesi penalmente rilevanti ovvero integranti attività fraudolente.
Nel caso in esame, i fatti avevano rilievo addirittura penale, o comunque erano idonei a raggirare in qualche modo il datore di lavoro, ledendo così non solo il patrimonio aziendale, ma anche l'immagine stessa dell'azienda. Proprio recentemente, la Cassazione ha ribadito la nozione di “patrimonio aziendale” che può essere oggetto di tutela nell'ambito dell'esercizio del potere di controllo dell'attività dei lavoratori e che va intesa estensivamente, riconoscendo il diritto del datore di lavoro di tutelare il suo patrimonio aziendale inteso non solo come complesso dei beni aziendali, ma anche quale propria immagine esterna. In tal senso, è stata riconosciuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta del lavoratore che potenzialmente integra un illecito penale, ammettendo l'accertamento dei fatti disciplinarmente rilevanti mediante telecamere appositamente installate nei locali aziendali, evidenziando che la lesione dell'immagine e del patrimonio reputazionale dell'azienda non è meno importante del materiale che la compone.
Anche per questo motivo, i Giudici rigettano il ricorso e condannano il ricorrente al pagamento delle spese di lite.
Svolgimento del processo
1. la Corte di Appello di Catanzaro, nell'ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, con la sentenza impugnata ha respinto integralmente l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimato, all'esito di indagini effettuate mediante agenzia investigativa, ad A.A. da E. O. Spa, in riforma della pronuncia di primo grado che, pur ritenendo sussistenti i fatti contestati, aveva ritenuto comunque illegittimo il recesso per difetto di proporzionalità della sanzione ed applicato la tutela indennitaria prevista dal comma 5 dell'art. 18 St. Lav. novellato;
2. la Corte territoriale, in estrema sintesi, dopo aver respinto tutte le altre doglianze contenute nel reclamo del lavoratore, ha considerato che, "nel caso di specie, il A.A., unitamente a due colleghi, si dedicava preordinatamente e quale prassi tanto costante quanto illegittima, ad incontri all'interno di esercizi commerciali in orari di lavoro. Incontri che non si esaurivano nella degustazione di consumazioni varie o, se del caso, nell'espletamento di bisogni fisiologici all'interno delle strutture, ma continuavano in ameni colloqui all'esterno degli esercizi commerciali dove il reclamante trascorreva gran parte delle pause non autorizzate. Né può dirsi che tali pause duravano il tempo necessario a ristorarsi, trattandosi di incontri che raggiungevano, in via esemplificativa, la durata di 36 minuti (21.10.16), 38 minuti (10.11.16), 42 minuti (22.11.16) e in cui la gran parte del tempo era trascorso nel colloquio successivo alla consumazione della colazione"; ha valutato che tali condotte erano state tenute anche nei mesi di gennaio e aprile del 2016 con identiche modalità, che le reiterate violazioni dei doveri di ufficio erano tanto più gravi in chi rivestiva un ruolo apicale all'interno dell'azienda, con funzioni di responsabilità e coordinamento di altri dipendenti nell'ambito di un servizio di particolare importanza quale quello della raccolta dei rifiuti, che "il sostare costantemente in luoghi pubblici per tempi irragionevoli a degustare consumazioni e chiacchierare con i colleghi, con l'inevitabile percezione da parte del cittadino di tale deprecabile prassi, finisse per arrecare pregiudizio al decoro aziendale e alla immagine che di essa si crea nella cittadinanza"; la Corte ha, quindi, reputato che il licenziamento dovesse ritenersi "proporzionato", argomentando che la condotta assumeva "rilievo penale e, in particolare, del reato di truffa", in quanto "il mancato svolgimento della prestazione lavorativa nei termini in cui era dovuta, per avere il lavoratore goduto di reiterate pause decise unilateralmente e arbitrariamente, seguita da inveritiere attestazioni dei fogli di servizio dell'integrale osservanza dell'orario pattuito, ha determinato l'ingiusta percezione di una retribuzione parzialmente non dovuta con correlativo danno per l'azienda"; ha, poi, precisato: "ad ogni modo, pur prescindendo dalla configurabilità del reato di truffa, la complessiva condotta come sopra descritta, in quanto idonea a raggirare il datore di lavoro che fa affidamento sul corretto svolgimento della prestazione, costituisce fatto che, anche per via della sua sistematicità, è idoneo a recidere il vincolo fiduciario";
3. avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il soccombente con dieci motivi;
ha resistito la società con controricorso;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all'esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di sessanta giorni.
