
Il termine di decadenza decorre dalla data di comunicazione, ad opera della cancelleria, del deposito della sentenza che ha accertato la natura subordinata del rapporto di lavoro instaurato con la datrice.
In riforma della pronuncia di primo grado, la Corte d'Appello rigettava per intervenuta decadenza la domanda di una lavoratrice volta ad ottenere l'indennità mensile di disoccupazione (NASpI).
Nello specifico, la Corte territoriale rilevava che il termine di decadenza di sessantotto giorni decorre dalla data di...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 436 del 2019, depositata il 18 marzo 2019, la Corte d’appello di Milano ha accolto il gravame dell’INPS e, in riforma della pronuncia del Tribunale della medesima sede, ha rigettato, per intervenuta decadenza, la domanda della dottoressa A.M., volta ad ottenere l’indennità mensile di disoccupazione, denominata «Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI)».
A fondamento della decisione, la Corte territoriale ha argomentato che il termine di decadenza di sessantotto giorni decorre dal 27 giugno 2015, data di comunicazione, ad opera della cancelleria, del deposito della sentenza che ha accertato la natura subordinata del rapporto di lavoro instaurato con M. s.r.l. in forza di un contratto a progetto.
I giudici d’appello soggiungono che è ininfluente la data della notifica della sentenza ad opera di terzi (10 ottobre 2015), rilevante ai soli fini del passaggio in giudicato, in quanto già la comunicazione del deposito consente di richiedere la prestazione.
È dunque tardiva la domanda presentata il 13 novembre 2015, allorché il termine di sessantotto giorni era già vanamente decorso.
2. La dottoressa A.M. ricorre per cassazione, con due motivi, contro la sentenza d’appello.
3. L’INPS replica con controricorso, illustrato da memoria in prossimità dell’adunanza in camera di consiglio.
4. Il ricorso è stato fissato per la trattazione in camera di consiglio, in applicazione dell’art. 380-bis.1. cod. proc. civ.
5. Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni scritte.
6. All’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni (art. 380-bis.1., secondo comma, cod. proc. civ.).
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), la ricorrente denuncia l’omesso esame della tardività dell’eccezione di decadenza, formulata dall’Istituto soltanto in giudizio e non nella prodromica fase amministrativa.
Così operando, l’INPS avrebbe violato il divieto di motivazione postuma, sancito dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, a tutela del diritto di difesa. La giustificazione addotta nel procedimento amministrativo non menzionerebbe la decadenza dalla pretesa, questione che arbitrariamente l’Istituto avrebbe prospettato soltanto nella fase contenziosa. Sul profilo della «illegittima sostituzione, da parte dell’INPS, dei motivi di diniego alla prestazione in parola» (pagina 6 del ricorso per cassazione), che integrerebbe un fatto decisivo per il giudizio, la Corte d’appello di Milano non avrebbe reso alcuna pronuncia.
1.1. La doglianza dev’essere disattesa.
1.2. Il motivo, peraltro irritualmente articolato in relazione all’omesso esame di fatto decisivo, inteso dal codice di rito come fatto naturalistico (per tutte, Cass., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053) e non come argomentazione difensiva, muove dall’infondata premessa che il giudizio instaurato per ottenere una prestazione previdenziale si atteggi come impugnazione dell’originario provvedimento di diniego.
Come l’Istituto ha puntualmente rilevato nel controricorso e nella memoria illustrativa, il giudizio volto ad ottenere l’indennità di disoccupazione “NASpI” verte sull’accertamento della fondatezza della pretesa e non si risolve in un sindacato sulla legittimità e sull’adeguatezza della motivazione del provvedimento amministrativo che l’ha negata (fra le molte, in generale, sulle prestazioni previdenziali o assistenziali, Cass., sez. lav., 10 giugno 1999, n. 5725; nello stesso senso, Cass., sez. VI-L, 8 luglio 2019, n. 18314, richiamata dal controricorrente).
Gli eventuali vizi che inficino il provvedimento non possono fondare il diritto di rivendicare una prestazione, di cui difettino in radice, sul piano sostanziale, i presupposti.
