Secondo la Cassazione, occorre accertare almeno i tentativi di reperire un'occupazione durante il periodo ultradecennale ove il figlio non ha sostenuto esami, non potendo giustificare la difficoltà di trovare un lavoro con la sola crisi economica generata dalla pandemia.
Il Tribunale di Lecce dichiarava la separazione personale dei coniugi, determinando una somma pari a 500 euro a titolo di mantenimento per il figlio maggiorenne ma non ancora economicamente autosufficiente a carico del padre.
Pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio, lo stesso Tribunale accertava il diritto al mantenimento del...
Svolgimento del processo
C. S. ha contratto matrimonio concordatario con P.A. M. in P. (LE) il (omissis), dal quale è nato il figlio M. il (omissis).
Con sentenza n. 395/2017, il Tribunale di Lecce, dichiarava la separazione personale dei coniugi, statuendo a carico del ricorrente l’obbligo di versare alla moglie la somma di € 350,00 a titolo di mantenimento di quest’ultima e la somma di € 500,00 a titolo di mantenimento del figlio, maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, oltre al pagamento del 70% delle spese straordinarie riferite a quest’ultimo.
A seguito di ricorso del C., nel contraddittorio delle parti, il medesimo Tribunale di Lecce, con sentenza n. 2344/2022, pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio, accertava il diritto all’assegno di divorzio in favore della P. e prevedeva un contributo al mantenimento del figlio a carico del padre di € 350,00 mensili, oltre al 70% delle spese straordinarie, mantenendo l’assegnazione della casa familiare alla P., ancora convivente con il figlio.
Avverso tale sentenza proponeva appello il C., chiedendo la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio e di quello di divorzio per l’ex coniuge.
Con sentenza n. 215/2023, la Corte di appello di Lecce, nel contraddittorio delle parti, respingeva la richiesta di revoca di entrambi gli assegni, riducendo quello dovuto per il mantenimento del figlio ad € 200,00 mensili, a decorrere dalla data della pronuncia di appello.
Con riferimento all’assegno divorzile, la Corte di merito esaminava la situazione esistente al tempo della separazione, evidenziando che, a seguito dell’istruttoria svolta, non era emerso un mutamento della situazione reddituale della P., che continuava a non svolgere stabile attività lavorativa, salvo qualche sporadica lavorazione all’uncinetto o l’esecuzione di disegni su stoffa.
La Corte riteneva che quest’ultima, oramai sessantenne, non era economicamente autosufficiente, in quanto priva di occupazione e di esperienze lavorative pregresse, aggiungendo che non era stata fornita la prova di redditi da lavoro o da pensione da lei percepiti e che, tenuto conto anche della lunga durata del matrimonio, contratto nel 1988, era emerso nel corso del giudizio che la principale occupazione di quest’ultima era stata la gestione del ménage familiare. Secondo la Corte, inoltre, oltre che dall’età e dalla mancata esperienza lavorativa, la capacità lavorativa della donna era compromessa anche da una spondilodiscoartrosi certificata in atti.
Quanto alla posizione reddituale del C., la Corte di merito, come pure il giudice di primo grado, riteneva non credibili le dichiarazioni della parte - che svolgeva attività libero-professionale, destinata alla creazione di software in uso alle agenzie automobilistiche – la quale aveva dedotto di avere subito una significativa riduzione delle entrate anche in ragione della crisi di mercato. Secondo la Corte, difficilmente poteva credersi che l’attività del C. fosse entrata in crisi nel modo drastico descritto, attesa l’informatizzazione globale di ogni settore economico, e anche le dichiarazioni dei redditi prodotte - che riportavano una flessione molto significativa dei guadagni – non erano attendibili. Da tali dichiarazioni emergeva per l’anno di imposta 2015 un reddito complessivo di € 13.291,00, per l’anno 2016 un reddito complessivo di € 9.483,00, per l’anno 2017 quello irrisorio di € 1.553,00, anche se il C. aveva specificato che era stato preso in considerazione, quale reddito imponibile, solo l’importo relativo al quadro RN rigo RN1 della dichiarazione dei redditi, che andava sommato, al fine di determinare il reddito totale imponibile, al quadro LM rigo LM22 col. 5 (€ 7.841,00), relativo alla parte imponibile della tassazione sostitutiva, per un totale di € 9.394,00. Dall’indagine della Guardia di Finanza, infatti, era emerso che dal modello unico 2019 – anno d’imposta 2018 - veniva indicato un reddito lordo pari ad € 8.074,00 e un reddito netto pari ad € 5.240,00. Tuttavia, a seguito di indagine, per l’anno di imposta 2018 risultavano esposte anche somme non soggette a ritenute, di importo pari ad € 10.096,48, € 612,00 ed euro 612,00. Inoltre, la Corte rilevava che, nonostante i redditi dichiarati risultassero così esigui, il C. non aveva mancato di provvedere al versamento degli assegni, riconosciuti già in sede di separazione sia in favore della moglie che del figlio.
