Nessun caso fortuito che limiti la responsabilità del Comune custode del palo della luce che ha causato la morte di un ragazzo. La tragedia ha visto tra i suoi protagonisti un giovane che, mentre giocava a calcio con i suoi coetanei, per recuperare il pallone, scavalcava una recinzione appoggiandosi a un...
Svolgimento del processo
1. A.A. ed altri convenivano in giudizio il Comune di A, per ottenere il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 2051 c.c., esponendo che il (Omissis) un gruppo di giovani, tra i quali il loro congiunto G.G., giocavano a pallone presso il piazzale antistante la scuola media "E. F.F." di A.
Nel corso della partita G.G. scavalcava la recinzione per recuperare il pallone finito oltre e, nel fare rientro nel piazzale mentre scavalcava nuovamente la recinzione appoggiandosi ad un lampione privo di corpo illuminante, decedeva per folgorazione.
La procura della Repubblica di Nicosia aveva avviato un'indagine per omicidio colposo da folgorazione, che aveva condotto alla celebrazione di tre procedimenti penali: uno nei confronti del responsabile dell'ufficio tecnico del Comune di A, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell'impianto di illuminazione che serviva il piazzale ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo si concludeva con una condanna per omicidio colposo. La sentenza veniva confermata anche dalla Corte d'Appello.
Il Tribunale di Nicosia, con sentenza n. 301/2013, dichiarava l'inammissibilità della domanda.
2. La Corte d'Appello di Caltanissetta, con la sentenza n. 366/2021 del 9 settembre 2021, accogliendo la domanda dei parenti di G.G., riformava la sentenza del Tribunale e condannava il Comune di A al risarcimento del danno.
3. Propone ricorso per cassazione il Comune di A sulla base di nove motivi.
4. A.A. e C.C., B.B. e E.E. e D.D. resistono con controricorso.
Per l'odierna udienza il Procuratore Generale non ha rassegnato conclusioni, mentre le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
Motivi della decisione
5.1. Con il primo motivo, parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 342, co. 1, nn. 1 e 2 c.p.c. dell'art. 348 e 348-ter c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per l'asserita inammissibilità dell'appello proposto avanti la Corte d'Appello.
Il motivo è infondato.
In primo luogo, la censura è stata erroneamente articolata con riferimento alla violazione di legge processuale (art. 360 n. 3 c.p.c.), laddove, invece, avrebbe dovuto essere articolata con riferimento alla nullità del procedimento per omessa pronunzia ex artt. 112, 360 n. 4 c.p.c. In secondo luogo, lo stesso fatto che la sentenza d'appello abbia trattato il merito delle censure manifesta l'implicita pronuncia circa l'ammissibilità dell'atto di gravame proposto.
La scelta del giudice d'appello di definire il giudizio prendendo in esame il merito della pretesa azionata (sia con il rigetto che con l'accoglimento) non può dirsi proceduralmente viziata sul presupposto che si sarebbe dovuta affermare l'inammissibilità per assenza di ragionevole probabilità di accoglimento; pertanto, ove il giudice non ritenga di assumere la decisione ai sensi dell'art. 348-ter, comma 1, c.p.c., la questione di inammissibilità resta assorbita dalla sentenza che definisce l'appello, che è l'unico provvedimento impugnabile, ma per vizi suoi propri, "in procedendo" o "in iudicando", e non per il solo fatto del non esservi stata decisione nelle forme semplificate (Cass. n. 15786/2021).
Ed è evidente che il gravame sottoposto alla Corte d'Appello non attingeva gli estremi dell'inammissibilità per vizi di sua formulazione - risultando adeguata la modalità di riproposizione del merito dinanzi alla definizione in mero rito con la decisione di primo grado - o della manifesta infondatezza (vista la complessità della vicenda e l'esito della sua disamina da parte della stessa corte territoriale).
5.2. Con il secondo motivo, il Comune denuncia la violazione degli artt. 652 e 654 c.p.p., dell'art. 2909 c.c., cosa giudicata (art. 360, comma 1, nn. 3 c.p.c.).
Sostiene l'erroneità della statuizione impugnata per non aver considerato che il giudicato di assoluzione del Comune e dei suoi organi, ha effetto preclusivo nel giudizio civile quando, come nella specie, contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza del fatto.
