Svolgimento del processo
1. Il provvedimento impugnato ha confermato la condanna emessa dal Tribunale di Napoli a carico di CN per Il reato di diffamazione ai danni di BB , per aver inviato un'email da una casella di posta certificata all'azienda X s.r.l., intimando di non pagare le somme dovute da tale società al B, essendo lo stesso stato sottoposto a procedura esecutiva, evidenziando, nel contempo, che il B fosse stato denunciato dall'ex coniuge, BR , per violazione degli obblighi alimentari. Questa condotta aveva offeso, secondo i giudici di merito, la reputazione di B e gli aveva causato danni nei suoi rapporti lavorativi con la società destinataria della missiva, nei confronti dalla quale aveva perso credibilità.
Si trascrive, per completezza, il capo di Imputazione: "delitto p. e p. dall'art. 595 commi 1 e 3 c.p. perché, inviando dalla propria casella di posta elettronica certificata X alla casella, pure di posta elettronica certificata, X in uso alla X srl" missiva dal seguente tenore: "con la presente si intima di non effettuare il pagamento di quanto da voi dovuto al signor BB , inquanto lo stesso è sottoposto a procedura esecutiva e pignoramento. Inoltre è stato denunciato per sottrazione di soldi agli obblighi alimentari, come da procedura denunzia che si allega. In difetto la responsabilità ricadrà unicamente sulla vostra compagine con obbligo di corresponsione da parte vostra di tutto quanto versato allo stesso signor B .", allegando alla stessa copia di querela, non sottoscritta, di BR., rendendo noto a terzi non interessati, al di fuori di ogni procedura esecutiva di pignoramento presso terzi, fatti relativi alle controversie anche penali intercorrenti tra il predetto B e la coniuge separata BR, offendeva la reputazione dì BB . Con l'aggravante di aver commesso il fatto utilizzando un mezzo di pubblicità in ragione della conoscibilità da parte di una pluralità indeterminata di soggetti della comunicazione inviata a casella di posta elettronica certificata di carattere aziendale. In luogo sconosciuto, il 15 settembre 2017".
La Corte d'appello ha ritenuto che: (a) la condotta del C non potesse ritenersi inoffensiva e che la veridicità delle accuse mosse al B non fosse stata dimostrata, avendo, dunque, il C agito senza verificare le informazioni fornitegli dalla sua assistita; (b) la diffamazione fosse integrata dall'invio di una p.e.c., essendo prevedibile che il messaggio sarebbe stato accessibile a terzi; (c) la diffida non fosse un atto preprocessuale al sensi dell'articolo 598 cod. pen., poiché Indirizzata a soggetti estranei al procedimento giudiziario; (d) pur essendo tardiva la condotta riparatoria del C (poiché successiva all'esercizio dell'azione penale), questi fosse meritevole del riconoscimento delle attenuanti generiche (con riduzione della pena a tre mesi di reclusione).
2. Ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato.
2.1. Col primo motivo lamenta la nullità della sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione ex articolo 606 lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all'articolo 192 cod. proc. pen., posto che la Corte d'appello avrebbe omesso di valutare la prova documentale presentata dalla difesa in primo grado, travisando così i fatti.
La Corte non avrebbe considerato che le pretese della B nei confronti del B erano fondate su una sentenza di separazione, su decreti ingiuntivi non pagati e su azioni esecutive intraprese, invano, in precedenza: tutti documenti allegati già in primo grado, ma ignorati sia in tale sede che in appello.
Si assume non fosse necessaria, per agire nei termini oggetto d'imputazione (e contrariamente all'assunto della Corte d'appello), la pendenza di una formale procedura di pignoramento presso terzi, atteso che, come previsto dall'articolo 156 cod. civ., la creditrice aveva diritto di chiedere direttamente al datore di lavoro di sopperire all'inadempimento del coniuge, versandole (prelevandola dalla busta paga del dipendente) la somma stabilita dal Giudice a titolo di mantenimento.
La Corte d'appello, in definitiva, non avrebbe considerato l'inoffensività della condotta contestata, poiché fondata sulla veridicità del fatto attribuito al B e sull'esercizio di un diritto.
2.2. Col secondo motivo parte ricorrente lamenta la manifesta illogicità della motivazione e la violazione degli artt. 192 e 595 cod. proc. pen., in riferimento alla sussistenza degli elementi costitutivi di cui all'art. 595 cod. pen., in assenza di pluralità dei destinatari della comunicazione asseritamente offensiva.
Si assume l'inidoneità del messaggio p.e.c. in questione, poiché inviato al solo legale rappresentante della X s.r.l., dì essere conosciuto da altre persone diverse da costui (titolare della casella di posta certificata) o da altra persona autorizzata, per suo conto, a gestire la posta certificata in esame.
La Corte d'appello, nel rimarcare che il messaggio fosse diretto a una persona giuridica e nel richiamare il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte con pronuncia n. 55386/2018, aveva solo preso atto della sua potenzialità lesiva, omettendo di indicare come, in concreto, esso fosse stato conosciuto da terzi diversi dal titolare esclusivo della casella di posta certificata e se costoro fossero stati autorizzati da questi ad accedervi e, dunque, fossero in possesso delle relative credenziali. Citando, a riscontro della tesi accusatoria, la circostanza che il messaggio fosse noto alla responsabile commerciale della società, ME, la Corte territoriale avrebbe omesso di motivare sulla specifica censura d'appello secondo cui non v'era prova che costei avesse avuto accesso diretto alla comunicazione, piuttosto che averne avuto notizia dall'amministratore: ipotesi quest'ultima, si assume, non prevedibile dal mittente.
2.3. Col terzo motivo, parte ricorrente contesta la mancata esclusione dell'aggravante di cui all'articolo 595, comma 3, cod. pen., sostenendo che la motivazione della sentenza d'appello fosse totalmente assente sul punto.
La difesa argomenta (reiterando, in sostanza, censure mosse col secondo motivo) che l'invio di un messaggio via p.e.c. ad un unico destinatario non possa essere considerato (o, quanto meno, previsto dal mittente) quale strumento diffusivo nei riguardi di terzi indistinti diversi dal suo destinatario e, quindi, quale mezzo di pubblicità ai fini della diffamazione aggravata.
Si ribadisce che la Corte territoriale non aveva chiarito se e come il messaggio in esame fosse accessibile ad un numero indeterminato di persone e che tanto fosse noto all'imputato, non considerando recenti pronunce giurisprudenziali che distinguono, al riguardo, tra l'invio di email (indirizzate a un unico destinatario), come tali tendenzialmente non Integranti il requisito in esame, e la pubblicazione su siti web o social network (accessibili a una molteplicità di utenti).
Inoltre, la difesa sottolinea che, in assenza di questa aggravante, si sarebbe dovuta dichiarare l'improcedibilità dell'azione penale per tardività della querela.
Il Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, mentre sono fondati il secondo ed il terzo.
2.1. Il primo motivo fa anzitutto riferimento a documenti (titoli giudiziali della B nei riguardi del B ) del cui contenuto nulla è dato sapere, sicché va applicato il noto principio secondo cui: «In tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, I motivi che deducano il vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071)» (Sez. 5, n. 2490 del 13/12/2019, dep. 2020, Guardo, non massimata; confronta, negli stessi termini, Sez. 1, n. 20262 del 02/05/2024, non massimata, Sez. 5, n. 19976 del 19/04/2024, non massimata, tra le più recenti). Ad ogni modo, correttamente la Corte d'appello è pervenuta al rigetto della censura per cui l'email in questione costituisse legittimo esercizio del diritto di difesa, atteso che con essa non fu comunque azionato (men che meno in modo rituale) alcun titolo esecutivo e, per giunta, la stessa si basava su una lettura errata dell'allora vigente comma 6 dell'articolo 156 cod. civ., secondo cui: «In caso di inadempienza, su richiesta dell'avente diritto, il giudice può disporre Il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all'obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto».
Dunque, l'imputato giammai avrebbe potuto legittimamente agire così come fece, dovendo pur sempre essere il giudice ad ordinare a terzi di versare il dovuto agli aventi diritto.
Inoltre, non era di certo funzionale al suo diritto di difesa evidenziare nel messaggio in esame che il debitore fosse stato anche denunciato per inadempimento agli obblighi "alimentari" su di lui gravanti: denuncia che in sede di merito neppure è risultata esistente (sicché il dato fu falsamente dedotto).
2.2. Il secondo motivo è, come anticipato, fondato.
Come di recente rimarcato da questa Corte, nel caso di diffamazione Integrata da una comunicazione indirizzata ad un preciso destinatario, occorre distinguere i casi in cui è in re ipsa che la stessa sia letta da più persone, da quelli In cui ciò può essere frutto di imprevedibili circostanze.
Al riguardo, per le comunicazioni cartacee può dirsi, ad esempio, integrato Il requisito de quo per il vaglia postale (Sez. 5, n. 522 del 26/05/2016, dep. 05/01/2017, 5., Rv. 269016) e per la denuncia diretta all'autorità giudiziaria (Sez. 5, n. 30727 del 08/03/2019, De Feo Nino, Rv. 275625), in quanto atti destinati a essere conosciuti dagli addetti al loro smistamento e da quelli che debbono provvedere ai consequenziali adempimenti. Analogamente, tanto può affermarsi per le comunicazioni digitali mediante utilizzo di indirizzi istituzionali di un pubblico ufficio (come nel caso trattato da Sez. 5, n. 34831 del 23/10/2020, Di Vita Filippo, Rv. 280034, in cui si è evidenziato che, in siffatti casi, il messaggio, per necessità operative e di lavorazione proprie del pubblico ufficio, non è destinato a restare riservato tra li mittente ed il destinatario, bensì ad essere visionato da più persone).
Insomma, laddove, per ovvie ragioni di lavorazione correlate al messaggio, è ex se evidente che esso sia destinato alla conoscenza di più individui, il requisito della pluralità di destinatari che lo leggono è certamente integrato e noto o, almeno, ragionevolmente prevedibile dal mittente (ìl quale, dunque, agendo almeno con dolo eventuale, integra tutti gli elementi del delitto di diffamazione).
Per contro, laddove la comunicazione cartacea o digitale sia diretta ad un ben determinato destinatario, tanto più se non appartenente ad un pubblico ufficio (che di norma implica la sua "lavorazione" affidata a più persone), e, in particolare, con email o pec non accessibili a chicchessia (essendo protette dalle relative credenziali), sarebbe errato dare per assodata la sua conoscibilità da parte di terzi estranei al medesimo destinatario e, più ancora, che ciò possa essere noto o quanto meno prevedibile (ed accettato quale rischio insito nel suo agire) dal mittente.
Al riguardo è stato, in modo condivisibile, chiarito (discostandosi sensibilmente da quanto affermato da Sez. 5, Sentenza n. 34831 del 23/10/2020, Di Vita, Rv. 280034-01) che: «la possibilità che la riservatezza della posta elettronica possa essere violata non significa affatto la trasformazione del mezzo in un veicolo di pubblicità in tutti i casi in cui esso venga usato, posto che proprio le potenzialità del mezzo stesso consentono di individuarne una qualificazione come sistema di pubblicità (siti web e sociaI network, facebook, ecc.) ed un uso esclusivamente privato, non potendo una eventuale patologia incidere su tale distinzione» (Sez. 5, Sentenza n. 31179 del 23/05/2023, Rv. 285070 - 01, in motivazione).
Analogamente, in un caso in cui il contenuto denigratorio dell'altrui reputazione era stato inserito in una lettera indirizzata ad un solo individuo (sicché la casuale divulgazione ad altri non poteva dirsi prevedibile e voluta, da parte dell'agente), s'è chiarito che: «E' vero che il reato di diffamazione può essere integrato anche qualora l'autore comunichi con una sola persona, ma solo nell'ipotesi in cui ciò avvenga con modalità tali che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e vogl!a tale evento (cfr., ex ceteris, Sez. 5, n. 34178 del 10/02/2015, Corda, Rv. 264982 - 01; Sez. 5, n. 36602 del 15/07/2010, P.C. in proc. Selmi, Rv. 248431 - 01), perché l'espressione offensiva sia contenuta in un documento che, per sua natura, sia destinato ad essere visionato da più persone (Sez. 5, n. 522 del 26/05/2016, dep. 2017, S., Rv. 269016 - 01)»; «di regola - peraltro in conformità al diritto costituzionalmente tutelato alla libera manifestazione del pensiero sancito dall'art. 21 Cost. - Il requisito della comunicazione con più persone idoneo ad integrare il delitto di diffamazione non sussiste nel caso di comunicazione confidenziale la cui diffusione sia esclusivamente opera del destinatario della confidenza, in quanto manca un'espressa volontà del soggetto attivo di destinare alla divulgazione il contenuto della comunicazione (Sez. 5, n. 40137 del 24/04/2015, G., Rv. 265788 - 01)» (Sez. 5, n. 48489 del 24/10/2023, non massimata).
In tal senso anche Sez. 5, n. 1794 del 05/11/1998, dep. 1999, Rv. 212516 - 01 e Sez. 5, n. 19396 del 23/01/2009, Rv. 243606 - 01, secondo cui, mentre l'impersonale invio di una comunicazione ad una pubblica autorità implica certamente che essa sia (per ovvie ragioni di lavoro) resa nota a più persone, l'invio esclusivo al titolare di un ufficio pubblico, con richiesta che provveda egli direttamente e personalmente alle conseguenti determinazioni, non può ritenersi implicare la detta comunicazione con più persone, men che meno la volontà o l'accettazione del rischio, in capo all'agente, che essa sia resa nota a più persone. Nel caso in questione, nulla è stato chiarito, in sede di merito, sulla effettiva e diretta diffusione del messaggio offensivo ad una pluralità di persone e neanche sulla consapevolezza dell'imputato (almeno) di accettare il rischio che la stessa fosse resa nota a più persone.
È stato fatto cenno, nella sentenza Impugnata, alla conoscenza in capo alla responsabile commerciale della società, ME , e al fatto che costei avrebbe aperto la corrispondenza diretta all'amministratore. Tuttavia, nulla si adduce sulla specifica censura difensiva mossa con l'appello, secondo la quale non v'era prova che costei avesse avuto accesso diretto alla comunicazione, piuttosto che averne avuto conoscenza dall'amministratore della società (fatto questo che neppure si chiarisce perché avrebbe dovuto ritenersi ragionevolmente prevedibile dall'imputato).
Né tanto era stato, in qualche modo, chiarito dalla sentenza di primo grado, la quale si limita ad evidenziare, testualmente, che le caratteristiche della p.e.c. non escludevano "la potenziale accessibilità a terzi, diversi dal destinatario, delle comunicazioni, attenendo la certificazione ai soli elementi estrinseci della comunicazione (data e ora di ricezione), e non già alla esclusiva conoscenza per il destinatario della e-mail originale". Ma (si ripete) la "potenziale accessibilità" non significa che tale accesso vi fu e che esso fosse in qualche modo accettato quale rischio prevedibile dal medesimo ricorrente: essendo, per contro, di norma prevedibile che un accesso informatico protetto da credenziali e password sia, per definizione, eseguibile dal solo titolare di esse.
Il Tribunale ha rilevato, ancora, che "la circostanza che la PEC sia stata inviata ad una società, diffidata a non porre in essere un pagamento", compiendo dunque un'attività "che avrebbe necessariamente coinvolto, oltre l'amministrazione anche l'ufficio legale o, eventualmente, i soggetti che avevano avuto rapporti di lavoro con il B " rendeva, altresì, prevedibile la detta conoscibilità, oltre il destinatario: ma neppure ciò non si può dare per assodato, ben potendo trattarsi di società operante con pochi dipendenti o addirittura senza dipendenti, nella quale della gestione del vincolo sui pagamenti si occupasse Il solo legale rappresentante, destinatario della missiva.
Su tali aspetti nessun ulteriore chiarimento è giunto, nonostante il gravame ad essa specificamente formulato, dalla Corte d'appello: la quale, in sede di rinvio, dovrà chiarire se e come il messaggio sia pervenuto a conoscenza di terzi ulteriori, rispetto al titolare della casella di posta elettronica e per quale ragione tanto fosse ragionevolmente prevedibile dal mittente.
2.3. Analogamente, risulta del tutto immotivato (e si viene al terzo motivo di ricorso) Il riconoscimento della sussistenza dell'aggravante di aver commesso il fatto utilizzando un mezzo di pubblicità in ragione della conoscibilità da parte di una pluralità indeterminata di soggetti della comunicazione inviata a casella di posta elettronica certificata di carattere aziendale: ciò su cui meno ancora i giudici di merito hanno chiarito alcunché.
3. Consegue a quanto detto l'annullamento con rinvio per un nuovo esame sui detti punti ad altra sezione della Corte d'appello di Napoli.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge.