Si tratta della sentenza numero 131 del 31 maggio 2022 che evidenzia chiaramente le motivazioni per le quali l'attribuzione automatica del cognome paterno viola i precetti costituzionali contenuti negli articoli 2, 3 e 117, con riferimento agli articoli 8 e 14 CEDU.
Depositata la storica sentenza della Corte costituzionale con la quale è stata dichiarata illegittima l'automatica attribuzione al figlio del cognome paterno.
La sentenza n. 131 depositata il 31 maggio 2022 afferma chiaramente che tale automaticità «si traduce nell'invisibilità della madre» ed è indice della disuguaglianza tra i genitori che non può che riflettersi sull'identità del figlio.
Tale disuguaglianza comporta la violazione degli
Da qui l'illegittimità costituzionale dell'
Ciò si spiega poiché il cognome «collega l'individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis», radicandosi nella sua identità, dunque per tale ragione esso deve rispettare e rispecchiare la pari dignità dei genitori.
In ossequio a ciò, la Consulta ha previsto che a partire dalla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale, il cognome del figlio dovrà comporsi con i cognomi di entrambi i genitori nell'ordine da loro deciso, salvo l'accordo sull'attribuzione di un cognome soltanto, e nel caso in cui vi fossero dissidi si renderà necessario l'intervento del giudice.
Preso atto di ciò, la Corte costituzionale ha rivolto inoltre un duplice invito al Legislatore:
- Un intervento volto ad impedire un meccanismo moltiplicatore con il succedersi delle generazioni, per cui sarebbe opportuno che il genitore titolare del doppio cognome scelga quello dei due che rappresenta il proprio legame genitoriale, a meno che i genitori scelgano di trasmettere entrambi i cognomi di uno solo di essi;
- Il legislatore è chiamato a valutare altresì l'interesse del figlio a non vedersi attribuire cognomi diversi da quelli dei fratelli o delle sorelle, suggerendo quale possibile soluzione la scelta del cognome attribuito al primo figlio.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 27 aprile 2022) 31 maggio 2022, n. 131
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza depositata il 17 ottobre 2019 e iscritta al n. 78 del registro delle ordinanze del 2020, il Tribunale ordinario di Bolzano, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi del riconoscimento contemporaneo del figlio – non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno. Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto dal pubblico ministero presso il Tribunale di Bolzano, ai sensi dell’art. 95 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), al fine di ottenere la rettificazione di un atto di nascita, dal quale risultava che i genitori avessero attribuito alla figlia il solo cognome materno.
Il rimettente precisa che, in sede di dichiarazione di nascita, resa con il riconoscimento contemporaneo della figlia dinanzi all’incaricato dal direttore sanitario, i genitori le avevano attribuito il solo cognome della madre.
Di seguito – secondo quanto espone l’ordinanza – la dichiarazione veniva trasmessa all’ufficiale dello stato civile, che formava l’atto di nascita, riportando il solo cognome materno; al contempo, il medesimo ufficiale presentava un’istanza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano, affinché venisse promosso il giudizio di rettificazione dell’atto di nascita, onde renderlo conforme a quanto previsto dall’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., per effetto della sentenza di questa Corte n. 286 del 2016.
Il rimettente precisa che, nel corso del giudizio, le parti confermavano la volontà di attribuire alla figlia il solo cognome della madre, sicché, dinanzi a simile comune intento, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nei termini sopra richiamati (punto 1).
1.2.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che la norma censurata, come risultante dalla citata sentenza di questa Corte n. 286 del 2016, permette l’attribuzione al figlio del doppio cognome, mediante l’aggiunta di quello materno, ma non – come richiesto da ambo i genitori – l’attribuzione del solo cognome della madre.
Pertanto, il rimettente deduce che dall’accoglimento delle prospettate questioni di legittimità costituzionale dipenderebbe la possibilità di conservare l’indicazione del solo cognome della madre e, conseguentemente, di rigettare il ricorso presentato dal pubblico ministero.
1.3.– Di seguito, dopo aver rilevato l’impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, in considerazione del suo chiaro tenore letterale, il Tribunale di Bolzano ritiene «manifestamente fondat[e]» le questioni sollevate.
Sostiene che la disciplina sull’attribuzione del cognome, che è chiamato ad applicare, non sarebbe, innanzitutto, conforme all’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale del figlio, in quanto il valore dell’identità della persona riflesso nel nome, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e nella sua valenza pubblicistica e privatistica, porterebbe a «individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale».
Ravvisa, inoltre, un contrasto con il principio di eguaglianza riferito al genere, non trovando la disposizione censurata alcun sostegno nell’art. 3 Cost., che deve ispirare i rapporti fra i genitori.
Inoltre, richiama la motivazione della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, che avrebbe ravvisato nell’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, al momento della nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, una violazione dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Infine, la norma censurata si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 7 e 21 CDFUE, i quali, ad avviso del rimettente, risulterebbero corrispondenti agli artt. 8 e 14 CEDU.
1.4.– Con atto depositato il 28 luglio 2020, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto di dichiarare le questioni inammissibili e, in ogni caso, non fondate.
2.– Nel corso del medesimo giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 18, depositata in data 11 febbraio 2021, e iscritta al n. 25 del registro ordinanze 2021, ha sollevato innanzi a sé questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori – impone, in mancanza di diverso accordo dei genitori, l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori.