Denuncia che la sentenza penale, divenuta irrevocabile per mancata proposizione di impugnazione delle parti, contiene un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza del fatto, in relazione alla mancata responsabilità, per il decesso di G.G., in capo al capo ufficio tecnico del Comune di A ed al responsabile civile del Comune di A. Pertanto, ha errato la Corte territoriale nel rigettare l'eccezione di inammissibilità della domanda per intervenuto giudicato esterno.
5.3. Con il terzo motivo, parte ricorrente prospetta la violazione degli artt. 652 e 654 c.p.p. e degli artt. 2051 e 2053 c.c., art. 116 c.p.c., in relazione al D.P.R. n. 547/1955 ed alla L. n. 46/1990 (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.).
Sostiene che è coperta dal giudicato esterno la insussistente violazione della normativa ai sensi delle già menzionate leggi. Pertanto, i richiamati accertamenti della sentenza passata in giudicato provano che la normativa non è stata violata da parte del Comune di A, in quanto l'impianto elettrico che ha causato la folgorazione risultava essere stato disattivato e messo in sicurezza.
Il secondo e terzo motivo, congiuntamente esaminati per evidente intima connessione, sono infondati.
La colpa dei singoli dipendenti del Comune è completamente irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest'ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti di chicchessia.
Del resto, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l'assoluzione dell'imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all'affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell'elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale.
Il ricorrente non può dolersi del diverso approdo cui è pervenuta la sentenza penale, non ravvisandosi alcuna interferenza tra il giudizio penale e quello civile, giusta l'art. 652 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata ha chiarito che l'accertamento del reato è stato operato sulla scorta di un criterio valutativo delle risultanze probatorie più restrittivo rispetto a quello cui è tenuto ad attenersi il giudice civile.
La sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempreché la parte nei cui confronti l'imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale, dovendosi far riferimento, per delineare l'ambito di operatività della sentenza penale e la sua idoneità a provocare gli effetti preclusivi di cui agli artt. 652, 653 e 654 cod. proc. pen., non solo al dispositivo, ma anche alla motivazione (Cass. n. 20252/2014).
Ebbene nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario Giunta, mentre nel processo civile il Comune è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale. Inoltre, ai sensi dell'art. 2051 c.c. non è sufficiente - ed è anzi del tutto irrilevante - la dimostrazione dell'assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che - quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa - sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest'ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.
Sulla base di quanto detto non si è formato alcun giudicato penale rilevante direttamente nel giudizio di responsabilità per danni da cose in custodia.
5.4. Con il quarto motivo di ricorso, il Comune prospetta la violazione degli artt. 2934, 2943, e 2947 c.c. in relazione agli artt. 2051 e 2043 c.c., prescrizione (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.). La Corte d'Appello ha erroneamente ritenuto che la lettera ricevuta dal Comune il 15 giugno 2007 avesse interrotto i termini di prescrizione.
Il motivo è inammissibile.
In disparte l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 6 c.p.c., occorre precisare che la sentenza del giudice d'appello si articola su due rationes decidendi in tema di prescrizione. Con la prima il giudice dell'appello (cfr. pag. 15 sentenza impugnata) ha ritenuto interrotta la prescrizione con l'atto di diffida e messa in mora con richiesta di risarcimento di tutti i danni materiali biologici e morali patiti in conseguenza del decesso di G.G. avvenuto il (Omissis), regolarmente sottoscritta e pervenuta al Comune di A il 15 giugno 2007.
Con la seconda ratio, posta quale argomento dirimente secondo l'incipit "Ed in ogni caso", la prescrizione è stata ritenuta interrotta e sospesa ai sensi di quanto previsto dal comma 3, dell'art. 2947 c.c. nel caso in cui il fatto sia considerato dalla legge come reato e per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga questa si applica all'azione civile.
Ebbene, si tratta di due autonome rationes decidendi e la prima non è stata adeguatamente impugnata.
5.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, ancora, la violazione e falsa applicazione degli artt. 652 c.p.p. e dell'art. 2051 c.c., artt. 75 e 100 c.p.c., nonché il difetto di legittimazione passiva del Comune di A (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.).
Il giudice dell'appello ha errato, perché ha ritenuto non sussistere la carenza di legittimazione passiva del Comune di A tempestivamente eccepita.
5.6. Con il sesto motivo di ricorso, il Comune ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2055 c.c. e 652 c.p.p. (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.).
Deduce l'erroneità della statuizione della Corte d'Appello per aver illegittimamente pretermesso l'accertamento irrevocabile di assenza di omissioni da parte del Comune di cui al giudicato penale contenuto nella sentenza penale.