La medesima Corte, dunque, tenuto conto della durata del matrimonio ultraventennale, delle condizioni economiche delle parti, per come ricostruite, della capacità economiche delle stesse, del contributo personale ed economico alla conduzione familiare della P., riteneva di dover confermare la previsione di un assegno divorzile in favore di quest’ultima, nella misura fissata in € 350,00 mensili, da rivalutare annualmente secondo indici ISTAT a far data dalla sentenza di separazione.
Quanto al contributo per il mantenimento del figlio da tempo maggiorenne, convivente con la madre presso la casa coniugale, la Corte d’appello riteneva che la persistenza o meno dell'obbligo di mantenimento del genitore nei confronti del figlio dovesse essere ancorata non al parametro temporale della maggiore età, bensì a quello del raggiungimento dell'autosufficienza economica, con la precisazione che era sufficiente a far venir meno l'obbligo del mantenimento la percezione di entrate (anche derivanti da un lavoro non stabile) o il possesso di un patrimonio tali da garantire un reddito corrispondente alla professionalità acquisita e un'appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, che fossero adeguati alle attitudini e aspirazioni del figlio.
Sulla base di tali presupposti, la Corte riteneva incontestata la circostanza che, nella specie, il ragazzo, ormai ultratrentenne, risultasse privo di occupazione lavorativa e che non avesse mai raggiunto una piena indipendenza economica. Egli aveva più volte cambiato percorso di studi, dapprima presso la facoltà di fisica di Lecce, per poi abbandonare ed iniziare un nuovo percorso a Pisa con scarsi risultati. Durante il soggiorno nella città di Pisa, aveva cercato di inserirsi nel mondo del lavoro, prestando attività presso la Croce Rossa, senza ottenere risvolti in termini di stabilità lavorativa. Nel febbraio 2020, il figlio delle parti aveva preso la decisione di lasciare Pisa ed era rientrato a Taviano, dove viveva con la madre nella casa coniugale, ma aveva avuto difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro, attesa la crisi epidemiologica (che aveva influito negativamente sul mercato del lavoro) e, in un secondo momento, a causa di un infortunio, che aveva comportato la necessità di un intervento chirurgico per la frattura del malleolo peroneale destro, come documentato da certificato medico rilasciato dall’Ospedale di Galatina, con una prognosi di giorni sessanta.
Alla luce di tali difficoltà di inserimento lavorativo, considerato, tuttavia, che l’età di M. imponeva a quest’ultimo la ricerca di una attività lavorativa, tenuto conto anche che la crisi pandemica poteva ritenersi superata, la Corte d’appello confermava l’obbligo in capo al C. di contribuire al mantenimento del figlio ma, in considerazione dell’età di quest’ultimo, ultratrentenne, e delle pregresse esperienze che gli avevano consentito di raggiungere una parziale autonomia lavorativa, aveva ridotto la misura del contributo ad € 200,00 mensili a far data dalla pronuncia di appello, invariata la quota già fissata dal primo giudice di contribuzione alle spese straordinarie, attesa la discrasia delle disponibilità economiche delle parti.
Avverso tale pronuncia C. S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
L’intimata si è difesa con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria difensiva.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso sono formulate le seguenti censure:
«Nullità e/o erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 898/1970, degli artt. 2, 3 e 29 Cost., dell’art. 143 c.c. e dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 4 c.p.c.» «Nullità della sentenza per mancanza della motivazione e/o motivazione apparente come previsto dall’art. 132 c.p.c. n. 4 in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 c.p.c.» «Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.» «Assegno di natura assistenziale - Mancata prova sulla inadeguatezza dei redditi e sull’impossibilità di procurarseli (incapacità a lavorare).»
2. Con il secondo motivo di ricorso sono formulate le seguenti censure:
«Nullità e/o erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 898/1970, degli artt. 2, 3 e 29 Cost., dell’art. 143 c.c. e dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 4 c.p.c.» «Nullità della sentenza per mancanza della motivazione e/o motivazione apparente come previsto dall'art. 132 c.p.c. n. 4 in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 c.p.c.» «Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.» «Assegno di natura perequativo compensativa - mancato assolvimento all’onere probatorio in capo al coniuge richiedente l’assegno divorzile circa l’assenza di un reddito per essersi dedicato al menage familiare e, quindi, aver sacrificato aspettative professionali o lavorative nell’interesse della famiglia; assenza di valutazione comparativa delle condizioni economico- patrimoniali delle parti, alla luce della prova necessaria a dimostrare il contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune e/o di quello personale del coniuge - Presenza, al contrario, di un lavoro e di un conseguente reddito del coniuge beneficiario.»
