La legge non richiede l'ingiustizia della decisione del datore di lavoro; infatti, l'indennità è dovuta anche in caso di licenziamento legittimamente intimato per giusta causa.
L'odierna ricorrente illustra di essere stata dipendente di una ONLUS con mansioni di operaia e di aver dato le sue dimissioni nel momento in cui il datore di lavoro le aveva comunicato il suo trasferimento dalla sede di Firenze a quella di Massa, considerate le necessità di ridurre il personale nella prima sede e il posto vacante presente nella seconda.
Tuttavia, la lavoratrice decideva di non impugnare il trasferimento, e dopo aver dato le dimissioni per giusta causa chiedeva all'INPS l'erogazione dell'indennità NASpI.
|
Qui si trova l'inghippo: l'INPS respingeva la richiesta per la mancata contestazione del trasferimento. |
L'interessata agisce dinanzi al Tribunale di Firenze che però respingeva il ricorso, asserendo che la lavoratrice non aveva negato la sussistenza delle esigenze tecnico-produttive alla base del suo trasferimento, di cui peraltro non aveva contestato la legittimità. Di conseguenza, la risoluzione del rapporto di lavoro non sarebbe legata a una condotta illegittima del datore, ma sarebbe il risultato di una sua libera scelta.
Dopo l'impugnazione della decisione, spetta alla Corte d'Appello di Firenze pronunciarsi sul ricorso, e lo fa con la sentenza n. 258 del 2 ottobre 2023, ribaltando del tutto la situazione.
Prendendo le mosse dal disposto dell'
Osservano infatti i Giudici come sia evidente che lo svolgimento della prestazione presso la nuova sede fosse impossibile o comunque estremamente disagevole, anzitutto perché l'interessata avrebbe dovuto aggiungere al suo orario contrattuale altre 4 ore circa di viaggio per raggiungere la nuova sede, e poi perché, se avesse voluto rinunciare a viaggiare, le sarebbe toccato sostenere i costi di una abitazione in locazione a Massa, senza contare gli impegni di natura familiare di cui la lavoratrice parla nel ricorso.
Ebbene, da ciò emerge con chiarezza come le dimissioni non siano il frutto di una libera scelta della ricorrente, nonostante non abbia contestato la legittimità del trasferimento.
Ora, in tale contesto il Collegio ricorda che la legge non richiede l'ingiustizia della determinazione del terzo cui si riferisce la risoluzione del rapporto o l'estraneità del lavoratore rispetto alla fattispecie risolutiva, tanto che la prestazione è dovuta anche in caso di licenziamento intimato legittimamente per giusta causa.
|
Una volta dimostrato allora che nel caso in esame il trasferimento è avvenuto ad oltre 50 km dalla residenza della ricorrente e verso una località raggiungibile da quel luogo ad oltre 80 minuti con i mezzi pubblici, evidenziando che si è verificata una modifica unilaterale e sostanziale di un elemento essenziale del rapporto, il Collegio afferma che la risoluzione del rapporto deve intendersi determinata da un fatto del datore di lavoro e quindi la disoccupazione della lavoratrice va intesa come involontaria. Di conseguenza, si condanna l'INPS alla corresponsione verso la stessa della NASpI. |
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Con sentenza 23.2.2022 il Tribunale di Firenze ha respinto il ricorso con cui G. B. aveva chiesto in confronto dell’INPS l’accertamento del proprio diritto a percepire l’indennita` NASpI, da lei richiesta in sede amministrativa il 9.11.2020, e la condanna dell’istituto a pagarle la prestazione, nella misura e con la decorrenza di legge.
In ricorso l’assicurata aveva allegato di essere stata dipendente della Onlus A. I. fin dal 1.4.2015, con mansioni di operaia, inquadramento nel Livello A del CCNL Chimici piccola industria e sede di lavoro a Firenze, via (omissis) e di avere ricevuto dalla datrice di lavoro (il 21.9.2020) comunicazione del suo trasferimento alla sede di M., a decorrere dal successivo 24 ottobre, per essersi determinata nell’organico di quella sede una vacanza, a fronte dell’esigenza della onlus di ridurre il personale a Firenze.
Assumendo che le fosse impossibile sia trasferirsi nella nuova sede di lavoro per ragioni e economiche e familiari sia recarsi giornalmente a Massa (per la lontananza da Firenze, per il tempo che avrebbe impiegato negli spostamenti da casa al lavoro e per il costo giornaliero dei mezzi pubblici, che avrebbe dovuto necessariamente utilizzare non avendo la patente), la lavoratrice aveva dato le dimissioni, asseritamente per giusta causa, il 16.10.2020, senza impugnare il trasferimento.
