Gruppo Editoriale L'Espresso s.p.a., assieme a B.M. e C.C. venivano condannati al risarcimento danni per aver pubblicato un articolo diffamatorio sull'onorevole G.D.M.. Il pezzo in questione, che coinvolgeva anche lo zio, ex Presidente del Consiglio dei ministri, accusava i due di aver utilizzato un'auto blu abusivamente, con la pretesa di parcheggiare in una zona vietata alla sosta. Il parlamentare aveva risposto al suddetto articolo negando le accuse, ma la giornalista difendeva la sua posizione affermando che i due fossero stati visti dai presenti all'evento che si stava svolgendo nella zona.
I ricorrenti censurano la decisione della Corte territoriale laddove questa ha escluso l'applicabilità dell'esimente del diritto di critica ed evidenzia l'inadeguata applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in questa materia, con riferimento all'erronea valutazione dell'insussistenza del requisito della verità. I Giudici di Piazza Cavour, infatti, hanno escluso che ricorresse sia la verità delle notizie riportante, anche in forma putativa, sia un legittimo esercizio di critica politica.
La sentenza impugnata ha rilevato che non poteva in alcun modo affermarsi che G.D.M si fosse recato all'evento con un'auto di servizio messa a sua disposizione dalla Regione, e che non sussistessero elementi che potessero far propendere per la scriminante della verità putativa, in considerazione dell'insufficienza e inaffidabilità delle fonti alle quali aveva attinto la giornalista al fine della ricostruzione dei fatti, anche in considerazione di non aver adeguatamente perseverato nella ricerca della versione dei fatti che poteva rendere lo stesso G.D.M. Né aveva fatto accesso alla documentazione amministrativa esistente riguardo l'uso delle auto di servizio. Secondo il Palazzaccio la motivazione della sentenza d'appello è perfettamente coerente con il diritto di critica, in quanto nell'articolo incriminato le affermazioni rese dalla giornalista non rispondono in alcun modo a fini politici, ma sono connotate dalla finalità di arrecare disdoro alla persona di cui si parla. Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso.
Svolgimento del processo
La Spa Gruppo Editoriale l'Espresso (in seguito: GEDI Spa), A.A.e B.B. propongono ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, avverso la sentenza della Corte d'Appello di Napoli, n. 2700 dell'8/07/2021 che ha, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Avellino, n. 196 del 31/01/2019, confermato la condanna dei ricorrenti per l'articolo, ritenuto diffamatorio in danno di C.C., in data 28 agosto 2012, sulla testata - sito online L'Espresso" a firma della B.B. del L'Espresso, riducendo l'importo liquidato a titolo di risarcimento dei danni da centomila a sessantamila Euro, condannando quindi gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento, in favore di C.C., della somma complessiva di Euro 33.645,86 (comprensiva di capitale ed interessi compensativi e già detratto l'acconto di Euro 30.000,00, ricevuto in data 26 giugno 2019), oltre interessi al tasso legale dalla data della sentenza di appello, e comminando alla sola B.B. la sanzione pecuniaria di cui all'art. 12 della legge n. 47 del 8/02/1948, in misura di Euro seimila, oltre interessi al tasso legale dalla data della detta sentenza;
risponde con controricorso C.C.;
il Pubblico Ministero non ha presentato conclusioni;
entrambe le parti hanno depositato memoria per l'adunanza camerale del 23/02/2024, alla quale il ricorso è stato trattenuto per la decisione;
Motivi della decisione
Per quanto ancora rileva in questa sede la vicenda è così esposta dalla Corte territoriale (v. p. 20 e sgg. della sentenza impugnata): "I fatti oggetto del presente giudizio originano da un articolo, pubblicato il 28 agosto 2012 sulla testata telematica de "L'Espresso",
a firma di B.B., nel quale la giornalista descriveva un episodio che vedeva protagonisti, da un lato, la vigilessa del Comune di P, E.E., e, dall'altro, D.D. e C.C. La vigilessa aveva raccontato, in una lettera pubblicata, nei giorni precedenti, su "la Repubblica", che si era vista costretta a negare l'accesso, in una zona interdetta al traffico e alla sosta, ad una "auto blu", il cui autista si era qualificato come "servizio sicurezza di D.D."; conseguentemente la stessa si domandava perché l'onorevole D.D. (intendendo D.D.) avesse ancora una scorta pagata dallo Stato. Successivamente, l'agente E.E. era stata richiamata con nota disciplinare dal Sindaco del Comune di P, per aver "impedito all'agente di pubblica sicurezza dell'Onorevole D.D." lo svolgimento della