3. Con il terzo motivo di ricorso sono formulate le seguenti censure: «Nullità e/o erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 898/1970, degli artt. 2, 3 e 29 Cost., dell’art. 143 c.c. e dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 4 c.p.c.» «Nullità della sentenza per mancanza della motivazione e/o motivazione apparente come previsto dall’art. 132 c.p.c. n. 4 in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 c.p.c.» «Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.» «Errata lettura ed interpretazione delle dichiarazioni dei redditi e delle indagini della Guardia di Finanza - drastica riduzione del reddito del ricorrente - Assenza di un disequilibrio patrimoniale e/o reddituale tra gli ex coniugi - disparità e diseguaglianza tra le parti in ordine all’applicazione, quali prove, delle presunzioni.»
4. Con il quarto motivo di ricorso sono formulate le seguenti censure: «Violazione artt. 147, 148, 315 bis, 316 bis, 337 bis e 337 septies c.c., artt. 115, 116 e 132 c.p.c. e art. 2697 c.c.. in relazione all’art. 360 primo comma nn. 2, 3, 4 e 5 c.p.c.» «Motivazione apparente e gravemente contraddittoria, violazione delle norme e dei principi fissati dalla Suprema Corte in subiecta materia; stravolgimento del thema decidendum (petitum e causa petendi) con l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio.»
5. L’eccezione di inammissibilità del primo motivo, formulata dalla controricorrente, è fondata.
5.1. Com’è noto, in tema di ricorso per cassazione, costituisce ragione d'inammissibilità l'articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza, quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le censure, anche se cumulate, essere espresse in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d'impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 26790/2018; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 7009/2017; v. anche Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 36881/2021).
L'inammissibilità della censura per sovrapposizione di motivi di impugnazione eterogenei, riconducibili alle diverse ipotesi contemplate dall'art. 360, comma 1, c.p.c. può essere superata solo se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l'esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass., Sez. U, Sentenza n. 9100/2015; v. da ultimo Cass., Sez. 1, Sentenza n. 39169/2021).
Il ricorso per cassazione deve, infatti, essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell'intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte, o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell'ambito della tipologia dei vizi elencata dall'art. 360 c.p.c.
Ovviamente, l'inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l'intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c. (Cass., Sez. U, Ordinanza n. 37552 del 30/11/2021; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4300 del 13/02/2023)
5.2. La giurisprudenza appena menzionata si è formata durante la vigenza dell’art. 366 c.p.c., nel testo precedente a quello attuale, introdotto dal d.lgs. n. 149 del 2022, applicabile ai ricorsi per cassazione promossi dopo il 01/01/2023, che ha confermato l’orientamento interpretativo appena richiamato.
Com’è noto, infatti, il novellato art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., già operante nel presente procedimento, prevede che «il ricorso deve contenere, a pena d’inammissibilità: … 4) la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano».
Nella relazione illustrativa al d.lgs. cit. viene evidenziato che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica rigidamente vincolata e delimitata, in cui i motivi hanno la funzione di porre questioni, che costituiscono l’unico oggetto del giudizio, in quanto sostitutive delle domande e delle eccezioni. Il ricorrente ha dunque l’onere di individuare il motivo – nel novero di quelli elencati nella disposizione – che deve essere in modo chiaro ricondotto ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dall’art. 360 c.p.c., quali ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito, poiché la Corte di cassazione deve poter agevolmente individuare il vizio denunciato, sulla base delle chiare enunciazioni in fatto ed argomentazioni giuridiche svolte dal ricorrente. A questo fine, il legislatore delegato ha richiamato i requisiti della chiarezza e della sintesi, fra di loro indubbiamente collegati, ma autonomi, poiché un testo chiaro si rende univocamente intellegibile, laddove la sinteticità evita ripetizioni e prolissità, esse stesse foriere del rischio di confusione.
5.3. Come emerge dalla lettura della rubrica del primo motivo di ricorso, sopra riportata, il C.ha formulato, con esso, cumulativamente plurime censure, ricondotte ai numeri 3, 4 e 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. (violazione di numerose norme di diritto sostanziale, assenza e apparenza di motivazione, violazione delle disposizioni che regolano la valutazione e il riparto dell’onere della prova).
A tale rappresentazione non segue, tuttavia, la chiara e ordinata illustrazione di ogni specifica ragione di doglianza in riferimento a ciascuno dei parametri invocati a supporto dell’impugnazione, rendendo in questo modo il motivo inammissibile in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
5.4. D’altronde, il motivo si risolve in diffuse critiche alla sentenza impugnata, che non è condivisa nella parte in cui il giudice ha ritenuto sussistente l’inadeguatezza dei redditi della controricorrente e l’incapacità di procurarseli, deducendo la violazione delle norme che regolano l’attribuzione dell’assegno divorzile, oltre che le regole di riparto dell’onere della prova, ma le censure si sostanziano in una non condivisione della valutazione delle risultanze istruttorie, che comporta una rivalutazione delle risultanze in fatto inammissibile in sede di legittimità di merito.
Anche laddove è dedotto il vizio della motivazione è evidente che non è prospettata la totale assenza di motivazione, e cioè la assoluta incomprensibilità della ratio decidendi (unica censura alla motivazione consentita a seguito delle modifiche apportate all’art. 360 c.p.c. dal d.l. n. 83 del 2013, conv. con modif. in l. n. 134 del 2012), ma soltanto la non condivisione della decisione adottata, esistente e riportata dal ricorrente nell’illustrazione del motivo, ma non condivisa e ritenuta non soddisfacente dalla parte.
6. Il secondo motivo è inammissibile.
6.1. Anche in questo caso, come eccepito dalla controricorrente, il C. ha denunciato cumulativamente con unico articolato motivo plurimi vizi, senza illustrare in modo chiaro e distinto ciascuno di essi.
E, in effetti, come emerge dalla lettura della rubrica del primo motivo di ricorso, sopra riportata, il C. ha formulato, con esso, cumulativamente plurime censure, ricondotte ai numeri 3, 4 e 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. (violazione di numerose norme di diritto sostanziale, assenza e apparenza di motivazione, violazione delle disposizioni che regolano la valutazione e il riparto dell’onere della prova).
Nella commistione indistinta di contestazioni inerenti le valutazioni in fatto delle risultanze istruttorie, semplicemente non condivise dal ricorrente (in ordine allo svolgimento di attività lavorativa a domicilio da parte della ex moglie), con critiche in fatto non ammesse in sede di legittimità, e astratte ricostruzioni in diritto riguardanti la disciplina dell’assegno divorzile, e il relativo riparto dell’onere della prova, può comunque estrapolarsi la censura con cui il C. ha criticato la decisione, in quanto asseritamente fondata su motivazione apparente, oltre che gravemente errata e illegittima, nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che dalla mancanza di redditi e dalla durata del matrimonio emergeva come la P. si fosse principalmente occupata della gestione del ménage familiare, per poi aggiungere che l’assegno di divorzio si giustificava anche in funzione compensativa del coniuge più debole per le aspettative professionali sacrificate, per aver dato, su accordo delle parti, un decisivo contributo alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge.
Secondo il ricorrente si tratta di una motivazione inaccettabile, in quanto, il termine “emergeva” utilizzato dalla Corte territoriale, non faceva riferimento ad una pur minima prova da cui era emerso che la Parlati si fosse curata esclusivamente del ménage familiare, così sacrificando aspettative professionali o lavorative e ancor meno era emersa una prova circa un accordo dei coniugi che aveva dato luogo alla predetta situazione. È, tuttavia, evidente che la critica, lungi dal prospettare un difetto assoluto di motivazione, o una incomprensibilità della ratio sottesa non ha condiviso la valutazione presuntiva operata dalla Corte di merito, chiaramente motivata e del tutto ammissibile (v. in proposito Cass., Sez. 1, Sentenza n. 35434 del 19/12/2023).
7. Il terzo motivo è inammissibile per le stesse ragioni già illustrate con riferimento al primo motivo di ricorso.
7.1. Come emerge dalla lettura della rubrica del motivo, sopra riportata, il C. ha formulato, con esso, cumulativamente plurime censure, ricondotte ai numeri 3, 4 e 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. (violazione di numerose norme di diritto sostanziale, assenza e apparenza di motivazione, violazione delle disposizioni che regolano la valutazione e il riparto dell’onere della prova).
A tale rappresentazione non segue, tuttavia, la chiara e ordinata illustrazione di ogni specifica ragione di doglianza in riferimento a ciascuno dei parametri invocati a supporto dell’impugnazione, rendendo in questo modo il motivo inammissibile in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c.
7.2. Le censure, peraltro, come sopra argomentate con una unitaria e indistinta illustrazione, si sostanziano in una non condivisione delle valutazioni operate dal giudice di merito delle risultanze istruttorie, cui la parte ha contrapposto le proprie, invocando dal giudice di legittimità un inammissibile riesame del giudizio di fatto.
8. Il quarto motivo di ricorso risulta fondato, nei limiti in cui è dedotta la violazione di legge in ordine all’onere della prova gravante sulla parte che chieda la revoca del contributo al mantenimento del figlio maggiorenne ma non autosufficiente economicamente.
8.1. Parte ricorrente, per quanto di rilievo, ha evidenziato che il figlio M., nato nel 1988, era stato iscritto per quattordici anni l’Università e aveva sostenuto un solo esame, rilevando che tale circostanza era sufficiente per revocare l’assegno di mantenimento, aggiungendo, inoltre, che la controparte non aveva fornito alcuna prova in ordine al compimento di seri tentativi del figlio di collocarsi utilmente nel mondo del lavoro.
8.2. Questa Corte ha di recente affermato, in tema di mantenimento del figlio maggiorenne privo di indipendenza economica, che l'onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento, anche nel caso in cui sia richiesta la revoca del contributo in precedenza disposto, è a carico del richiedente, vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica o di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un lavoro (così Cass., Sez. 1, Sentenza n. 26875 del 20/09/2023).
Ai fini dell’accoglimento della domanda, così come del permanere dell’obbligo a fronte dell’istanza di revoca dello stesso da parte del genitore, è onere del richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza economica – precondizione del diritto preteso – ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione, professionale o tecnica, e di essersi con pari impegno attivato nella ricerca di un lavoro.
Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito che, per essere vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto al mantenimento ulteriore.
L’onere della prova è, comunque, tanto più lieve per il figlio, quanto più prossima è la sua età a quella di un recente maggiorenne, potendosi presumere la necessità di un adeguato periodo di cognizione del (e preparazione al) mercato del lavoro.
Ovviamente, qualora sia stato emesso dal giudice il provvedimento che prevede il contributo al mantenimento del figlio, quando quest’ultimo era ancora minorenne, tale provvedimento resta valido ed efficace con il raggiungimento della maggiore età del figlio.
Se, poi, ne è chiesta la revoca, l’onere della prova della sussistenza dei presupposti per il mantenimento di tale assegno è particolarmente agevole qualora il figlio abbia appena compiuto la maggiore età, ed anche negli immediati anni a seguire, se il ragazzo ha intrapreso un percorso di studi, già questo integrando la prova presuntiva del compimento del giusto sforzo per meglio avanzare verso l’ingresso nel mondo adulto.
La prova della spettanza dell’assegno diventa più gravosa man mano che l’età del figlio aumenta, fino a diventare un “adulto”, dovendosi valutare, in ragione del principio dell’autoresponsabilità, caso per caso, se può ancora pretendere di essere mantenuto, anche con riguardo alle scelte di vita fino a quel momento operate e all’impegno realmente profuso nella ricerca, prima, di una idonea qualificazione professionale e, poi, di una collocazione lavorativa (così Cass., Sez. 1, Sentenza n. 26875 del 20/09/2023).
8.3. Nel caso di specie, la Corte di merito ha ritenuto chiusa la lunga fase di formazione universitaria del figlio delle parti, peraltro senza il conseguimento di alcun risultato, ed ha considerato incontestata la circostanza che il figlio M., ormai ultratrentenne, fosse privo di occupazione lavorativa e non avesse mai raggiunto una piena indipendenza economica.
A questo punto, la Corte avrebbe dovuto accertare che il figlio, nonostante non avesse più sostenuto esami universitari, in tutti questi anni avesse invano cercato una utile collocazione nel mondo del lavoro, mentre, invece, tale accertamento non è stato fatto e si è accontentata di ritenere esistenti e giustificate difficoltà di inserimento lavorativo negli ultimi tempi (imputate alla crisi economica e di mercato, causata dalla recente emergenza epidemiologica, e a un recente intervento chirurgico), senza neppure accertare se tentativi vi erano comunque stati.
9. In conclusione, deve essere accolto il quarto motivo di ricorso e, dichiarati inammissibili gli altri, la sentenza impugnata deve essere cassata, nei limiti dei motivi accolto, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione, chiamata a statuire anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
10. In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella decisione, a norma dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
la Corte accoglie il quarto motivo di ricorso e, dichiarati inammissibili gli altri, cassa il decreto impugnato, nei limiti del motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione, chiamata a statuire anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.