2.1.– Nell’ordinanza anzidetta, la Corte ha rilevato che, anche qualora «fosse riconosciuta la facoltà ai genitori di scegliere, di comune accordo, la trasmissione del solo cognome materno, la regola che impone l’acquisizione del solo cognome paterno dovrebbe essere ribadita in tutte le fattispecie in cui tale accordo manchi o, comunque, non sia stato legittimamente espresso». D’altro canto, neppure il consenso, su cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla disciplina generale che prevede l’attribuzione del cognome del padre, «potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva parità tra le parti, posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome».
Questa Corte ha, pertanto, ritenuto che, «alla luce del rapporto di presupposizione e di continenza» tra la questione introdotta dall’ordinanza iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020 e i dubbi di legittimità costituzionale esplicitati nell’ordinanza di autorimessione, «la risoluzione della questione avente ad oggetto l’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui impone l’acquisizione del solo cognome paterno, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice a quo».
2.2.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, l’ordinanza iscritta al n. 25 del reg. ord. 2021 ha ravvisato la sussistenza di un contrasto «della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia».
In particolare, ha sottolineato che «la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrific[herebbe] il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno» e incarna il retaggio di una concezione patriarcale, che non potrebbe «ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché “è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo”».
Infine, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, e in specie della sentenza del 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, ha argomentato nel senso che la disposizione censurata violerebbe anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
2.3.– Di conseguenza, questa Corte ha disposto la sospensione del giudizio sollevato dal Tribunale di Bolzano con l’ordinanza iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020.
2.4.– Nel corso del giudizio introdotto dall’ordinanza iscritta al n. 25 del reg. ord. 2021 sono state depositate due opinioni scritte, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, ratione temporis vigenti, ammesse con decreto presidenziale del 21 marzo 2022.
2.4.1.– Con atto depositato il 5 marzo 2021, la «Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica A.P.S.» e la «Associazione VOX – Osservatorio italiano sui diritti», in persona dei rispettivi legali rappresentanti, hanno formulato un’opinione scritta congiunta, in cui hanno sottolineato il carattere discriminatorio nei confronti delle donne della regola vigente in materia di attribuzione del cognome ai figli, frutto di una «concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 494 del 2002).
Le citate associazioni hanno, pertanto, insistito per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata da questa Corte, onde evitare «l’inopportuno trascinamento nel tempo di discipline maturate» in un diverso contesto, che, «alla luce della mutata realtà sociale», trasmoderebbe «in una regolazione non proporzionata e manifestamente irragionevole degli interessi coinvolti» (è richiamata la sentenza n. 223 del 2015).
2.4.2.– Con atto depositato il 6 marzo 2021, la «Rete per la Parità – Associazione di Promozione sociale» e l’«InterClubZontaItalia – Coordinamento dei club Zonta italiani», in persona dei rispettivi legali rappresentanti, hanno espresso, a loro volta, un’opinione scritta congiunta, in cui hanno fornito supporto alle ragioni dell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate da questa Corte, ponendo l’accento sul contrasto fra la norma sulla trasmissione del cognome ai figli e gli obblighi internazionali assunti dall’ordinamento italiano in materia di eguaglianza tra i genitori.
3.– Con ordinanza depositata il 12 novembre 2021 e iscritta al n. 222 del registro ordinanze 2021, la Corte d’appello di Potenza ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 cod. civ., dell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), nonché degli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno.
3.1.– In punto di fatto, il rimettente riferisce di essere chiamato a decidere sul reclamo proposto da due coniugi avverso il decreto del Tribunale ordinario di Lagonegro del 4 novembre 2020, con il quale era stato dichiarato inammissibile il ricorso dai medesimi presentato, ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, contro il diniego opposto dall’ufficiale dello stato civile alla richiesta di registrare la nascita del loro figlio, iscrivendolo con il solo cognome della madre.
Il giudice a quo, esponendo i fatti, chiarisce che si trattava dell’assegnazione del cognome al terzogenito della coppia la quale, prima di unirsi in matrimonio, aveva già avuto altre due figlie riconosciute in precedenza dalla sola madre e che, pertanto, portavano il suo cognome.
3.1.1.– Il rimettente precisa che, con il ricorso ex art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, i genitori avevano chiesto, in via principale, di disapplicare la «norma consuetudinaria» che dava prevalenza al cognome paterno, in quanto contra legem, e, in subordine, per l’ipotesi in cui «si aderisse alla tesi della natura legislativa della norma», di sollevare questioni di legittimità costituzionale.
Il citato ricorso era stato dichiarato «inammissibile» dal Tribunale adito, sul presupposto che «la norma consuetudinaria» sulla trasmissione del cognome paterno al figlio potesse essere superata solo da un intervento legislativo. In ogni caso, il giudice aveva escluso che potessero sussistere ragioni per sollevare questioni di legittimità costituzionale, ritenendo che la «invocata tutela della integrità del nucleo familiare ben pote[sse] essere salvaguardata dall’attribuzione del cognome di entrambi i genitori a tutti i figli».
3.1.2.– Il giudice a quo prosegue, dando conto del reclamo proposto, avverso il citato decreto, dai due genitori, che hanno insistito per la disapplicazione della norma o, in alternativa, perché fossero sollevate questioni di legittimità costituzionale.