Motivi della decisione
1. i motivi di ricorso possono essere indicati secondo la sintesi offerta dalla medesima parte ricorrente;
1.1. con il primo motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione dell'art. 73 CCNL Igiene ambientale in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 e 416 c.p.c. in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 c.p.c. Con tale motivo si censura la sentenza per non avere accolto l'eccezione di consumazione del potere disciplinare formulata da parte ricorrente.";
1.2. con il secondo motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 c.c. e 112 c.p.c. in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 4, L. n. 604/1966, 15 L. n. 300/1970, 3 l. 108/1990 e dell'art. 28 D.Lgs. 150 del 2011, in relazione all'art. 360 comma 1, nn. 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 E 416 c.p.c. in relazione all'art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e dell'art. 132 c.p.c. in relazione all'art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c. Motivazione apparente. Con tale motivo si evidenzia la erroneità della decisione nella parte in cui vaglia e rigetta la domanda volta a sostenere la natura invero discriminatoria o quantomeno ritorsiva del licenziamento";
1.3. con il terzo motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 134 TULPS, 257-bis, 257-ter, 257-quater del R.D. 635/1940 e del decreto del Ministero dell'Interno n. 269/2010, in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Con tale motivo si censura la sentenza per avere interpretato erroneamente la sopra richiamata normativa ed avere di conseguenza erroneamente giudicato legittimi i controlli investigativi a cui il ricorrente è stato sottoposto";
1.4. con il quarto motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 St. Lav., in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Con tale motivo si denuncia l'erroneità della decisione per avere ritenuto legittimi e, dunque, non violativi degli artt. 2,3 e 4 St. Lav. i controlli difensivi a cui è stato sottoposto il A.A.";
1.5. con il quinto motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 c.c., in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell'art. 6 CEDU e degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Con tale motivo si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto sussistenti i fatti oggetto di contestazione senza ammettere le richieste istruttorie formulate dal A.A.";
1.6. con il sesto motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 c.c., in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell'art. 115, comma 2, c.p.c., in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e dell'art. 5 L. n. 604/66 in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell'art. 6 CEDU e degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Con tale motivo si denuncia l'erroneità della decisione nella parte in cui ha ritenuto sussistenti i fatti oggetto di contestazione, peraltro basandosi su un'erronea qualificazione in termini di fatto notorio della circostanza secondo la quale il A.A. non stesse lavorando nelle date e negli orari oggetto di contestazione. Si evidenzia che la Corte ha palesemente violato la disciplina in materia di onere della prova in ipotesi di licenziamento. Si censura poi la decisione per aver ritenuto i fatti sussistenti senza ammettere le richieste istruttorie formulate dal A.A..";
1.7. con il settimo motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 112, 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 e 4, c.p.c. Con tale motivo si censura la decisione per avere, una volta ritenuto erroneamente i fatti contestati sussistenti, escluso che, a tutto voler concedere e senza nulla ammettere, le asserite e contestate pause dal lavoro oggetto di contestazione non avessero rilievo disciplinare costituendo pause dal lavoro legittime ai sensi del disposto di cui all'art. 8 D.Lgs. 66/03";
1.8. con l'ottavo motivo si denuncia: "Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119, 2104, 2105, 2106 c.c. e degli artt. 1 e 3 L. n. 604 del 1966, in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3, c.p.c. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 73 CCNL Igiene ambientale, in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3, c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Con tale motivo si censura la decisione, nella parte in cui, dopo aver commesso gli errori di cui si è detto nei motivi precedenti, ha ritenuto di poter giudicare la sanzione disciplinare proporzionale alla (presunta) infrazione e di poter ritenere sussistente una giusta causa di licenziamento";
