
Non è necessario esperire la querela di falso contro il certificato medico laddove il datore di lavoro intenda contestare le valutazioni del sanitario sull'impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, poiché esse non sono coperte da fede privilegiata.
Riformando la pronuncia di primo grado, la Corte d'Appello di Roma dichiarava illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore irrogato per l'uso improprio dell'assenza per malattia, applicando la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, Statuto dei lavoratori.
Nello specifico, al lavoratore era stato contestato di aver simulato la malattia, ponendo in essere una condotta contraria ai doveri di correttezza, buona fede e fedeltà aziendale nell'esecuzione del rapporto di lavoro allo scopo di prolungare la sua assenza.
Secondo il Giudice di secondo grado, invece, una volta recepito l'esito della CTU disposta in sede di reclamo, era da escludere che le attività fisiche espletate dal lavoratore rispetto alla patologia indicata nei certificati di malattia potesse ritardare o compromettere la guarigione ovvero comportare un peggioramento delle sue condizioni di salute, per cui aveva ritenuto illegittimo il licenziamento.
Il datore di lavoro impugna la decisione mediante ricorso per cassazione lamentando, tra i diversi motivi, che erroneamente la Corte d'Appello aveva ritenuto che il datore di lavoro che intendesse contestare la sussistenza della malattia del proprio dipendente debba proporre querela di falso con riferimento alla certificazione medica.
Con la sentenza n. 30551 del 27 novembre 2024, la Cassazione dichiara fondato il motivo di ricorso, ricordando che l'onere di provare che la malattia del dipendente è simulata o che la diversa attività dallo stesso posta in essere sia idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio incombe sul datore di lavoro. In tale contesto, quest'ultimo può avvalersi di tutti i mezzi di prova utilizzabili in giudizio finalizzati ad accertare i fatti, sollecitando anche il giudice ad esperire una CTU o ad attivare i suoi poteri d'ufficio. Dal canto suo, il giudice, rispettando il criterio del contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale, avrà il compito di valutare tempi e luoghi della diversa attività svolta dal dipendente durante la malattia, attribuendo rilievo alla circostanza che si tratti di attività ricreativa o ludica ovvero di attività prestata in favore di terzi. In seguito, sarà necessario altresì accertare le caratteristiche della patologia oggetto dei certificati di malattia per poi verificare se da tali elementi scaturisca la prova che la malattia fosse finta ovvero che la condotta del lavoratore fosse idonea potenzialmente a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio.
A questo punto, gli Ermellini evidenziano che il certificato medico emesso dal medico convenzionato con il SSN è un atto coperto da pubblica fede fino a querela di falso circa la sua provenienza e i fatti attestati al suo interno.
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Tuttavia, la fede privilegiata non copre anche i giudizi valutativi che il sanitario ha espresso in occasione del controllo sullo stato di malattia e sull'impossibilità temporanea della prestazione di lavoro. Questi, infatti, anche se sono dotati comunque di un alto grado di attendibilità, consentono al giudice di con tenere conto anche di elementi probatori contrari acquisiti nel processo. |
Ha sbagliato dunque il Giudice di secondo grado ad avere affermato che per contestare l'esattezza di una diagnosi fosse necessaria una querela di falso del certificato medico.
Segue l'accoglimento del motivo di ricorso.
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto illegittimo il provvedimento di licenziamento intimato 1'11.9.2018 da X spa nei confronti della dipendente EF per uso improprio dell'assenza per malattia tale da far desumere la simulazione della malattia medesima ovvero per comportamento contrario ai doveri di correttezza, buona fede, fedeltà aziendale nell'esecuzione del rapporto idoneo a determinare il prolungamento della malattia stessa, ed ha applicato la sanzione reintegratoria prevista dall'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970.
2. La Corte di appello, escluso il carattere discriminatorio del licenziamento, ha recepito l'esito della consulenza tecnica medica d'ufficio disposta in sede di reclamo la quale ha verificato la compatibilità delle attività fisiche espletate dalla dipendente rispetto alla situazione patologica decritta dai certificati di malattia ed ha escluso che tali condotte fossero idonee a causare un ritardo nella guarigione o un peggioramento del quadro complessivo; ritenuto, pertanto, insussistente il fatto contestato in quanto privo di potenzialità lesiva del vincolo fiduciario, la Corte territoriale ha dichiarato illegittimo il licenziamento ed ha applicato la tutela reintegratoria dettata dall'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970.