3.2.– La Corte d’appello rimettente rinviene il fondamento della norma sulla trasmissione del cognome ai figli nati nel matrimonio negli artt. 237, 262 e 299 cod. civ., nonché negli artt. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000; di seguito, sulla premessa che essa non sia «suscettibile di una interpretazione costituzionalmente orientata», motiva la rilevanza delle questioni, deducendo di non poter decidere sulla richiesta dei due coniugi di attribuire al figlio, sulla base del loro accordo, il solo cognome della madre, senza fare applicazione della norma della cui legittimità costituzionale dubita.
3.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che la norma si ponga in contrasto con l’art. 2 Cost., «che tutela il diritto alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea tra i figli e il diritto alla unitarietà familiare», e con i principi di eguaglianza e di pari dignità morale tra i coniugi, riconosciuti dagli artt. 3 e 29, secondo comma, Cost., nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, richiamando, a supporto, brevi stralci della sentenza di questa Corte n. 286 del 2016 e di quella della Corte EDU, 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia.
3.4.– Con atto depositato il 7 febbraio 2022, si sono costituiti A. M. e V. D.C., parti del giudizio principale, per sostenere l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.
3.4.1.– Integrando la ricostruzione in fatto dell’ordinanza di rimessione, espongono di essere genitori di due figlie e di un figlio. Riferiscono che le prime due erano state riconosciute inizialmente dalla sola madre, tant’è che, a seguito del riconoscimento da parte del padre, i genitori avevano condiviso di non aggiungere al cognome delle figlie quello paterno, onde preservare la loro identità personale. Con la nascita del terzogenito, successiva al loro matrimonio, lamentano di vedersi imporre dalla norma censurata l’attribuzione al figlio di un cognome differente rispetto a quello delle sorelle.
3.4.2.– Le parti denunciano, pertanto, una violazione del «diritto dei fanciulli alla propria identità, alla pari dignità e all’unità familiare» e sottolineano come, nel caso di specie, la scelta non sarebbe «motivata da un “capriccio” ma dall’esigenza di prendere la migliore decisione nell’interesse» del figlio, in quanto l’adozione dello stesso cognome delle sorelle contribuirebbe «all’unitarietà del nucleo familiare assicurando al contempo la formazione dell’identità personale del minore in maniera omogenea rispetto ai fratelli».
Le parti sottolineano, inoltre, la necessità che, nella materia dell’attribuzione del cognome, sia rispettata la «funzione genitoriale», prospettando il contrasto tra la regola vigente e le seguenti norme: l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza; l’art. 29, secondo comma, in combinato disposto con l’art. 30, primo comma, Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza nell’esercizio di detta funzione; l’art. 5 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in quanto prevede che gli Stati debbano rispettare «la responsabilità, il diritto e il dovere dei genitori».
Nello stesso quadro, le parti richiamano anche l’art. 118, ultimo comma, Cost., che darebbe fondamento costituzionale alla «autonomia dei privati in base al principio di sussidiarietà orizzontale».
Sempre ad avviso delle parti, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nonché all’art. 5 del settimo Protocollo addizionale, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 9 aprile 1990, n. 98 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 7 alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernente l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984). Inoltre, l’art. 117, primo comma, Cost. sarebbe violato in relazione all’art. 16 della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, firmata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, il quale dispone che «[g]li Stati Parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio, e nei rapporti familiari […] compresa la scelta del cognome […]».
3.5.– Nell’udienza del 26 aprile 2022 sono intervenute le parti private, che hanno insistito per le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.
Motivi della decisione
1.– Con ordinanza depositata il 17 ottobre 2019 e iscritta al n. 78 del registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Bolzano, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi del riconoscimento contemporaneo del figlio (secondo periodo del primo comma) – non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno.
Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
2.– Nel corso del citato giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 18 del 2021, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 2021, ha disposto la trattazione innanzi a sé delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori (secondo periodo del primo comma) – impone, in mancanza di diverso accordo dei genitori, l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori.
3.– Con ordinanza depositata il 12 novembre 2021 e iscritta al n. 222 del registro ordinanze 2021, la Corte d’appello di Potenza ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 cod. civ., dell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), nonché degli artt. 33 e 34 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno.
4.– L’ordinanza di questa Corte, iscritta al n. 25 del reg. ord. 2021, riguarda la medesima disposizione (l’art. 262, primo comma, cod. civ.), oggetto delle censure mosse con l’ordinanza iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020, e solleva questioni di legittimità costituzionale che hanno carattere pregiudiziale rispetto alla decisione di quelle sollevate dal Tribunale di Bolzano.
Al contempo, le citate ordinanze, da un lato, e l’ordinanza iscritta al n. 222 del reg. ord. 2021 della Corte d’appello di Potenza, dall’altro lato, si riferiscono a norme che, pur avendo un differente ambito applicativo – rispettivamente l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio o nel matrimonio – presentano il medesimo contenuto sostanziale e sollevano analoghe questioni di legittimità costituzionale.
Pertanto, in considerazione dello stretto collegamento tra le questioni sollevate con le ordinanze iscritte al n. 78 del reg. ord. 2020 e ai nn. 25 e 222 del reg. ord. 2021, può essere disposta la riunione dei giudizi, perché siano definiti con un’unica pronuncia (sentenza n. 421 del 1995).
5.– In rito, occorre dichiarare d’ufficio l’inammissibilità delle questioni sollevate dalla Corte d’appello di Potenza con l’ordinanza n. 222 del 2021.
Il giudice a quo afferma apoditticamente la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, limitandosi a una sintetica elencazione delle disposizioni costituzionali che si ritengono violate e compendiando tali affermazioni con una lacunosa citazione di stralci della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale. Per costante orientamento di questa Corte «la carenza di un’adeguata e autonoma illustrazione delle ragioni per le quali la norma censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato (ex plurimis, sentenze n. 54 del 2020, n. 33 del 2019 e n. 240 del 2017)» (sentenza n. 30 del 2021) è causa di inammissibilità delle questioni sollevate.
6.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., sollevate con l’ordinanza del Tribunale di Bolzano, iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020, e con l’ordinanza di autorimessione, iscritta al n. 25 del reg. ord. 2021, sono fondate.
7.– In via preliminare, occorre richiamare i tratti della norma censurata, la radice legislativa a essa sottesa e gli interventi di questa Corte, interpellata più volte in merito alla sua legittimità costituzionale.
7.1.– L’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., nel regolare l’attribuzione del cognome al figlio nato fuori del matrimonio, prevede che «[s]e il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre».
La norma riflette la disciplina sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, che è l’istituto nell’ambito del quale si rinviene la matrice legislativa della regola. La sua fonte si ravvisa, infatti, nella formulazione, antecedente alla riforma del 1975 (legge 19 maggio 1975, n. 151, recante «Riforma del diritto di famiglia»), dell’art. 144 cod. civ., il quale (con un testo identico a quello dell’art. 131 del codice civile del Regno d’Italia del 1865) disponeva che: «[i]l marito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la residenza».
In tale contesto, il cognome del marito imposto alla moglie era quello della famiglia, il che rendeva superfluo esplicitare la sua trasmissione ai figli nati nel matrimonio.
La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha novellato l’art. 144 cod. civ. e ha introdotto l’art. 143-bis cod. civ., prevedendo l’aggiunta e non più la sostituzione del cognome del marito a quello della moglie, disposizione univocamente interpretata nel senso che attribuisca a quest’ultima una facoltà e non un obbligo. La nuova disciplina, pur evidenziando un persistente riflesso della vecchia potestà maritale, ha reso meno nitida l’immagine del cognome del marito quale cognome di famiglia. E, tuttavia, nel contempo, la norma sull’attribuzione del cognome del padre ai figli è rimasta solidamente radicata su un complesso di disposizioni (punto 14.1), alle quali si ascrive anche quella censurata, che non è stata scalfita neppure dalla riforma della filiazione, introdotta dalla legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali) e dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219).
7.2.– Questa Corte, lungo un arco temporale che oramai ha superato il trentennio, è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della norma oggi all’esame.
Nel 1988, con riferimento al cognome del figlio nato nel matrimonio, ha rilevato che «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall’art. 29 della Costituzione, anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (ordinanza n. 176 del 1988).
Trascorsi diciotto anni, questa Corte ha ribadito che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna» (sentenza n. 61 del 2006, ripresa dalla successiva ordinanza n. 145 del 2007).
Infine, dopo ancora due lustri, preso atto che, a «distanza di molti anni [dalle citate] pronunce, un “criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi”, non [era] ancora stato introdotto» (sentenza n. 286 del 2016), questa Corte, «in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità», ha accolto le questioni di legittimità costituzionale, che le erano state sottoposte, negli stretti limiti tracciati dal petitum. Ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui non consente «ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno», e ha esteso, in via consequenziale, i suoi effetti sia alla disposizione oggi censurata (l’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ.), sia a quella sull’attribuzione del cognome all’adottato (maggiore d’età) da parte di coniugi (art. 299, terzo comma, cod. civ.).
8.– Questa Corte viene ora chiamata nuovamente a giudicare la legittimità costituzionale della norma, trasfusa nell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., sotto un duplice profilo.
Con l’ordinanza iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020, il Tribunale di Bolzano denuncia la sua illegittimità costituzionale, nella parte in cui non consente di attribuire, con l’accordo fra i genitori, il solo cognome della madre. Si invoca, dunque, un intervento additivo avente un contenuto radicalmente derogatorio della regola generale sull’automatica trasmissione del cognome paterno.
Con l’ordinanza iscritta al n. 25 del reg. ord. 2021, questa stessa Corte, quale giudice a quo, prospetta, in via pregiudiziale, un intervento sostitutivo della norma, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’attribuzione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi.
I parametri costituzionali, sui quali si incentrano le comuni censure delle due ordinanze, sono l’art. 2 Cost., in relazione alla tutela dell’identità del figlio, e l’art. 3 Cost., invocato a difesa del principio di eguaglianza nei rapporti fra i genitori.
Analogamente, il contrasto con gli obblighi internazionali, di cui all’art. 117, primo comma, Cost., si focalizza, sulla scorta della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sulla protezione dell’identità personale del figlio, mediata dall’art. 8 CEDU, e sul divieto di discriminazioni, di cui all’art. 14 CEDU.
9.– A fronte delle citate questioni occorre, dunque, evidenziare l’intreccio, nella disciplina del cognome, fra il diritto all’identità personale del figlio e l’eguaglianza tra i genitori.