1.9. con il nono motivo si denuncia: "violazione o falsa applicazione dell'art. 18 commi 4 e 5 St. Lav. in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Con tale motivo si censura la decisione per aver ritenuto che, nel caso di specie, comunque alla illegittimità del licenziamento per difetto di proporzionalità non potesse conseguire l'applicazione della tutela reintegratoria";
1.10. con il decimo motivo si denuncia: "violazione o falsa applicazione dell'art. 18 St. Lav. in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Infine si evidenzia l'erroneità della decisione nella parte in cui la Corte ha escluso che alla illegittimità del licenziamento di RSA dovesse in automatico, giusta il disposto di cui all'art. 18, co. 11, St. Lav. conseguire l'applicazione della tutela reintegratoria";
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. il primo motivo critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l'eccezione di decadenza sollevata dal lavoratore in relazione all'art. 73 del CCNL Igiene ambientale, così motivando: "nel caso di specie il dies a quo del termine di decadenza non va individuato nel 15.12.16 (giorno in cui l'azienda ricevette le giustificazioni scritte), ma nel 19.12.16 (giorno in cui si svolse l'audizione orale chiesta dal lavoratore). Dal momento che i 30 giorni decorrono dalla data di acquisizione delle giustificazioni del dipendente, non si vede per quale ragione dell'audizione orale, che è prevista quale ulteriore strumento di difesa del lavoratore che voglia giustificarsi, non debba tenersi conto. Ne consegue che il termine di decadenza ha cominciato il suo corso solo in data 20.12.16, ovvero, secondo i principi generali, dal giorno successivo a quello dell'audizione orale. L'ulteriore conseguenza è che il potere disciplinare doveva essere esercitato, pur aderendo alla impostazione del ricorrente, secondo cui dovrebbero essere conteggiati tutti i giorni del calendario, entro il 18.1.17. Nel caso di specie è documentale che il provvedimento espulsivo è stato adottato, ma anche spedito con affidamento al servizio postale, in data 16.1.17, per cui nessun termine di decadenza è stato violato";
le doglianze mosse in proposito da parte ricorrente risultano infondate in quanto l'interpretazione fornita dalla Corte territoriale al disposto della disciplina della contrattazione collettiva risulta corretta;
2.1.1. l'art. 73 del CCNL Igiene ambientale in controversia stabilisce: "8. Entro i 5 giorni lavorativi dalla data di notifica della contestazione da parte dell'azienda, il lavoratore può presentare all'azienda stessa le proprie giustificazioni scritte ovvero richiedere per iscritto di discuterle facendosi assistere da un rappresentante dell'Associazione sindacale alla quale sia iscritto o abbia conferito mandato. (...) 9. Entro 30 giorni lavorativi dalla data di acquisizione delle giustificazioni del dipendente ai sensi del comma 8 - salvo casi particolarmente complessi oggettivamente comprovabili da parte dell'azienda o del lavoratore - l'azienda conclude l'istruttoria e motiva, per iscritto, all'interessato l'irrogazione dello specifico provvedi mento disciplinare tra quelli di cui al comma 1, lettere b), c), d), e), f). Decorso tale termine, l'azienda non può comminare al dipendente alcuna sanzione";
quanto alla determinazione del dies a quo da cui decorre il termine di trenta giorni lavorativi ivi stabilito, non vi è dubbio che laddove - come nella specie - il lavoratore si sia avvalso della facoltà di discutere le proprie giustificazioni oralmente, è da tale audizione che può decorrere il termine, avendo la stessa carattere costitutivo delle difese (cfr. Cass. n. 19304 del 2019) integrante "la data di acquisizione delle giustificazioni del dipendente", sicché il datore di lavoro non può essere chiamato a deliberare compiutamente senza tenerne conto;