sua funzione, necessitante anche l'ingresso nel tratto di strada interdetto alla normale circolazione. Premessa siffatta descrizione dell'episodio, aderente alle asserzioni della vigilessa, la giornalista B.B., nel suo scritto, affermava che "la lettera della vigilessa... in realtà contiene un'inesattezza." Nello specifico, secondo quanto riscontrato dalla stessa B.B., alla luce della normativa vigente, l'On. D.D. non aveva più la scorta dal 1994 e l'auto blu dal luglio 2011, pertanto, contrariamente a quanto riportato dalla vigilessa nella sua lettera invitata al giornale, la vettura di servizio, oggetto della contesa, era assegnata alla persona di C.C., nipote di D.D. e allora Vice Presidente della Regione Campania, e non allo zio, D.D. Inoltre, poiché la legge regionale "Campania Zero" aveva appena abolito in toto l'utilizzo dell'auto blu per tutti i componenti della Giunta, ad eccezione del Presidente, la B.B. si spingeva ad affermare che: "Insomma - per mangiare un piatto di polpette, durante una visita privata, fuori dagli impegni istituzionali - il Vice Presidente della Giunta Campana, accompagnato dall'anziano zio europarlamentare, ha utilizzato un'auto blu abusivamente. Con quella stessa vettura, il suo autista ha preteso di parcheggiare in una zona vietata alla sosta.". Con un tweet pubblicato sul proprio profilo personale, nella stessa giornata del 28 agosto 2012, la giornalista confermava la sua versione, asserendo: "fatevene una ragione: D.D. non ha la scorta, è suo nipote che abusa delle auto blu della Regione Campania". Il giorno seguente - in risposta alla replica di C.C., il quale, con una lettera di rettifica e precisazione inviata e pubblicata sul sito de "L'espresso" aveva chiarito di non aver utilizzato nell'occasione alcuna auto di servizio della Regione Campania - la giornalista difendeva le proprie "informazioni", le quali si sarebbero basate su intervista telefonica a numerosi presenti alla "Sagra della Polpetta", su dichiarazioni pubbliche, diffuse tramite Facebook, dagli stessi partecipanti ed organizzatori dell'evento, nonché su "più fonti locali", che avrebbero confermato che la berlina blu scuro era riconducibile a C.C., e non allo zio.";
ciò posto, i ricorrenti propongono i seguenti motivi di ricorso:
il primo motivo, per art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.: violazione e (o) falsa applicazione di norme di diritto e segnatamente degli artt. 21 Costituzione, 2043 cod. civ., 51 e 595 cod. pen. e 11 della legge n. 47 del 1948 in relazione ai principi elaborati della giurisprudenza in tema di legittimo esercizio del diritto di critica anche politica, censura l'affermazione decisoria della Corte territoriale laddove questa ha escluso l'applicabilità dell'esimente del diritto di critica e evidenzia, in particolare, il vizio in cui sarebbe incorsa la Corte, consistente in una inadeguata applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di critica, con riferimento all'erronea valutazione della insussistenza del requisito della verità;
il secondo motivo, per art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.: violazione e (o) falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2059 c.c. critica la sentenza d'appello laddove la Corte territoriale ha ritenuto provata la sussistenza del danno non patrimoniale in via presuntiva in carenza di ogni allegazione avversaria, senza avere la Corte svolto una preventiva valutazione circa la sussistenza di un nesso di causalità effettivamente immediato e diretto tra il danno non patrimoniale lamentato e l'articolo contestato, per non avere C.C. provato l'esistenza effettiva del danno non patrimoniale asseritamente subito, né il nesso di causalità dei presunti danni con le pubblicazioni contestate;
il terzo motivo, per art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.: violazione e (o) falsa applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di "rimozione degli articoli", critica la decisione per avere la Corte d'Appello accolto la richiesta di rimozione del 24 e del 28 agosto 2012 dagli archivi telematici delle testate giornalistiche, poiché ogni intervento di carattere definitivo operato sugli archivi anche online dei quotidiani si sostanzia in una vera e propria manomissione della memoria storica che essi rappresentano e ciò pure nel caso in cui un articolo di stampa sia dichiarato diffamatorio con sentenza definitiva in quanto seppure un brano contiene dei passaggi che sono stati dichiarati diffamatori, ciò non implica che l'intero articolo vada considerato diffamatorio o che la vicenda che ne è alla base non meriti comunque di essere diffusa e tanto vale soprattutto quando si tratta di soggetti pubblici e personalità note;