5.7. Con il settimo motivo, il ricorrente prospetta la violazione degli artt. 132 e 116 c.p.c., artt. 2051, 2049 e 2053 c.c. e artt. 40 e 42 c.p. e art. 652 c.p.p. (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.). Censura la sentenza della Corte d'Appello per aver omesso ogni forma di motivazione sulla sollevata eccezione del caso fortuito per fatto del terzo, che ha interrotto nel nesso di causalità con la posizione del comune anche riguardo alla proprietà o custodia del bene; in particolare, la corte non ha preso in considerazione tale fatto storico e non ha applicato il principio di diritto secondo cui il fatto del terzo esclude la responsabilità del custode o del proprietario quando interviene nella determinazione dell'evento dannoso, con impulso autonomo e i caratteri dell'imprevedibilità. Il quinto, sesto e settimo motivo, da esaminarsi congiuntamente per l'evidente loro intima connessione, sono inammissibili.
La responsabilità del custode può essere esclusa o dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo (rientranti nella categoria dei fatti umani), caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa ex art. 1227 c.c. (bastando la colpa del leso: Cass., ord. 20/07/2023, n. 21675, Rv. 668745-01; Cass. 24/01/2024, n. 2376) o, indefettibilmente, la seconda dalle oggettive imprevedibilità e non prevenibilità rispetto all'evento pregiudizievole.
Ai sensi dell'art. 2051 c.c., il Comune è custode dell'immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente. Ai fini della sua configurabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l'evento dannoso indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza. Nel caso di specie risulta provato che il giovane G.G. sia morto per folgorazione e i lampioni non erano in sicurezza o recintati (cfr. sentenza impugnata pag. 20 e 21).
Il Giudice del gravame ha adeguatamente motivato la propria decisione, adottata sulla base di esauriente istruttoria (pag. 20 sentenza impugnata), dalla quale ha ritenuto provato il nesso causale tra l'evento morte e le condizioni fatiscenti dell'intero impianto di illuminazione che hanno provocato l'elettrocuzione (cfr. pag. 20 e 21 sentenza impugnata): anche in considerazione di quanto sarà precisato in ordine all'ottavo motivo.
Per il resto, non può che concludersi che le censure sollevate mirano esclusivamente ad accreditare una ricostruzione della vicenda e, soprattutto, un apprezzamento delle prove raccolte del tutto divergente da quello compiuto dai giudici di merito. È noto, infatti, che nel giudizio di legittimità non sono proponibili censure dirette a provocare una nuova valutazione delle risultanze processuali, diversa da quella espressa dal giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, essendo sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell'accertamento dei fatti su cui giudicare si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti. Non essendo questa Corte giudice sul fatto, il ricorrente non può pertanto limitarsi a prospettare una lettura delle prove ed una ricostruzione dei fatti diversa da quella compiuta dal giudice di merito, svalutando taluni elementi o valorizzando altri ovvero dando ad essi un diverso significato, senza dedurre specifiche violazioni di legge ovvero incongruenze di motivazione tali da rivelare una difformità evidente della valutazione compiuta dal giudice rispetto al corrispondente modello normativo.
Vi è da aggiungere che (da ultimo, v. Cass. ord. 4288/24, in motivazione) la giurisprudenza di questa Corte è consolidata (tra le ultime, ove ulteriori riferimenti, Cass., ord. 16/11/2023, n. 31949) nella affermazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione custode per le i danni causati dalle condizioni in cui versa la res in custodia anche quando questa sia modificata ed in quanto e come sia stata modificata, tranne il solo caso in cui la modifica sia avvenuta con modalità tali (immediatamente prima, ad esempio) da escludere oggettivamente la possibilità una qualsiasi pronta reazione; solo, davvero occorre stabilire se il danno è causato dai lavori alla res in custodia in costanza dei medesimi (ipotesi nella quale la simultaneità della condotta dell'esecutore dei lavori elide il nesso causale con la cosa, questa regredendo a mera occasione del sinistro), oppure se dipende dalla res in custodia come risultante all'esito dei lavori ed una volta questi cessati da tempo idoneo a consentire il ripristino di una oggettiva possibilità di intervento o adeguamento da parte del custode (nel qual caso torna pur sempre la cosa custodita, sia pure modificata o manomessa, ad essere ciò che cagiona il danno, regredendo i lavori e le modifiche a causa remota).
Pertanto, non soccorre il Comune la circostanza che le condizioni dell'impianto potessero essere ascritte all'esecutore dei lavori -che, del resto, non risulta neppure essere stato chiamato in garanzia o quale corresponsabile dal Comune stesso - dinanzi al fatto che ormai quelle erano consolidate e di quelle tornava a rispondere, nei confronti dei terzi che ne fossero stati danneggiati, il custode (e, nella specie, il custode pubblico e cioè il Comune).
5.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente prospetta la violazione degli artt. 40 e 42 c.p., art. 116 c.p.c. e 2051, 2043 e 2053 c.c. e art. 652 c.p.p. (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.). Omessa, illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti c.t.u. medico-legale. La Corte d'Appello ha affermato, in relazione al nesso causale, che la responsabilità deve essere accertata sulla base del principio del più probabile che non, ma, nel caso di specie, non ha considerato che solo l'autopsia avrebbe consentito di affermare con precisione l'esatta causa della morte del minore (autopsia mai effettuata).
Il motivo è inammissibile.
Le censure sollevate mirano esclusivamente ad accreditare una ricostruzione della vicenda e, soprattutto, un apprezzamento delle prove raccolte del tutto divergente da quello compiuto dai giudici di merito.
Se è vero che è stata rilevata la carenza di alcuni ulteriori accertamenti, atti a somministrare la certezza della ascrivibilità causale del sinistro mortale all'impianto elettrico custodito, in ogni caso alla stessa conclusione la corte territoriale è giunta in base all'elaborazione del materiale istruttorio ed in applicazione del criterio del "più probabile che non", unico a governare l'accertamento del nesso causale civilistico, con argomentazione non implausibile e coerente e, pertanto, insindacabile nella presente sede di legittimità.
5.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 116 c.p.c. in relazione agli artt. 2043 e 2051 c.c. (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.).
La Corte ha illegittimamente riconosciuto il danno a parenti non conviventi che non avevano diritto risarcitorio, come dimostrato con prova documentale prodotta dalla difesa del Comune di A e per aver quantificato il danno in misura eccessiva sulla base di una asserita valutazione in forza della c.t.u. psicologica disposta, omettendo i rilievi difensivi tecnici di parte con i quali si osservava l'assenza di qualsivoglia cura psicoterapica da parte dei congiunti conviventi e no.
Il motivo è inammissibile sia per difetto di autosufficienza, sia ai sensi dell'art. 360-bis c.p.c.
Quanto al primo profilo, mancano in ricorso idonei riferimenti a quando ed in che termini la questione specifica sia stata sottoposta alla Corte d'Appello, mentre restano generiche le doglianze sulla concreta applicazione delle tabelle di riferimento (peraltro, correttamente individuate in quelle disponibili al tempo dell'ultima liquidazione).
Quanto al secondo, in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale "da uccisione", proposta iure proprio dai congiunti dell'ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la "società naturale", cui fa riferimento l'art. 29 Cost., all'ambito ristretto della sola cd. "famiglia nucleare", il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.
Deve dunque ritenersi che anche il legame parentale fra nonno e nipote consenta di presumere che il secondo subisca un pregiudizio non patrimoniale in conseguenza della morte del primo (per la perdita della relazione con una figura di riferimento e dei correlati rapporti di affetto e di solidarietà familiare) e ciò anche in difetto di un rapporto di convivenza, fatta salva, ovviamente, la necessità di considerare l'effettività e la consistenza della relazione parentale ai fini della liquidazione del danno (Cass. n. 29332/2017; Cass. n. 21230/2016; Cass. n. 7743/2020).
Nel caso di specie il giudice dell'appello ha fatto corretta applicazione di tali principi (cfr. sentenza impugnata pag. 22,23 e 24) e il ricorrente in violazione anche dell'art. 366 n. 6 c.p.c. non indica i presupposti per cui doversi discostare dai principi applicati.
6. Il ricorso, infondati i primi tre motivi ed inammissibili gli altri, va, pertanto, rigettato. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo a favore dei controricorrenti, seguono la soccombenza.
6.1. Infine, per la natura della causa petendi, va di ufficio disposta l'omissione, in caso di diffusione del presente provvedimento, delle generalità e degli altri dati identificativi degli originari attori e della vittima del sinistro, ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Comune ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 18.200,00 oltre 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente ed al competente ufficio di merito, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13. Dispone che, ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi generalità e dati identificativi degli originari attori e della vittima del sinistro.