3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a tre motivi. La lavoratrice è rimasta intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza per violazione degli artt. 111Cost., 132 c.p.c., 118 disp.att. c.p.c. per avere, la Corte di appello, escluso la simulazione della malattia attraverso una motivazione apparente, generica e apodittica ossia sul mero rilievo che la società non aveva proceduto a contestare la falsità della documentazione medica prodotta dalla lavoratrice; invero, proprio perché la società - in sede disciplinare - non conosceva la diagnosi e le limitazioni proprie della patologia sofferta dalla lavoratrice, ha improntato la contestazione disciplinare sia sotto il profilo della simulazione della malattia sia, in alternativa, sotto il profilo dell'aggravamento della stessa e i giudici di merito, una volta escluso l'ultimo profilo, non hanno adeguatamente motivato sul primo ed hanno affermato, erroneamente, che il datore di lavoro che intenda contestare in giudizio la sussistenza della malattia del proprio dipendente deve proporre querela di falso con riguardo alla certificazione medica.
2. Con il secondo motivo si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2700 c.c., 221 c.p.c., 5 della legge n. 300 del 1970 avendo, la Corte territoriale, affermato, erroneamente, che il datore di lavoro che intenda contestare in giudizio la sussistenza della malattia del proprio dipendente deve proporre querela di falso con riguardo alla certificazione medica; l'orientamento consolidato afferma, invece, che la simulazione dello stato di malattia può desumersi dalla valorizzazione di una pluralità di circostanze di fatto (indicate tempestivamente dalla società nei propri atti difensivi), senza che sia necessario contestare la falsità dei certificati medici.
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360, primo comma, n.5, c.p.c., omesso esame di una pluralità di circostanze di fatto decisive che, se esaminate e valorizzate, consentivano di ritenere accertata la simulazione della malattia.
4. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
4.1. L'apparenza della motivazione che, potendosi parificare alla motivazione inesistente, ne consente la censura ai sensi dell'art. 132 n. 4 c.p.c. si verifica nel caso in cui essa «benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., S.U., 3 novembre 2016, n. 22232): in questi casi si può dunque parlare di assenza di una motivazione percepibile realmente come tale.
4.2. Nella specie, non si ravvisa un vizio del genere nella sentenza impugnata, giacché la Corte distrettuale ha motivato la propria decisione, rendendo chiaramente intelligibile l'iter logico-giuridico seguito.
5. È invece fondato il secondo motivo.
5.1. Preliminarmente, va rammentato che secondo un principio da ritenersi consolidato nel diritto vivente (tra molte: Cass. n. 1747 del 1991; Cass. n. 9474 del 2009; Cass. n. 21253 del 2012; Cass. n. 17625 del 2014; Cass., n. 24812 del 2016; Cass. n. 21667 del 2017; Cass. n. 13980 del 2020; Cass. n. 13063 del 2022), durante il periodo di sospensione del rapporto determinato dalla malattia permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non strettamente inerenti allo svolgimento della prestazione; tra gli altri, gli obblighi di diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., oltre che gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. (cfr. Cass. n. 7915 del 1991); questo complesso di obbligazioni riverbera i propri effetti anche sulle condotte non direttamente concernenti l'adempimento della prestazione lavorativa ma che devono essere ispirate all'esigenza di salvaguardare l'interesse creditorio del datore di lavoro all'effettiva esecuzione della prestazione dovuta. L'art. 2110 c.c. in deroga ai principi generali, riversa entro certi limiti, sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa dovuta a infermità (Cass. n. 10706 del 2008; Cass. n. 14046 del 2005; Cass. n. 15916 del 2000): ne consegue che tale deroga deve essere armonizzata con i princìpi di correttezza e buona fede che devono presiedere all'esecuzione del contratto, i quali assumono rilevanza non solo sotto il profilo del comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione ma anche sotto il profilo delle modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi (Cass. n. 9141 del 2004), imponendo a ciascuna di esse il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, anche a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (dr. Cass. n. 14726 del 2002; secondo Cass. 55.UU. n. 28056 del 2008, nell'osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede le parti del rapporto obbligatorio hanno il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra; per una recente applicazione del principio V. Cass. n. 6497 del 2021).
5.2. In tale prospettiva assume peculiare rilievo l'eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall'infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell'ambito dei più generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l'adempimento dell'obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia. La valutazione dell'incidenza - sulla guarigione - dell'altra attività esercitata dal lavoratore è costituita da un giudizio ex ante, riferito al momento in cui il comportamento contestato si è tenuto ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio, con la conseguenza che, ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante (per tutte, v. Cass. n. 14046 del 2005; conf., Cass. n. 24812 del 2016; Cass., n. 21667 del 2017; Cass. n. 3655 del 2019; Cass. n. 9647 del 2021).