il quarto motivo, per art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.: violazione e (o) falsa applicazione dell'art. 12 legge n. 47 del 1948 censura la sentenza laddove la Corte di Appello ha accolto un motivo di appello incidentale condannando la pubblicista B.B. al pagamento della sanzione pecuniaria, in quanto la detta condanna alla sanzione pecuniaria ad opera del giudice civile presuppone necessariamente il preventivo avvenuto accertamento del reato di diffamazione e quindi il dolo dell'autore;
il primo motivo è infondato: la Corte territoriale ha, dalla pag. 19 e successive della propria motivazione, riportato tutte le circostanze del caso, come sopra testualmente riportate, ed ha quindi escluso che ricorresse sia la verità delle notizie riportate negli articoli a firma della pubblicista B.B., anche se in forma putativa, sia che vi fosse stato un legittimo esercizio del diritto di critica e segnatamente di critica politica;
in particolare la sentenza impugnata ha, con accertamento di fatto, rilevato che non poteva in alcun modo affermarsi che C.C. si fosse recato alla Sagra della Polpetta di Pratola Serra con un'auto di servizio, messa a lui a disposizione della Regione Campania e che non vi era alcun elemento che potesse far propendere per la scriminante della verità putativa, in considerazione dell'affermazione, resa alla vigilessa E.E., da un agente di polizia, peraltro munito di una paletta del Ministero dell'Interno ma su macchina diversa da quella sulla quale viaggiavano i due C.C. e D.D., circa l'essere l'agente addetto alla sicurezza dell'onorevole D.D., zio di C.C. e la circostanza che questi fosse a bordo dell'autovettura, di colore blu, sul quale era a bordo anche lo zio, in ordine all'essersi C.C. recato presso la detta sagra con un'auto di servizio, messa a disposizione dalla Pubblica Amministrazione;
la Corte territoriale ha elencato le ragioni per le quali non poteva ritenersi sussistente la scriminante della verità putativa, in considerazione dell'insufficienza e inaffidabilità delle fonti alle quali aveva attinto la B.B. al fine della ricostruzione dei fatti, anche in considerazione del non avere ella adeguatamente perseverato nella ricerca della versione dei fatti che poteva rendere lo stesso C.C. né aveva fatto accesso alla documentazione amministrativa esistente presso la pubblica amministrazione regionale circa l'uso delle auto di servizio da parte di questi;
il primo motivo, inoltre, presenta anche marcati profili di inammissibilità, in quanto carente di adeguata specificità, perché in fatto non riporta ben poco e segnatamente non dà affatto conto di quale fosse il tenore dell'articolo, della lettera della vigilessa E.E. e del messaggio twitter postato dalla pubblicista;
la motivazione della sentenza d'appello è, peraltro, anche coerente con l'ampiezza del diritto di critica, al cui esercizio, pur nell'ampia accezione disegnata da questa Corte, secondo la quale la critica politica non è soggetta ad alcun vincolo di obiettività (Cass. n. 5005 del 28/02/2017 Rv. 643139 - 01) e caratterizzandosi essa per l'asprezza dei toni (Cass. n. 14485 del 07/11/2000 Rv. 541459 - 01 - 01), è necessario il fine politico, ossia la rappresentazione della persona al quale sono riferiti i fatti quale inidonea a ricoprire cariche pubbliche, mentre nella specie le affermazioni rese dalla pubblicista B.B. non rispondono in alcun modo a fini politici, ma sono connotate dall'unica finalità di arrecare disdoro alla persona di C.C., peraltro in un momento storico connotato da un'affermazione della mancanza di valori nell'espletamento di incarichi politici;
la sentenza impugnata resiste, pertanto, alle critiche mosse con il primo motivo di ricorso;
il secondo motivo è incentrato sull'inidonea allegazione dei danni da parte di C.C.;
il compendio censorio è inadeguato, posto che la Corte territoriale ha reso ampia e specifica motivazione, alle pagg. 30 e seguenti, sulle allegazioni effettuate sin dal primo grado di giudizio dal D.D. e sulle conseguenze che la pubblicazione, a stampa e on line, arrecava alla reputazione dell'uomo politico e della persona in sé, in considerazione della diffusione del quotidiano, di ampio livello nazionale, e non solo regionale, sul quale le notizie riportate nei due articoli in questione erano contenute, ponendo in risalto la particolare diffusività delle notizie, in quanto appunto, destinate a replicarsi "a cascata" a mezzo dei motori di ricerca informatici e il particolare momento storico, posto che gli articoli erano stati pubblicati a ridosso delle elezioni politiche del 2013, alle quali C.C. si sarebbe candidato;