Aveva quindi fatto richiesta all’INPS dell’indennita` NASpI, avendone, secondo la sua prospettazione, i necessari requisiti assicurativi e contributivi, ma l’istituto aveva respinto la domanda, ritenendo ostativo il fatto che Bagnato non avesse contestato il trasferimento, né avesse documentato la sua volontà di farlo.
L’assicurata aveva quindi agito davanti al Tribunale di Firenze, argomentando l’illegittimita` del diniego, in quanto la sua situazione sarebbe stata del tutto analoga a quella del lavoratore o della lavoratrice che avesse risolto consensualmente il rapporto di lavoro in esito a un trasferimento ad altra sede dell’azienda distante piu` di 50 km dalla sua residenza e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o piu` con i mezzi pubblici, un’ipotesi in cui l’INPS, con diverse sue circolari, aveva invece riconosciuto il diritto alla NASpI.
In ogni caso la pretesa dell’istituto di subordinare il riconoscimento della prestazione all’impugnazione del trasferimento sarebbe stata in contrasto con la nozione di giusta causa ritenuta dalla Corte Costituzionale costituzionalmente compatibile e che avrebbe ricompreso “le ipotesi in cui le dimissioni non siano riconducibili alla libera scelta del lavoratore, in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione della improseguibilita` del rapporto”.
E ad analoghe conclusioni avrebbe dovuto pervenirsi alla luce della direttiva comunitaria 98/59/CE, che avrebbe imposto di qualificare come licenziamento la cessazione del rapporto, anche a richiesta del lavoratore, conseguente all’unilaterale e sostanziale modifica, da parte del datore di lavoro, di uno o più elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso.
L’istituto aveva resistito e concluso per il rigetto del ricorso, ribadendo la correttezza della decisione assunta in sede amministrativa, secondo cui, in caso di dimissioni conseguenti a un trasferimento, il lavoratore interessato avrebbe avuto diritto alla NASpI solo in caso di illegittimità del trasferimento medesimo, accertata in sede giudiziale. Nelle more di tale accertamento, l’assicurato, al fine di accedere alla prestazione, avrebbe dovuto documentare in sede amministrativa la propria volontà di difendersi in giudizio, impegnandosi a comunicare l’esito della lite (così che in caso di rigetto dell’impugnazione la prestazione avrebbe dovuto essere revocata e i ratei corrisposti restituiti).
Nella specie tuttavia la ricorrente non avrebbe, per sua stessa ammissione, contestato giudizialmente il trasferimento, né avrebbe manifestato, in una qualche forma, la volontà di farlo, così che la prestazione non le sarebbe spettata, non rientrando la fattispecie in alcuna delle altre ipotesi nelle quali il beneficio era riconosciuto dall’istituto.
In ogni caso Bagnato avrebbe solo affermato l’impossibilita` di eseguire la prestazione presso la nuova sede di lavoro e quindi l’improseguibilita` del rapporto.
Il Tribunale ha respinto il ricorso, assumendo l’inesistenza nella specie già in astratto della dedotta giusta causa, in quanto la lavoratrice non aveva negato l’esistenza delle esigenze tecnico produttive poste a base del trasferimento, la cui legittimità infatti non aveva contestato. Così che la risoluzione del rapporto non sarebbe stata conseguenza di un comportamento illegittimo del datore di lavoro, ma frutto unicamente di una libera scelta della lavoratrice.
Né sarebbe stata rilevante l’impossibilita` di svolgere la prestazione presso la nuova sede di lavoro, di cui peraltro la ricorrente non avrebbe dato alcuna prova, o la previsione delle circolari INPS relative al riconoscimento della prestazione di cui è causa in caso di risoluzione consensuale conseguente a un trasferimento a sede distante dal luogo di residenza del lavoratore, non facendosi nella specie questione di risoluzione consensuale.
Infine neppure rileverebbe nella materia qui trattata, secondo il Tribunale, “il riferimento a quella giurisprudenza in tema di interpretazione della direttiva comunitaria 98/59/CE, che attiene alla nozione comunitaria di “licenziamento” e mira, esclusivamente sotto questo profilo, ad individuare quali siano gli atti negoziali qualificabili come “licenziamento” ai fini del computo del dato numerico richiesto dalla legge sui licenziamenti collettivi” (così testualmente la decisione di primo grado).
L’assicurata impugna la decisione davanti a questa Corte e ne chiede l’integrale riforma e quindi l’accoglimento delle conclusioni gia` svolte in primo grado, affidando le proprie ragioni a due motivi.
Con il primo lamenta che il Tribunale abbia ritenuto indimostrata la sua impossibilità di svolgere la prestazione presso la sede di lavoro da ultimo assegnatale, come pure la relazione tra il trasferimento e le dimissioni, qualificate nella sentenza impugnata come frutto di una libera scelta.
In contrario, secondo la prospettazione dell’appellata, l’INPS non avrebbe mai messo in dubbio che le dimissioni fossero state determinate dal trasferimento, né avrebbe specificamente contestato le allegazioni relative ai tempi e ai costi degli spostamenti da Massa a Firenze, così che il Tribunale non avrebbe potuto ritenere quelle circostanze bisognose di prova.
L’assicurata ha chiesto comunque di produrre la lettera 15.10.2020 con la quale ella aveva comunicato alla datrice di lavoro il proprio recesso espressamente ponendolo in relazione con il rifiuto del trasferimento a Massa.
Con il secondo motivo l’appellante censura la decisione di primo grado per non avere ritenuto le sue dimissioni assistite da giusta causa.
In contrario il trasferimento a una sede distante ben oltre 50 Km dal luogo di residenza avrebbe dovuto essere considerata una causa di improseguibilità del rapporto mentre nessuna norma avrebbe imposto e imporrebbe all’assicurato, quale condizione per il riconoscimento delle prestazioni di disoccupazione, l’impugnazione del trasferimento.
Il Tribunale avrebbe inoltre errato ritenendo pacifica la legittimità di quel trasferimento, che sarebbe stato invece disposto al fine di ottenere le dimissioni della lavoratrice, del tutto prevedibili e previste dalla datrice di lavoro, data la distanza della nuova sede di lavoro dalla residenza di B., i suoi impegni familiari e i costi imposti dagli spostamenti.
Tali circostanze sarebbero state comunque irrilevanti nella specie, in quanto sarebbe stato comunque decisivo il fatto che la lavoratrice si fosse trovata in una condizione tale da non consentirle la prosecuzione neppure temporanea del rapporto.
L’INPS ha resistito, opponendosi alla richiesta di produzione, in quanto tardiva e nel merito chiedendo il rigetto dell’impugnazione avversaria.
Così riassunta la presente vicenda processuale, nel merito deve innanzi richiamarsi la normativa della quale deve farsi applicazione.
Si tratta del disposto dell’art. 3 del D.L.gs. 22/2015, che nel testo vigente all’epoca dei fatti, prevedeva che: “La NASpI è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente i seguenti requisiti:
a) siano in stato di disoccupazione ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni;
b) possano far valere, nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione;
c) possano far valere trenta giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l'inizio del periodo di disoccupazione.
2. La NASpI è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dall'articolo 1, comma 40, della legge n. 92 del 2012”.
L’INPS non ha mai contestato specificamente la sussistenza, in capo a B., all’epoca della domanda amministrativa, dei requisiti assicurativi e contributivi della NASpI previsti dalla legge; assume invece, come risulta con chiarezza dalle difese di primo grado, che non si dia nella specie la dedotta giusta causa di dimissioni.
Una prospettazione sostanzialmente condivisa dal Tribunale che ha ritenuto che, mai contestata giudizialmente dalla lavoratrice la legittimità del trasferimento, il recesso di B. non rappresentasse la reazione legittima a un inadempimento della controparte, mentre neppure vi sarebbe stata prova dell’impossibilita` per la lavoratrice di svolgere la sua prestazione presso la sede cui era stata destinata.
La Corte non condivide il percorso argomentativo della decisione impugnata e dissente dalle sue conclusioni.
In primo luogo infatti deve rilevarsi come sia del tutto pacifico che la ricorrente risieda a Firenze, (omissis) ed è documentata (doc. 10 del fascicolo di primo grado dell’assicurata) la distanza chilometrica tra la sua residenza e la sede di lavoro che le era stata assegnata a Massa, come pure i tempi medi (circa due ore) di percorrenza di tale distanza con i mezzi pubblici (che l’appellante avrebbe dovuto necessariamente usare visto che è pacifico che non abbia la patente).
Risulta poi ancora documentalmente (dal contratto di assunzione doc. 1 e dall’estratto contributivo doc. 6, entrambi del fascicolo di primo grado di B.) la retribuzione percepita dall’assicurata, che da ultimo, secondo l’estratto contributivo, ammontava a circa 1.600 euro mensili lordi, così che è ragionevole ritenere una disponibilità netta mensile di poco superiore ai mille euro mensili di cui dice il ricorso introduttivo di primo grado (1.200, 1300 euro al massimo).
Sembra allora alla Corte di una certa evidenza come lo svolgimento della prestazione presso la nuova sede di lavoro fosse per B. materialmente impossibile o comunque estremamente disagevole, poiché avrebbe dovuto aggiungere al proprio ordinario orario contrattuale circa quattro ore giornaliere di viaggio, oppure decurtare in maniera assai considerevole il suo reddito (verosimilmente ben oltre il limite della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost.) per sostenere i costi di un’abitazione in locazione a Massa. Tutto questo indipendentemente dagli impegni familiari, di cui la lavoratrice dice in ricorso, ma di cui non vi è in effetti prova.
Assunto questo dato, deve allora concludersi che le dimissioni non siano state affatto, nella concreta situazione dimostrata in causa, frutto di una libera scelta dell’assicurata, per quanto effettivamente non risulti che esse siano state determinate da un fatto contra jus di un terzo (il datore di lavoro), dato che la legittimità del trasferimento non è stata mai contestata dalla lavoratrice (che certo non potrebbe farlo in questo grado, come invece la sua difesa in memoria di costituzione, allegando circostanze del tutto nuove).
Deve tuttavia valutarsi se, ai fini del riconoscimento della prestazione che interessa (e non quindi nell’ambito del rapporto di lavoro) l’illegittimita` dell’atto di esercizio dello jus variandi sia necessariamente decisiva, come assume la difesa dell’INPS.
In contrario rileva la Corte come l’art. 3 del D.L.gs. 22/2015, garantisca la prestazione di cui è causa ai lavoratori “che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione”. Atteso il chiaro tenore testuale della norma, deve quindi ritenersi che si dia il diritto alla prestazione sempre che la risoluzione del rapporto di lavoro sia riferibile, non a una libera determinazione del lavoratore, ma un fatto altrui, normalmente del datore di lavoro, idoneo a non consentire comunque la prosecuzione del rapporto.
La legge non richiede tuttavia l’ingiustizia della determinazione del terzo cui si riferisce la risoluzione del rapporto o l’estraneita` del lavoratore rispetto alla fattispecie risolutiva, tanto che la prestazione è sicuramente dovuta anche in caso di licenziamento legittimamente intimato per giusta causa.
Ciò detto, non può poi dubitarsi che l’esercizio anche legittimo dei poteri datoriali possa determinare modifiche essenziali dei contenuti del rapporto tali da rendere sostanzialmente impossibile per il lavoratore, nella concreta situazione di fatto, proseguirne l’esecuzione, come tipicamente può avvenire appunto in caso di mutamento rilevante della sede o dei turni di lavoro.
In tali casi, ad avviso della Corte, la risoluzione del rapporto è in effetti causalmente riferibile al potere organizzativo datoriale e quindi la disoccupazione è involontaria, senza che rilevi, ai fini previdenziali, la legittimita` o meno dell’atto di esercizio dello jus variandi (esattamente come non rileva la legittimità del licenziamento).
E’ del resto una conclusione cui è pervenuto lo stesso istituto di previdenza, dato che, con la propria circolare 142/2012, ha ritenuto sussistere i presupposti per il pagamento dell’indennita` di disoccupazione (ma la previsione è pacificamente applicata anche alla NASpI) anche quando il rapporto di lavoro sia stato risolto consensualmente all’esito di trasferimento del lavoratore assicurato verso una sede distante oltre 50 km dalla sua residenza o situata in un luogo raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici.
Sembra al collegio che, come correttamente argomentato dalla difesa attrice, tale fattispecie sia, ai fini di interesse, del tutto identica a quella di causa. Nell’uno e nell’altro caso infatti a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro risulta essere l’esercizio dei poteri organizzativi datoriali, mentre la circostanza che il fatto giuridico produttivo della risoluzione sia un accordo o invece una manifestazione di volontà riferibile al lavoratore non muta la relazione causale comunque esistente tra la fine della relazione negoziale (e quindi la disoccupazione del lavoratore) e l’atto di esercizio dello jus variandi.
Dimostrato quindi che nella specie il trasferimento sia avvenuto a oltre 50 km dal luogo di residenza della lavoratrice e verso una località raggiungibile da quel luogo in oltre 80 minuti con i mezzi pubblici, e che si sia data quindi una modifica unilaterale e sostanziale di un elemento essenziale del rapporto, la risoluzione del rapporto medesimo deve intendersi determinata da un fatto del datore di lavoro così che la disoccupazione dell’assicurata deve qualificarsi come involontaria.
Pertanto, in riforma della decisione impugnata, deve condannarsi l’INPS a corrispondere a B., in relazione alla domanda amministrativa del 9.11.2020, l’indennita` NASpI, nella misura e con la decorrenza di legge, maggiorato il dovuto di interessi legali dalle singole scadenze a decorrere dal 120° giorno successivo alla presentazione della domanda amministrativa e fino al saldo.
Le spese del doppio grado, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente decidendo, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, in riforma della decisione impugnata, condanna l’INPS a corrispondere a B. G., in relazione alla domanda amministrativa del 9.11.2020, l’indennità NASPI, nella misura e con la decorrenza di legge, maggiorato il dovuto di interessi legali dalle singole scadenze a decorrere dal 120° giorno successivo alla presentazione della domanda amministrativa e fino al saldo.
Condanna l’istituto alla rifusione delle spese del doppio grado, che liquida in € 1.865,00 oltre accessori di legge per il primo grado e in € 1.984,00 oltre accessori di legge per il presente grado.