5.3. L'accertamento in ordine alla sussistenza o meno dell'inadempienza idonea a legittimare il licenziamento, sia essa la fraudolenta simulazione della malattia ovvero l'idoneità della diversa attività contestata a pregiudicare il recupero delle normali energie psico fisiche, si risolve in un giudizio di fatto, che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimità (ad ex., Cass. n. 3142 del 1983; Cass. n. 2585 del 1987; più di recente, ex multis, Cass. n. 17625 del 2014; Cass. n. 21667 del 2017).
5.4. L'onere di provare che la malattia del dipendente era simulata ovvero che la diversa attività posta in essere dallo stesso fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio incombe sul datore di lavoro (Cass. n.13063 del 2022): il datore di lavoro può avvalersi di ogni mezzo di prova utilizzabile in giudizio per l'accertamento dei fatti, anche sollecitando il giudice ad esperire una consulenza tecnica d'ufficio ovvero ad attivare poteri officiasi ex art. 421 c.p.c. e il giudice, nel rispetto del criterio (tipico del rito del lavoro) del giusto contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, deve valutare modalità, tempi e luoghi della diversa attività svolta dal dipendente in costanza di malattia, attribuendo rilievo, anche ai fini dell'elemento soggettivo, alla circostanza che si tratti di attività ricreativa o ludica ovvero prestata a favore di terzi; occorrerà poi esaminare le caratteristiche della patologia diagnosticata per certificare l'assenza per malattia; infine, occorrerà verificare se da tali elementi, eventualmente con l'ausilio peritale, scaturisca la prova che la malattia fosse fittizia ovvero che la condotta tenuta dal lavoratore fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al lavoro.
5.5. Ebbene, è consolidato l'orientamento di legittimità, per il quale il certificato redatto da un medico convenzionato con un ente previdenziale o con il Servizio Sanitario Nazionale per il controllo della sussistenza delle malattie del lavoratore è atto pubblico che fa fede, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l'ha formato nonché dei fatti che il pubblico ufficiale medesimo attesta aver compiuto o essere avvenuti in sua presenza" (Cass. 22 maggio1999 n. 5000; conforme, fra le molte, Cass 2 agosto 2001 n. 10569). È stato peraltro precisato che "tale fede privilegiata non si estende anche ai giudizi valutativi che il sanitario ha" in occasione del controllo "espresso in ordine allo stato di malattia e all'impossibilità temporanea della prestazione lavorativa" (Cass. 11 maggio 2000 n. 6045; Cass. n. 18507 del 2016 e ivi ulteriori rinvii). Tali giudizi, infatti, pur dotati di un elevato grado di attendibilità in ragione della qualifica funzionale e professionale del pubblico ufficiale e dotati, quindi, di una particolare rilevanza sotto il profilo dell'art. 2729 c.c., consentono al giudice di considerare anche elementi probatori di segno contrario acquisiti al processo.
5.6. Ha errato, pertanto, la Corte territoriale, a fronte della contestazione disciplinare irrogata dalla società che comprendeva sia il profilo della simulazione della malattia sia, in alternativa, il profilo dell'aggravamento della stessa durante l'assenza dal lavoro, a valutare solamente quest'ultimo, senza approfondire l'aspetto relativo alla possibile simulazione della malattia (cervicobrachialgia acuta con vertigine, patologia che è stata ritenuta sussistente, dal consulente medico d'ufficio, sulla base della mera attestazione del medico di medicina generale). In altre parole la Corte distrettuale ha erroneamente asserito che per contestare l'esattezza d'una diagnosi sia necessaria una querela di falso del certificato medico.
6. Il terzo motivo di ricorso non è fondato.
6.1. La valutazione delle allegazioni delle parti e la ricostruzione dei fatti è demandata al giudice di merito e non è censurabile davanti al giudice di legittimità a meno che non sia ravvisabile un omesso esame di fatti principali o secondari decisivi che, se presi in esame, avrebbero determinato un esito diverso del giudizio. I fatti indicati in ricorso sono stati considerati dai giudici di merito con riguardo, come innanzi sottolineato, al profilo della idoneità ad aggravare o impedire la guarigione, non rivestono profilo di decisività ai fini dell'esito della causa, e il motivo si risolve, in realtà, in censure di "malgoverno" della documentazione sanitaria e delle sue risultanze, aspetti ormai del tutto estranei al vizio di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. come riconfigurato a seguito della novella del 2012.
7. In conclusione, il secondo motivo di ricorso va accolto, rigettati il primo e il terzo; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, la quale provvederà ad accertare il carattere, genuino o non, della patologia (cervicobrachialgia acuta con vertigine) lamentata dalla lavoratrice. Provvederà, inoltre, sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettati il primo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà altresì sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di EF a norma dell'art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003, come modificato dal d.lgs. n. 101 del 2018.