la Corte ha, quindi, a seguito dell'accertamento della portata lesiva degli articoli, proceduto ad autonoma liquidazione del danno, richiamando la graduazione di cui alle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano e riducendo - anche in tal caso offrendo ampia motivazione - del quaranta per cento l'originaria posta risarcitoria, portata dai centomila Euro liquidati dal Tribunale ai sessantamila di cui alla statuizione d'appello, procedendo ad analitico scomputo della somma già corrisposta e al computo degli interessi;
il secondo motivo è, pertanto, disatteso;
il terzo motivo, vertente sulla richiesta di rimozione dall'archivio delle testate giornalistiche, che la Corte territoriale ha disatteso, richiamando specificamente la giurisprudenza di legittimità in materia di prevalenza del diritto alla conservazione delle notizie su quello all'oblio, nelle ipotesi di illiceità della notizia, secondo la quale (Cass. n. 10347 del 20/04/2021, non massimata, in motivazione pagg. 25 - 27): "l'elemento, per così dire, "unificante" tutte le ipotesi in cui viene in rilievo il conflitto tra il diritto della persona all'oblio di notizie che la riguardino ed il contrapposto interesse alla conservazione delle stesse in archivi informatici, è costituito dalla liceità dell'iniziale pubblicazione. All'opposto, nel presente caso, tale presupposto difetta, essendo stata la notizia ritenuta diffamatoria" è infondato, per le stesse ragioni di cui alla richiamata pronuncia di questa Corte, atteso che, anche nella fattispecie concreta all'esame, è stata ritenuto il carattere diffamatorio delle notizie di cui agli articoli del 24 e del 28 agosto 2012, entrambi a firma della pubblicista B.B. ed editi su quotidiani o sul sito on line de La Repubblica e de L'Espresso;
a tanto consegue che, intendendo il Collegio dare seguito al richiamato precedente di questa Corte, il motivo all'esame non merita favorevole seguito, atteso che le notizie, anche nella fattispecie qui in concreto ricorrente, sono state, per le ragioni esposte in relazione al primo motivo di ricorso e conformemente alla motivazione della sentenza impugnata, ritenute diffamatorie;
il terzo motivo è, pertanto, infondato;
l'ultimo motivo pure è infondato: la sanzione di cui all'art. 12 della legge n. 47 del 1948, cd. legge sulla stampa, è stata comminata, in accoglimento di un motivo di appello incidentale di C.C., alla sola giornalista B.B. in regione della portata diffamatoria, ampiamente motivata, delle notizie e l'entità della sanzione è commisurata a quella del risarcimento in ragione di un decimo;
la motivazione della sentenza d'appello è, peraltro, in linea con l'affermazione di questa Corte (Cass. n. 16054 del 29/07/2015 Rv. 636182 - 01) secondo cui) la sanzione pecuniaria, prevista dall'art. 12 della legge n. 47 del 1948, nell'ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, si aggiunge, senza sostituirsi al risarcimento del danno causato dall'illecito diffamatorio, e presuppone la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione, sicché non può essere comminata alla società editrice e può esserlo, invece, al direttore responsabile, purché la sua responsabilità sia dichiarata per concorso doloso nel reato di diffamazione e non per omesso controllo colposo della pubblicazione;
nella specie la Corte territoriale ha escluso che il direttore responsabile, nella persona di F.F., potesse essere ritenuto responsabile a titolo di concorso nel reato di diffamazione e lo ha ritenuto, viceversa, responsabile del reato di omesso controllo ai sensi dell'art. 57 cod. pen., comminando, pertanto, la sanzione alla sola pubblicista, in capo alla quale la Corte di merito ha ritenuto configurabile il reato di diffamazione (v. p. 22 e p. 44 della sentenza impugnata);
a tanto consegue che il ricorso è infondato con riferimento a tutte le prospettazioni censorie;
il ricorso è, pertanto, rigettato;
le spese di lite seguono la soccombenza dei ricorrenti e valutata l'attività processuale espletata, in relazione al valore della controversia, sono liquidate come da dispositivo e distratte in favore del difensore del controricorrente, che ha reso la dichiarazione di cui all'art. 93, cod. proc. civ.;
la decisione di rigetto dell'impugnazione comporta che deve attestarsi, ai sensi dell'art. 13, comma 1, quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell'avvocato (omissis).
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.