2.1.2. circa, poi, la pretesa di parte ricorrente che sostiene decadenza dal potere disciplinare una volta che il provvedimento non sia "ricevuto" dal lavoratore nel termine di trenta giorni, va considerato come la disposizione in parola preveda che entro il termine l'azienda debba concludere l'istruttoria e motivare il provvedimento, per cui l'espressione usata dalle parti collettive è più propriamente riferibile al momento in cui si è compiuto il processo di deliberazione della volontà aziendale, anziché a quello nel quale l'atto viene portato a conoscenza del lavoratore (cfr. Cass. n. 27935 del 2021); ciò in conformità con quanto questa Corte, nell'interpretare clausole analoghe di altri contratti collettivi, ha evidenziato, con plurime pronunce, per le quali: "nel caso in cui il contratto collettivo di lavoro imponga al datore l'onere di intimare la sanzione disciplinare, a pena di decadenza, entro un certo termine dalla data di ricezione delle giustificazioni fornite dal lavoratore, tale termine deve intendersi rispettato per il solo fatto che il datore abbia tempestivamente manifestato la volontà di irrogare la sanzione, a nulla rilevando che tale dichiarazione recettizia sia portata a conoscenza del lavoratore successivamente alla scadenza di quel termine." (Cass. n. 20566 del 2010 e negli stessi termini Cass. n. 5093 del 2011; Cass. n. 15102 del 2012; Cass. n. 5714 del 2015); è stato osservato, infatti, che il principio della scissione tra il momento in cui la volontà di recedere è manifestata e quello in cui si producono gli effetti ricollegabili a tale volontà, affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8830 del 14 aprile 2010 con riferimento alla impugnazione del licenziamento, deve trovare applicazione ogniqualvolta nell'ambito del procedimento disciplinare il momento della esternazione della volontà non coincide con quello della conoscenza da parte del destinatario perché diversamente risulterebbe intaccato il parametro di ragionevolezza ed uguaglianza formale e sostanziale tra i soggetti coinvolti (così Cass. n. 22171 del 2017);
2.1.3. peraltro, è appena il caso di rammentare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "la violazione del termine per l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare, stabilito dalla contrattazione collettiva, è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all'art. 7 st. Lav., tale da rendere operativa - ove la sanzione sia costituita da un licenziamento disciplinare - la tutela prevista dall'art. 18, comma 6, dello stesso Statuto, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 purché il ritardo nella comunicazione del predetto licenziamento non risulti, con accertamento in fatto riservato al giudice di merito, notevole e ingiustificato, tale da ledere in senso non solo formale ma anche sostanziale il principio di tempestività, per l'affidamento in tal modo creato nel lavoratore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto e per la contrarietà del ritardo datoriale agli obblighi di correttezza e buona fede" (Cass. n. 10802 del 2023; Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017; Cass. n. 17113 del 2016);
2.2. con il secondo motivo di ricorso si duole che i giudici del merito abbiano negato la natura ritorsiva o, comunque, discriminatoria per ragioni sindacali, del licenziamento; posto che la possibilità di affermare la nullità del recesso per il motivo illecito unico e determinante della ritorsione è, in radice, escluso dalla ritenuta giustificazione del licenziamento per sussistenti ragioni disciplinari, di cui si dirà, il motivo è inammissibile per concorrenti ragioni;
2.2.1. esso innanzitutto contiene promiscuamente contemporanea denuncia di violazione di plurime disposizioni di legge, sostanziale e processuale, senza adeguata indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell'art. 360 c.p.c., così non consentendo a questo Collegio una corretta identificazione del devolutum e dando luogo, invece, all'impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, "di censure caratterizzate da (...) irredimibile eterogeneità" (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016; Cass. n. 3141 del 2019, Cass. n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019; Cass. n. 18560 del 2019; Cass. n. 36881 del 2021); in particolare, le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 16990 del 2017) hanno persuasivamente rilevato come "la sovrapposizione di censure di diritto, sostanziali e processuali, non consente alla Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate", atteso che "la tipizzazione dei motivi di ricorso comporta, infatti, che il generale requisito della specificità si moduli, in relazione all'impugnazione di legittimità, nel senso particolarmente rigoroso e pregnante, sintetizzato con l'espressione della c.d. duplice specificità, essendo onere del ricorrente argomentare la sussunzione della censura formulata nella specifica previsione normativa alla stregua della tipologia dei motivi di ricorso tassativamente stabiliti dalla legge";
invero, nella specie la seriale articolazione di plurime censure di violazione e falsa applicazione di legge trascura di considerare che il vizio ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l'indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dal prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
2.2.2. inoltre, spetta al giudice del merito apprezzare, nell'ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l'esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 3126 del 2019);
2.2.3. infine, le doglianze sono inammissibili perché nella sostanza si pretende una diversa valutazione della vicenda storica, avuto particolare riguardo all'attività sindacale del ricorrente, che, secondo la Corte non sarebbe affatto emersa, così come non sarebbe emerso che il A.A. avesse ricevuto un trattamento deteriore rispetto ad altri dipendenti, il tutto con apprezzamenti di merito sostenuti da una motivazione che supera, di gran lunga, la soglia del cd. minimum costituzionale;
2.3. il terzo motivo di ricorso lamenta che colui il quale aveva effettuato le indagini investigative (tal B.B.) utilizzate poi in giudizio non poteva ritenersi autorizzato a svolgerle nell'ottobre e nel novembre 2016 perché a tale epoca non era più il rappresentante legale della società, ma solo il socio accomandante, essendo al medesimo subentrata la figlia;
la censura non merita di essere condivisa, atteso che la Corte territoriale ha accertato dagli atti che la licenza ex art. 134 Tulps, di cui il B.B. era titolare sin dal 2013, era stata prorogata fino al 24.2.2019 e che solo in data 3.1.2017 - quindi in epoca successiva alle indagini in contesa - la Prefettura di Catanzaro aveva revocato detta licenza per conferirla alla figlia;
con il motivo in esame parte ricorrente pretende una rivalutazione di tale accertamento fattuale, evidentemente precluso in questa sede di legittimità;
peraltro, questa Corte ha avuto modo di affermare che l'autorizzazione prefettizia prevista per le attività di investigazione, ricerche e raccolta di informazioni per conto di privati, non rappresenta una condizione necessaria per l'utilizzabilità degli esiti testimoniali di tali indagini (cfr. Cass. n. 24580 del 2013, che richiama Cass. n. 25335 del 2010);
2.4. il quarto motivo di ricorso critica diffusamente la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto utilizzabili le risultanze dei controlli effettuati mediante agenzia investigativa in pretesa violazione della disciplina statutaria contenuta negli artt. 2, 3 e 4 della L. n. 300 del 1970;
la censura non merita condivisione in quanto la motivazione gravata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte;
2.4.1. fermo restando che il controllo di terzi, sia quello di guardie particolari giurate così come di addetti di un'agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza (tra le recenti, v. Cass. n. 17004 del 2024; in precedenza Cass. n. 9167 del 2003; Cass. n. 15094 del 2018; Cass. n. 21621 del 2018; Cass. n. 25287 del 2022), secondo le medesime pronunce si afferma reiteratamente che il controllo delle agenzie investigative può avere ad oggetto il compimento di "atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione contrattuale" (così ancora Cass. n. 9167 del 2023, che cita la giurisprudenza precedente formatasi nei casi di appropriazione indebita di danaro riscosso per il datore di lavoro e sottratto alla contabilizzazione, e cioè Cass. n. 8388 del 2002, Cass. n. 9576 del 2001; Cass. n. 6390 del 1999; Cass. n. 10761 del 1997; Cass. n. 9836 del 1995); si giustifica l'intervento in questione "per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione" (v. Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017); ad esempio, è costantemente ritenuto legittimo il controllo tramite investigatori che non abbia ad oggetto l'adempimento della prestazione lavorativa ma "sia finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, come proprio nel di controllo finalizzato all'accertamento dell'utilizzo legge n. 104 del 1992" (v. Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 15094 del 2018; Cass. n. 4670 del 2019; da ultimo, Cass. n. 6468 del 2024);
si è poi statuito che "l'accertamento circa la riferibilità (o meno) del controllo investigativo allo svolgimento dell'attività lavorativa rappresenta una indagine che compete al giudice del merito, involgendo inevitabilmente apprezzamenti di fatto" (in termini, da ultimo: Cass. n. 22051 del 2024);
2.4.2. nella specie la Corte territoriale ha accertato, come ricordato nello storico della lite, che i fatti disciplinarmente perseguiti avessero "rilievo penale" o comunque erano idonei "a raggirare il datore di lavoro" e a ledere non solo "il patrimonio aziendale, ma anche l'immagine dell'azienda all'esterno";
recentemente questa Corte (Cass. n. 23985 del 2024) ha ricordato come la nozione di "patrimonio aziendale" tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell'attività dei lavoratori è stata intesa, dalla giurisprudenza di legittimità, in una accezione estesa; si è così riconosciuto "il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, (...) costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico" (Cass. n. 2722 del 2012; sulla tutela dell'immagine aziendale v. pure Cass. n. 13266 del 2018); costantemente, poi, è stata ritenuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, sia ammettendo l'accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere installate in locali dove si erano verificati furti (Cass. n. 10636 del 2017) o a presidio della cassaforte aziendale (Cass. n. 22662 del 2016), sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell'addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate (per tutte v. Cass. n. 18821 del 2008; sul controllo mediante agenzie investigative v., da ultimo, Cass. n. 17004 del 2024); si è quindi ribadito che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale "dalla lesione all'immagine e al patrimonio reputazionale dell'azienda, non meno rilevanti dell'elemento materiale che compone la medesima" (Cass. n. 23985/2024 cit.);
inoltre, la sentenza impugnata ha richiamato a sostegno un precedente di questa Corte in vicenda analoga (Cass. n. 20440 del 2015) che, ribadito come i divieti contenuti nello Statuto dei lavoratori non riguardino "comportamenti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale" ovvero "intesi a rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa nonché illeciti", effettuati anche mediante agenzie investigative private, ha sottolineato che "ciò tanto più vale quando il lavoro dev'essere eseguito, (...), al di fuori dei locali aziendali, ossia in luoghi in cui è più facile la lesione dell'interesse all'esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell'immagine dell'impresa, all'insaputa dell'imprenditore", dovendosi in ogni caso "escludere che la determinazione del tempo e della durata della pausa di riposo, da non confondere coi momenti di soddisfazione delle necessità fisiologiche, sia rimessa all'arbitrio del lavoratore";
rispetto a tale cornice giurisprudenziale, parte ricorrente non individua realmente l'error in iudicando in cui sarebbe incorsa la Corte calabrese, ma piuttosto propone un diverso apprezzamento di merito in ordine alla riconducibilità del controllo alla verifica del mero adempimento della prestazione lavorativa;
2.5. il quinto e il sesto motivo di ricorso, scrutinabili congiuntamente per connessione, lamentano che la Corte di Appello abbia ritenuto sussistenti i fatti oggetto di contestazione disciplinare e, in particolare, si dolgono che non siano state ammesse le richieste istruttorie formulate dal A.A.;
2.5.1. i motivi presentano pregiudiziali e concorrenti profili di inammissibilità, già segnalati a proposito della tecnica di formulazione del secondo motivo di impugnazione, sia avuto riguardo alla denuncia promiscua della violazione di molteplici disposizioni, sia per il difetto di adeguata specificità delle doglianze;
inoltre, viene impropriamente invocata la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e, il sesto mezzo, anche dell'art. 2697 c.c.; come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);
parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell'art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
quanto alla violazione dell'art. 2697 c.c., la stessa è deducibile per cassazione, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica in sostanza l'apprezzamento operato dai giudici del merito circa la sussistenza dei fatti oggetto di rilievo disciplinare, opponendo una diversa valutazione;
va rimarcato che dedurre dal materiale istruttorio acquisito il convincimento circa la sussistenza o meno dei fatti addebitati è compito riservato al giudice del merito e le Sezioni unite di questa Corte hanno più volte ribadito l'inammissibilità di censure che "sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l'inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l'azione", così travalicando "dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti" (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);
in particolare, la valutazione del materiale probatorio - destinata a risolversi nella scelta di uno o più tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all'osservazione e alla valutazione del giudice - è espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della Corte di legittimità (con la conseguenza che non è denunciabile, dinanzi a quest'ultima, come vizio della decisione di merito, a seguito della definitiva riformulazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c.) restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale il giudice di merito ha compiuto le proprie valutazioni discrezionali di carattere probatorio;
2.5.2. quanto, poi, alla mancata ammissione delle prove richieste, per risalente e condiviso insegnamento di questa Corte, la mancata ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011; Cass. n. 16214 del 2019; da ultimo: Cass. n. 18072 del 2024); inoltre spetta esclusivamente al giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti - senza che possa neanche essere invocata la lesione dell'art. 6, primo comma, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo al fine di censurare l'ammissibilità di mezzi di prova concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) - con una valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi confini posti dalla novellata formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);
più di recente (Cass. n. 30810 del 2023) è stato ribadito che il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali oppure per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.; circa il primo aspetto, in via di principio, non va posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, par. 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l'appunto si risolva in violazione anche di tali diritti-fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; tuttavia una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. n. 910 del 1977) ovvero affermi tout court l'inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite; ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto - come è stato rilevato per insegnamento insuperato - "il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta" (Cass. SS.UU. n. 8077 del 2012); in tal caso, "la decisione si riferisce certo, ad un'attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa e, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché quindi, pur traducendosi anch'esse in un'attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all'attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle" (Cass. SS.UU. n. 8077/2012 cit.); la mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all'attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999);
con le censure in esame si verte, evidentemente, in quest'ultima prospettiva, ma rispetto alla ricostruzione fattuale operata dalla Corte territoriale - peraltro in larga parte coincidente con la pronuncia di prime cure - non viene affatto evidenziato l'omesso esame di un fatto realmente decisivo, nel senso patrocinato da questa Corte, ossia che, se fosse stato valutato, avrebbe condotto ad un esito diverso della lite, con prognosi di certezza e non di mera possibilità (v., tra molte, Cass. SS.UU. n. 3670 del 2015 e n. 14477 del 2015);
neppure è ravvisabile, nella specie, una radicale contraddizione della sentenza impugnata che non ha posto a fondamento della decisione la regola di giudizio residuale basata sulla inosservanza dell'onere probatorio ex art. 2697 c.c., benché la parte gravata si fosse offerta di adempiere (cfr. Cass. n. 18285 del 2021), ma piuttosto la Corte ha motivato il suo convincimento circa la ricostruzione dei fatti sulla base degli elementi già acquisiti, delibando poi in termini di inammissibilità le istanze istruttorie formulate dalla difesa del A.A.;
2.6. parimenti e per analoghe ragioni non può trovare accoglimento il settimo motivo di ricorso che censura la sentenza impugnata per avere escluso che le pause di lavoro oggetto di contestazione disciplinare potessero giustificarsi ai sensi dell'art. 8 D.Lgs. n. 66 del 2003;
oltre ai profili di inammissibilità già evidenziati in ordine alla impropria invocazione della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e all'operatività del principio di non contestazione, la cui valutazione spetta ai giudici del merito, la doglianza pretende sostanzialmente una diversa ricostruzione del fatto rispetto a quella accertata dai giudici ai quali il merito spetta, secondo i quali, sulla base delle annotazioni contenute nel registro delle presenze effettuate dallo stesso A.A., questi lavorava "dalle 6 alle 12 o dalle 5 alle 11", respingendo motivatamente la richiesta di prova orale sul punto; ogni diverso apprezzamento non compete a questa Corte di legittimità;
2.7. l'ottavo motivo di ricorso critica la sentenza impugnata per avere ritenuto i fatti accertati "integranti giusta causa di licenziamento" e, dunque, il recesso proporzionato rispetto alle infrazioni commesse; si eccepisce che la Corte territoriale non avrebbe adeguatamente valutato: la tolleranza datoriale rispetto ad analoghe condotte accertate in precedenza; la riammissione in servizio del dipendente, dopo la sospensione cautelare, per circa un mese; la mancanza di pregiudizi per l'azienda; l'assenza di precedenti disciplinari e l'attaccamento all'azienda del A.A.; la circostanza che la contrattazione collettiva di settore prevede il licenziamento in caso di condotte penalmente rilevanti, mentre si contesta che nella specie potesse ricorrere il reato di truffa ai danni del datore di lavoro, in assenza di artifici e raggiri, anche perché i fogli dei registri di presenza relativi ai giorni contestati non sarebbero mai stati prodotti in giudizio; le censure vanno respinte;
2.7.1. innanzitutto, perché parte ricorrente pretende da questa Corte un controllo ben oltre i limiti riservati al sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento (per i quali si rinvia, ai sensi dell'art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022 e, da ultimo, Cass. n. 107 e n. 4502 del 2024), passando per un diverso apprezzamento di merito circa i compositi elementi che il giudice è chiamato a valutare per ritenere integrata la giustificazione del licenziamento (quali, ad esempio, la rilevanza o meno dell'illibatezza disciplinare);
2.7.2. per di più sulla base di una diversa ricostruzione della vicenda storica, ad esempio contestando le "inveritiere attestazioni sui fogli di servizio" e la conseguente rilevanza penale degli addebiti o, quantomeno, la condotta fraudolenta, ovvero il "pregiudizio" per l'immagine dell'azienda, circostanze invece ritenute sussistenti dalla Corte territoriale;
2.7.3. in ogni caso è stato ancora di recente ribadito (Cass. n. 8642 e n. 20979 del 2024) che il giudizio di proporzionalità della sanzione è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003); la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata - che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi - la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell'art. 360, deve denunciare l'omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016);
2.7.4. infine, quanto alla denunciata erroneità dell'interpretazione dell'art. 73 CCNL Igiene ambientale che prevederebbe la risoluzione del rapporto di lavoro solo nelle ipotesi di fatti penalmente rilevanti, anche a non voler considerare che la Corte territoriale ha, invece, accertato che tali fatti avevano rilevanza penale, parte ricorrente non confuta adeguatamente l'argomento utilizzato dalla stessa Corte per cui "l'art. 73, comma 3, del CCNL, nel disciplinare i casi di licenziamento per giusta causa di cui alla precedente lettera f), fa riferimento alla violazione di doveri anche non particolarmente richiamati nel presente contratto, per cui la necessaria rilevanza penale della giusta causa di recesso è senz'altro da escludere";
ciò in coerenza con una consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui dalla natura legale della nozione di giusta causa deriva che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di recesso contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018);
2.8. gli ultimi due motivi di ricorso sono inammissibili in quanto essenzialmente prospettati sull'assunto, rivelatosi poi errato anche all'esito del vaglio di legittimità, che il licenziamento fosse illegittimo e quindi riguardano l'invocata tutela reintegratoria rispetto a quella indennitaria riconosciuta in primo grado;
3. alla stregua di tutte le considerazioni esposte il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese regolate secondo soccombenza e liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre esborsi pari a 200,00, spese generali al 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.