È in giudizio che occorre accertare tali presupposti e il contegno serbato nel procedimento amministrativo non può implicare preclusioni di sorta nell’autonoma fase contenziosa.
La verifica, che il giudice è chiamato a svolgere d’ufficio sulla scorta degli elementi acquisiti al processo, non può che investire anche eventuali cause di decadenza, in considerazione della natura pubblicistica degl’interessi coinvolti, sottratti alla disponibilità delle parti.
2. Con la seconda critica (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), la ricorrente si duole della violazione e della falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 6 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, della Circolare INPS n. 94 del 2015 e dell’art. 12 delle preleggi.
Avrebbe errato la Corte di merito nel far decorrere il termine di decadenza di sessantotto giorni, previsto per la presentazione della domanda, dalla data di comunicazione del deposito della sentenza (27 giugno 2015). I giudici d’appello avrebbero violato le previsioni della Circolare INPS n. 94 del 2015, che richiamerebbe ex professo la notificazione della sentenza, la sola formalità idonea ad assicurare «la conoscenza legale di fatti, atti e provvedimenti» (pagina 9 del ricorso per cassazione) e a «rendere oggettiva la conoscenza del fatto, sulla base del fatto oggettivo della ricezione dell’atto e/o del provvedimento, evitando ogni incertezza legata invece al fatto soggettivo ed ipotetico della cognizione del fatto da parte dell’interessato» (pagina 10 del ricorso). La comunicazione, che la Corte d’appello ha valorizzato, proverrebbe dal cancelliere, non dall’ufficiale giudiziario, e si limiterebbe a dare notizia di un atto, con assoluta libertà di forme. Alla notifica, intesa in senso tecnico, si richiamerebbe anche la Circolare n. 6 del 2014, emessa sempre dall’Istituto.
2.1. Neppure tale censura può essere accolta.
2.2. Non sono controversi gli antecedenti di fatto, da cui ha tratto
origine l’odierno giudizio.
Il contratto di lavoro a progetto tra la ricorrente e M. s.r.l. è cessato il 17 settembre 2013 e il Tribunale di Milano, con sentenza del 22 giugno 2015, n. 1880, ha accertato il vincolo di subordinazione e l’illegittimità del licenziamento.
Il 27 giugno 2015, la cancelleria ha comunicato il deposito della sentenza del Tribunale, poi notificata a istanza di parte il 10 ottobre 2015.
La domanda amministrativa è stata presentata il 13 novembre 2015.
2.3. L’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 2015 dispone che la domanda di NASpI sia presentata all’INPS, in via telematica, «entro il termine di decadenza di sessantotto giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro».
I giudici d’appello muovono dalla premessa, recepita anche dall’atto di gravame dell’Istituto, che il termine di decadenza decorra dalla conoscenza della pronuncia che ha accertato l’effettivo atteggiarsi del rapporto di lavoro e ha così rimosso l’ostacolo della sua originaria qualificazione formale, incompatibile con il riconoscimento della prestazione.
Unica questione devoluta a questa Corte è se, ai fini del decorso del termine di decadenza, la normativa imponga la notificazione della sentenza che accerta il rapporto di lavoro, in quanto solo tale formalità, a dire della ricorrente, garantirebbe quella conoscenza che gli stessi giudici d’appello reputano imprescindibile.
2.4. La tesi propugnata nel ricorso non coglie nel segno, per molteplici e concorrenti ragioni.
2.4.1 Anzitutto, si deve ribadire che le Circolari INPS assurgono a fonti del diritto e neppure enunciano indicazioni ermeneutiche vincolanti.
Peraltro, il punto 2.6. della Circolare n. 94 del 2015, nell’evocare genericamente la notificazione della sentenza, non reca alcun richiamo univoco alla notificazione di cui all’art. 285 cod. proc. civ., valorizzata nel ricorso nella sua più ristretta accezione tecnica.
2.4.2. Inoltre, non può essere condiviso l’assunto che solo la notificazione avvalori una presunzione legale di conoscenza e renda oggettiva la conoscenza del fatto (pagina 10 del ricorso per cassazione).