Il cognome, insieme con il prenome, rappresenta il nucleo dell’identità giuridica e sociale della persona: le conferisce identificabilità, nei rapporti di diritto pubblico, come di diritto privato, e incarna la rappresentazione sintetica della personalità individuale, che nel tempo si arricchisce progressivamente di significati.
È costante nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo cui il nome è «“autonomo segno distintivo della […] identità personale” (sentenza n. 297 del 1996), nonché “tratto essenziale della […] personalità” (sentenza n. 268 del 2002; nello stesso senso, sentenza n. 120 del 2001)» (sentenza n. 286 del 2016), «riconosciuto come un “bene oggetto di autonomo diritto dall’art. 2 Cost.” [e, dunque, come] “diritto fondamentale della persona umana” (sentenze n. 13 del 1994, n. 297 del 1996 e, da ultimo, sentenza n. 120 del 2001)» (sentenza n. 268 del 2002).
La norma censurata riguarda, in particolare, il momento attributivo del cognome, che, di regola, è legato all’acquisizione dello status filiationis.
Ne consegue che il cognome, quale fulcro – insieme al prenome – dell’identità giuridica e sociale, collega l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis. Il cognome deve, pertanto, radicarsi nell’identità familiare e, al contempo, riflettere la funzione che riveste, anche in una proiezione futura, rispetto alla persona (sentenza n. 286 del 2016).
Sono, dunque, proprio le modalità con cui il cognome testimonia l’identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori.
10.– Nella fattispecie disegnata dall’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., l’identità familiare del figlio, che preesiste all’attribuzione del cognome, può scomporsi in tre elementi: il legame genitoriale con il padre, identificato da un cognome, rappresentativo del suo ramo familiare; il legame genitoriale con la madre, anche lei identificata da un cognome, parimenti rappresentativo del suo ramo familiare; e la scelta dei genitori di effettuare contemporaneamente il riconoscimento del figlio, accogliendolo insieme in un nucleo familiare.
10.1.– La selezione, fra i dati preesistenti all’attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna, oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre.
A fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio, il segno dell’unione fra i due genitori si traduce nell’invisibilità della donna.
L’automatismo imposto reca il sigillo di una diseguaglianza fra i genitori, che si riverbera e si imprime sull’identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost.
Questa Corte ha da tempo rilevato (supra punto 7.2) che la norma sull’attribuzione del cognome del padre è il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia» (sentenze n. 286 del 2016 e n. 61 del 2006), il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull’attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove contemporaneamente riconosciuto.
Si tratta di un automatismo che non trova alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l’interesse del figlio, né – come ha già rilevato questa Corte con riferimento all’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio (sentenza n. 286 del 2016) – nel coordinamento tra principio di eguaglianza e «finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.». È, infatti, «“proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo”, poiché l’unità “si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità” (sentenza n. 133 del 1970)» (sentenza n. 286 del 2016).
La stessa riforma del diritto di famiglia del 1975, che pure non è intervenuta sulla disciplina dell’attribuzione del cognome ai figli, aveva, tuttavia, contribuito a mettere a fuoco il senso del rapporto fra eguaglianza e unità familiare. L’unità della famiglia fondata sul matrimonio si basa «sugli stessi diritti e sui medesimi doveri» dei coniugi (art. 143 cod. civ.), sulla reciproca solidarietà e sulla condivisione delle scelte (fra le tante disposizioni, si veda la nuova formulazione dell’art. 144 cod. civ.). Parimenti, l’assunzione di responsabilità in capo ai genitori, dentro e fuori il matrimonio, si radica nell’eguaglianza fra di loro e nell’accordo sulle decisioni che riguardano il figlio. Lo hanno sottolineato sempre la novella del 1975 e la riforma della filiazione del 2012-2013, anch’essa silente rispetto alla norma censurata, ma fautrice della rimozione di un altro residuo storico della disparità fra i genitori, che si rinveniva nell’originario quarto comma dell’art. 316 cod. civ. (in forza del quale era il solo padre a poter adottare «i provvedimenti urgenti ed indifferibili» per porre riparo a «un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio»).
Unità ed eguaglianza non possono coesistere se l’una nega l’altra, se l’unità opera come un limite che offre un velo di apparente legittimazione a sacrifici imposti in una direzione solo unilaterale.
A fronte dell’evoluzione dell’ordinamento, il lascito di una visione discriminatoria, che attraverso il cognome si riverbera sull’identità di ciascuno, non è più tollerabile.
10.2.– L’«importanza di un’evoluzione nel senso dell’eguaglianza dei sessi» viene, del resto, sottolineata anche dalla Corte EDU, che invita alla «eliminazione di ogni discriminazione […] nella scelta del cognome», sul presupposto che «la tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito non p[uò] giustificare una discriminazione nei confronti delle donne (si veda, in particolare, Ünal Tekeli, [paragrafi] 64-65)» (Corte EDU, sentenza 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, paragrafo 66).
E, invero, sin dalla fine degli anni settanta, gli obblighi internazionali, cui si è vincolato l’ordinamento italiano, sollecitano l’«eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna», «in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari […], compresa la scelta del cognome» (sentenza n. 61 del 2006, con riferimento all’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, nonché alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998, e, ancor prima, alla risoluzione n. 37 del 1978).
11.– Occorre, allora, valutare i termini con cui l’ordinanza di autorimessione ha posto le questioni di legittimità costituzionale in via pregiudiziale rispetto a quelle sollevate dal Tribunale di Bolzano con l’ordinanza iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020.
11.1.– Quest’ultima ordinanza prospetta – come già anticipato (punto 8) – l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non consente, sulla base di un accordo fra i genitori, di attribuire al figlio il solo cognome della madre. Sennonché il cardine su cui il Tribunale di Bolzano fonda il suo petitum, vale a dire l’accordo fra i genitori in funzione derogatoria, presuppone il rispetto del principio di eguaglianza.
A fronte di una disciplina che garantisce l’attribuzione del cognome del padre, la madre è posta in una situazione di asimmetria, antitetica alla parità, che, a priori, inficia le possibilità di un accordo, tanto più improbabile in quanto abbia a oggetto l’attribuzione del solo cognome materno, ossia il radicale sacrificio di ciò che spetta di diritto al padre.
Senza eguaglianza mancano le condizioni logiche e assiologiche di un accordo.
La regola dell’automatica attribuzione del cognome paterno, nel violare il principio di eguaglianza, racchiude un vizio di legittimità costituzionale che inficia ab imis anche l’elemento costitutivo dell’intervento additivo invocato dal Tribunale di Bolzano con l’ordinanza iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020.
11.2.– Di conseguenza, questa Corte, preso atto che delle numerose proposte di riforma legislativa, presentate a partire dalla VIII legislatura, nessuna è giunta a compimento, non può più esimersi dal rendere effettiva la «legalità costituzionale» (ordinanza di autorimessione n. 18 del 2021).
Il carattere in sé discriminatorio della disposizione censurata, il suo riverberarsi sull’identità del figlio e la sua attitudine a rendere asimmetrici, rispetto al cognome, i rapporti fra i genitori devono essere rimossi con una regola che sia il più semplice e automatico riflesso dei principi costituzionali coinvolti.
Il cognome del figlio deve comporsi con i cognomi dei genitori, salvo – come si dirà (infra punto 12) – loro diverso accordo.
La proiezione sul cognome del figlio del duplice legame genitoriale è la rappresentazione dello status filiationis: trasla sull’identità giuridica e sociale del figlio il rapporto con i due genitori. Al contempo, è il riconoscimento più immediato e diretto «del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali» (sentenza n. 286 del 2016).
11.3.– L’illegittimità costituzionale della norma che comportava la preferenza per il cognome paterno rende ora necessario individuare un ordine di attribuzione dei cognomi dei due genitori compatibile con i principi costituzionali e con gli obblighi internazionali. Non si può, infatti, riprodurre – con un criterio che anteponga meccanicamente il cognome paterno, o quello materno – la medesima logica discriminatoria, che è a fondamento della odierna declaratoria di illegittimità costituzionale.
Sul tema si è espressamente pronunciata anche la Corte EDU, riferendosi a una disposizione dell’ordinamento spagnolo (l’art. 194 del Regolamento per l’applicazione della legge sullo stato civile, nella formulazione recata dalle modifiche apportate dal decreto reale 11 febbraio 2000, rimasto in vigore sino al 30 aprile 2021, in correlazione all’art. 109 del codice civile spagnolo), che imponeva di anteporre il cognome del padre, nel caso di disaccordo sull’ordine.
La Corte EDU ha, a riguardo, rilevato il suo carattere «excessivement rigide et discriminatoire envers les femmes (Cusan et Fazzo [paragrafo] 67)» (sentenza 26 ottobre 2021, León Madrid contro Spagna, paragrafo 68), per poi aggiungere che «si la sécurité juridique peut être manifestée par le choix de placer le nom du père en premier, elle peut aussi bien être manifestée par le nom de la mère (Burghartz c. Suisse, 22 février 1994, [paragrafo] 28, série A no 280-B)» (sentenza 26 ottobre 2021, León Madrid contro Spagna, paragrafo 69).
Il mero paradigma della parità conduce, dunque, all’ordine concordato dai genitori, soluzione adottata anche negli altri paesi europei che prevedono l’attribuzione del doppio cognome.
Quanto alla disciplina necessaria a dirimere l’eventuale disaccordo, in mancanza di diversi criteri, che potrà il legislatore eventualmente prevedere, questa Corte non può che segnalare lo strumento che l’ordinamento giuridico già appronta per risolvere il contrasto fra i genitori su scelte di particolare rilevanza riguardanti i figli. Si tratta del ricorso all’intervento del giudice, previsto, in forme semplificate, dall’art. 316, commi secondo e terzo, cod. civ., nonché – con riferimento alle situazioni di crisi della coppia – dagli artt. 337-ter, terzo comma, 337-quater, terzo comma, e 337-octies cod. civ.
Del resto, le citate disposizioni sono le medesime che, secondo gli orientamenti della giurisprudenza e il pensiero della dottrina, risolvono i contrasti fra i genitori anche in merito all’attribuzione del prenome.
12.– Sulla base di quanto rilevato con riferimento alle questioni presupposte, possono ora esaminarsi quelle sollevate dal Tribunale di Bolzano con l’ordinanza iscritta al n. 78 del reg. ord. 2020, come fatte proprie dall’ordinanza di autorimessione.
Quest’ultima ha, infatti, posto questioni di legittimità costituzionale della norma, che impone l’attribuzione del cognome paterno, in luogo di quelli di ambo i genitori, «in mancanza di diverso accordo», così riferendosi alla possibilità di derogare all’attribuzione del cognome di entrambi i genitori. E, invero, quanto prospettato dal Tribunale di Bolzano – ossia il sospetto di illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non consente, sulla base di un accordo, di attribuire il solo cognome della madre – si ripropone in termini esattamente speculari anche per la posizione del padre.
Chiaramente, nel rispetto dell’imprescindibile legame fra il cognome del figlio e lo status filiationis, il «diverso accordo» resta circoscritto al cognome di uno dei due genitori e incarna la loro stessa volontà di essere rappresentati entrambi, nel rapporto con il figlio, dal cognome di uno di loro soltanto.
Su tali premesse, deve ritenersi costituzionalmente illegittima la mancata previsione della citata regola derogatoria, poiché impedisce ai genitori di avvalersi, in un contesto divenuto paritario, di uno strumento attuativo del principio di eguaglianza, qual è l’accordo, per compendiare in un unico cognome il segno identificativo della loro unione, capace di permanere anche nella generazione successiva e di farsi interprete di interessi del figlio.
L’accordo può guardare in proiezione futura alla funzione identitaria che svolge il cognome per il figlio e può tenere conto di preesistenti profili correlati allo status filiationis, quale il legame con fratelli o sorelle, che portano il cognome di uno solo dei due genitori. Potrebbe trattarsi del cognome del padre, come di quello della madre, che potrebbe aver riconosciuto i precedenti figli prima del padre. Né può trascurarsi l’eventualità che i genitori – nell’interesse del figlio – condividano la scelta di trasmettere il cognome del solo genitore che abbia già altri figli, dando così prioritario risalto al rapporto tra fratelli e sorelle.
Da ultimo, anche la Corte EDU, nella citata sentenza Cusan e Fazzo contro Italia, ha ravvisato nella «lacuna del sistema giuridico italiano», che non consente l’iscrizione del figlio con il solo cognome della madre «in caso di consenso tra i coniugi», una violazione degli artt. 8 e 14 CEDU.
13.– In conclusione, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dall’ordinanza di autorimessione n. 25 iscritta al reg. ord. 2021 e dall’ordinanza n. 78 iscritta al reg. ord. 2020 del Tribunale di Bolzano.
Ne consegue che, per poter attribuire al figlio il cognome di uno dei genitori, è necessario il loro accordo, non surrogabile in via giudiziale, in quanto implica la scelta di identificare con il cognome di uno dei genitori il duplice legame con il figlio. In mancanza di tale accordo, devono attribuirsi i cognomi di entrambi i genitori, nell’ordine dagli stessi deciso.
Ove difetti l’accordo sull’ordine di attribuzione dei cognomi dei genitori, che è parte della regola suppletiva, si rende necessario dirimere il contrasto e lo strumento che le norme vigenti consentono, attualmente, di approntare è quello dell’intervento giudiziale.
Si deve, pertanto, dichiarare costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, l’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto.
Sono assorbite le ulteriori censure sollevate dal Tribunale di Bolzano.
14.– L’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ. determina, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quella di ulteriori norme.
14.1.– Innanzitutto, comporta l’illegittimità costituzionale della norma che disciplina l’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio.
Questa – come già anticipato (punto 7.1) – si inferiva implicitamente dall’art. 144 cod. civ., nella formulazione antecedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975, e veniva presupposta da un complesso di disposizioni, alcune delle quali modificate o abrogate, altre tutt’ora vigenti e costituenti l’attuale ossatura della norma di sistema.
Alle disposizioni modificate si ascrive l’art. 237, secondo comma, cod. civ., il quale, nel testo antecedente alla riforma della filiazione (art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013), prevedeva che il possesso di stato potesse rinvenire, tra i suoi fatti costitutivi, l’aver «sempre portato il cognome del padre». È stato, invece, del tutto abrogato l’art. 33, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 – ad opera dell’art. 1, comma 1, lettera e), punto 1), del decreto del Presidente della Repubblica 30 gennaio 2015, n. 26 (Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di filiazione) – il quale, nella disciplina sull’ordinamento dello stato civile, disponeva che «[i]l figlio legittimato ha il cognome del padre».
Venendo ora alle disposizioni ancora vigenti, deve evocarsi, innanzitutto, l’art. 299, terzo comma, cod. civ., sull’adozione da parte dei coniugi del maggiore d’età, il quale disponeva e dispone attualmente, anche dopo la sua sostituzione ad opera dell’art. 61 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), che «l’adottato assume il cognome del marito».
Parimenti, sottende la medesima norma anche l’art. 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983, relativo all’adozione di cui al Titolo II della citata legge, il quale stabilisce che l’adottato assume e trasmette il cognome degli adottanti. Tale cognome, in conformità allo stato di figlio nato nel matrimonio dei coniugi adottanti, viene univocamente riferito a quello del marito, tant’è che il comma 2 della medesima disposizione prevede che, solo se l’adozione è disposta nei confronti della moglie separata, «l’adottato assume il cognome della famiglia di lei».
Ancora, nella disciplina sull’ordinamento dello stato civile, risultava e risulta tuttora presupposta l’attribuzione del cognome del padre dalla norma che vieta di assegnare al bambino lo stesso nome del padre o del fratello o della sorella viventi (tale disciplina si rinviene attualmente nell’art. 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, mentre in origine era contenuta nell’art. 72 del r.d. n. 1238 del 1939, poi abrogato dall’art. 109, comma 2, del citato d.P.R. n. 396 del 2000).
Infine, deve ascriversi alle disposizioni che presuppongono la norma di sistema lo stesso art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ.
La declaratoria di illegittimità costituzionale della norma relativa all’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio discende, dunque, pianamente, in via consequenziale, dalla illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, secondo periodo, cod. civ., in ragione della loro sostanziale identità di contenuto, tant’è che la disposizione censurata è fra quelle da cui si evince la norma di sistema.
Ne deriva che la norma sull’attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio è costituzionalmente illegittima, nella parte in cui prevede l’attribuzione del cognome del padre al figlio, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto.
14.2.– Per le medesime ragioni esposte con riferimento alla norma sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, va dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., il quale, nell’ambito della disciplina sull’adozione del maggiore d’età da parte dei coniugi, dispone che «l’adottato assume il cognome del marito».
L’art. 299, terzo comma, cod. civ. è, dunque, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome del marito, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dagli stessi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire all’adottato il cognome di uno di loro soltanto.
14.3.– Sempre per le stesse ragioni illustrate relativamente alla norma sull’attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio, va dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 27 della legge n. 184 del 1983, secondo cui, per effetto dell’adozione, l’adottato «assume e trasmette il cognome» degli adottanti, univocamente interpretato – come si è già anticipato (punto 14.1.) – con riferimento al cognome del marito.
Anche l’art. 27 della legge n. 184 del 1983 è, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome degli adottanti, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dagli stessi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire all’adottato il cognome di uno di loro soltanto.
15.– A corollario delle declaratorie di illegittimità costituzionale, questa Corte non può esimersi dal formulare un duplice invito al legislatore.
15.1.– In primo luogo, si rende necessario un intervento finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome.
Simile intervento si dimostra impellente, ove si consideri che, a partire dal 2006, varie fonti normative hanno contribuito al diffondersi di doppi cognomi.
Dapprima la prassi amministrativa (Ministero dell’interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, circolare n. 21 del 30 maggio 2006, recante «Problematiche inerenti all’attribuzione del cognome materno», circolare n. 15 del 12 novembre 2008, recante «Chiarimenti in merito alle istanze di cambiamento del nome e del cognome di cui agli art. 84 e seguenti del D.P.R. n. 396/2000», e circolare n. 14 del 21 maggio 2012, recante «D.P.R. n. 54 del 13 marzo 2012. Modifiche al D.P.R. n. 396/2000 in materia di procedimento di cambiamento del cognome») e, di seguito, la puntiforme modifica dell’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, a opera dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento recante modifica delle disposizioni in materia di stato civile relativamente alla disciplina del nome e del cognome prevista dal titolo X del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396) hanno allentato i requisiti sulla base dei quali è ammesso il cambio del cognome anche con l’aggiunta di un secondo cognome (che di regola è quello della madre).
A seguire, la sentenza n. 286 del 2016 di questa Corte ha consentito, sulla base di un accordo fra i genitori, l’attribuzione del cognome della madre in aggiunta a quello del padre e, da ultimo, il presente intervento rende l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori regola di carattere generale.
A fronte di tale disciplina, occorre preservare la funzione del cognome, identitaria e di identificazione, a livello giuridico e sociale, nei rapporti di diritto pubblico e di diritto privato, che non è compatibile con un meccanismo moltiplicatore dei cognomi nel succedersi delle generazioni.
La necessità, dunque, di garantire la funzione del cognome, e di riflesso l’interesse preminente del figlio, indica l’opportunità di una scelta, da parte del genitore – titolare del doppio cognome che reca la memoria di due rami familiari – di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale, sempre che i genitori non optino per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto.
15.2.– In secondo luogo, spetta al legislatore valutare l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all’attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia).
16.– Infine, è doveroso precisare che tutte le norme dichiarate costituzionalmente illegittime riguardano il momento attributivo del cognome al figlio, sicché la presente sentenza, dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, troverà applicazione alle ipotesi in cui l’attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, comprese quelle in cui sia pendente un procedimento giurisdizionale finalizzato a tale scopo.
Il cognome, infatti, una volta assunto, incarna in sé il nucleo della nuova identità giuridica e sociale, il che comporta che possibili vicende che incidano sullo status filiationis o istanze di modifica dello stesso cognome siano regolate da discipline distinte rispetto a quelle relative al momento attributivo.
Eventuali richieste di modifica del cognome, salvo specifici interventi del legislatore, non potranno, dunque, che seguire la procedura regolata dall’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, come sostituito dall’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 54 del 2012.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede, con riguardo all’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 262, primo comma, e 299, terzo comma, cod. civ., 27, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede che il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, alla nascita, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che «l’adottato assume il cognome del marito», anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
4) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui prevede che l’adottato assume il cognome degli adottanti, anziché prevedere che l’adottato assume i cognomi degli adottanti, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, raggiunto nel procedimento di adozione, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto;
5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità degli artt. 237, 262 e 299 cod. civ., dell’art. 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e degli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Potenza con l’ordinanza in epigrafe.