La notificazione della sentenza, disciplinata dall’art. 285 cod. proc. civ., rileva ad altri fini, in quanto incide unicamente sulla decorrenza del termine per l’impugnazione (art. 325 cod. proc. civ.), profilo avulso dalla decadenza dalla NASpI, di cui qui si discorre.
Si deve poi rimarcare che l’opzione ermeneutica volta a conferire rilievo dirimente alla notificazione non è scevra d’incongruenze, ove la controparte del lavoratore non si avvalga della facoltà di notificare, in funzione acceleratoria, la sentenza. In quest’ipotesi, nessun termine di decadenza si potrebbe configurare e sarebbe possibile richiedere la prestazione sine die, vanificando la previsione che mira a garantire la certezza dei tempi e perciò correla l’avvio del termine di sessantotto giorni alla cessazione del rapporto di lavoro.
2.4.3. Fallace è anche la premessa ermeneutica che la comunicazione del deposito della sentenza sia una formalità irrilevante, perché curata dal cancelliere e non dall’ufficiale giudiziario e, in secondo luogo, perché caratterizzata da un’ampia libertà di forme e da un contenuto circoscritto alla notizia di un atto, di un provvedimento, di una situazione processuale (pagina 10 del ricorso per cassazione).
Si deve rammentare, a tale riguardo, che il cancelliere non è un quivis de populo, ma un pubblico ufficiale, e che la comunicazione del deposito della sentenza, lungi dall’essere legibus soluta, soggiace a una disciplina minuziosa, preordinata ad assicurare l’effettiva conoscenza della pronuncia del giudice.
Nel porre l’accento sulla comunicazione del deposito della sentenza, la Corte di merito non ha dunque attribuito rilievo ai dati ipotetici e soggettivi, del tutto incontrollabili, che la ricorrente paventa.
L’art. 133, secondo comma, cod. proc. civ. impone al cancelliere di dare notizia, alle parti che si sono costituite, del deposito della sentenza.
Le modalità di comunicazione sono improntate a più incisive garanzie, in forza delle innovazioni introdotte dall’art. 45, comma 1, lettera b), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114.
Tali innovazioni sono applicabili ratione temporis al caso di specie, in quanto la sentenza è stata resa il 22 giugno 2015.
Alla comunicazione, che l’art. 430 cod. proc. civ., nel processo del lavoro, prescrive sia immediata, il cancelliere provvede con «biglietto contenente il testo integrale della sentenza».
2.4.4. A fronte di una comunicazione così strutturata e dell’ampio e affidabile contenuto informativo che essa racchiude, non si può ritenere che solo la notificazione ad istanza di parte, prevista ad altri fini e peraltro meramente eventuale, ragguagli il lavoratore sul riconoscimento giudiziale del rapporto, indispensabile per presentare la domanda di NASpI dopo che tale rapporto, all’origine diversamente qualificato, è cessato.
2.4.5. Non meritano censure, pertanto, le statuizioni in punto di decadenza.
Nel condividere l’esegesi dell’Istituto, la Corte di merito ha ancorato il dies a quo alla conoscenza dell’accertamento giudiziale del vincolo di subordinazione, imprescindibile per chiedere l’indennità NASpI, e ha verificato in concreto che tale conoscenza è stata acquisita al più tardi con la comunicazione del deposito della pronuncia, reputando alla lettera e allo spirito della legge e comunque eccedente rispetto allo scopo quella notificazione che il ricorso addita come indefettibile.
3. Dalle considerazioni esposte consegue il rigetto del ricorso.
4. La ricorrente dev’essere condannata a rifondere all’Istituto le spese del presente giudizio (art. 385, primo comma, cod. proc. civ.), liquidate in dispositivo alla stregua del valore della controversia e dell’attività processuale svolta.
5. Il rigetto del ricorso impone di dare atto dei presupposti per il sorgere dell’obbligo di chi l’ha proposto di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, ove sia dovuto (Cass., S.U., 20 febbraio 2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente a rifondere alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, in Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge. Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, a norma del comma 1-bis dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto.