Nel silenzio del Legislatore, il faro resta la sentenza n. 242/2019 che richiede, tra i requisiti per poter accedere al suicidio assistito, anche la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale. Tuttavia, alcune precisazioni sono doverose, in primis il fatto che tutti i requisiti devono essere accertati dal SSN.
Con la sentenza n. 135 del 18 luglio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Firenze in relazione all'art. 580 c.p. ai fini dell'estensione della non punibilità del suicidio assistito oltre i confini stabiliti dalla Consulta nella precedente sentenza n. 242/2019. Nello specifico, il GIP chiedeva ai Giudici di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale poiché ritenuto in contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza, di autodeterminazione terapeutica e di dignità della persona, oltre che con il diritto al rispetto della vita privata racchiuso nella CEDU.
Ebbene, la Corte costituzionale si è espressa come di seguito:
1. Il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non determina un'irragionevole disparità di trattamento tra pazienti
: la sentenza n. 242/2019 non ha infatti riconosciuto un generale diritto di porre fine alla propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile dovuta ad una patologia irreversibile, ma ha solamente ritenuto irragionevole precludere l'accesso al suicidio assistito per i pazienti che, trovandosi in quelle condizioni e mantenendo ancora intatte le proprie capacità decisionali, già vi abbiano diritto ai sensi della
2. Ciascun paziente ha un diritto costituzionale di rifiutare le cure mediche non imposte dalla legge, anche qualora esse siano necessarie ai fini della sopravvivenza . Tuttavia, tale diritto deve essere bilanciato con il dovere di tutelare la vita umana, allo scopo di evitare non solo possibili abusi, ma anche la creazione di una sorta di pressione sociale indiretta tale da indurre i pazienti a scegliere di morire per non essere un peso per la propria famiglia o per terzi. In tal senso, il compito di individuare un punto di equilibrio tra il diritto all'autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al Legislatore.
3. Quanto alla nozione “soggettiva” di dignità, essa finisce per coincidere con quella di autodeterminazione . Per questo anche rispetto ad essa è necessario operare un bilanciamento con il contrapposto dovere di tutelare la vita umana.
4. Venendo alla nozione di “trattamenti di sostegno vitale” : la Corte richiama anzitutto la recentissima sentenza della Corte EDU del 13 giugno 2024 nel caso K. Contro Ungheria, ove i Giudici hanno riconosciuto un ampio margine di apprezzamento ai singoli Stati contraenti in sede di bilanciamento tra il diritto alla vita privata e la tutela della vita umana. Ebbene, la Consulta ha evidenziato che la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal SSN e dai giudici comuni in conformità a quanto stabilito dalla sentenza n. 242/2019, dunque dovrà basarsi sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul suo corpo, ivi incluse tutte quelle procedure che possono essere apprese anche dai familiari o dai caregivers che assistono il paziente, come l'evacuazione manuale o l'inserimento di cateteri, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in breve tempo.
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In tale contesto la Corte ha altresì sottolineato che non c'è distinzione ai fini dell'accesso al suicidio assistito tra la situazione del paziente già sottoposto ai trattamenti di cui sopra di cui può chiedere l'interruzione e quella dei pazienti che non vi sono ancora sottoposti ma che ne hanno la necessità per sostenere le funzioni vitali. |
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In ossequio a quanto stabilito dalla storica sentenza n. 242/2019, per tutti i fatti successivi a tale anno, le condizioni e le modalità di esecuzione dell'aiuto al suicidio devono essere verificate dalle strutture pubbliche del SSN nell'ambito della “procedura medicalizzata” di cui alla |
5. Per concludere, la Corte costituzionale rinnova l'auspicio affinchè il Legislatore e il SSN garantiscano concreta attuazione ai principi fissati con la precedente pronuncia del 2019, ferma restando la possibilità che il Legislatore intervenga con una disciplina ad hoc. La Consulta sottolinea altresì la necessità di garantire a tutti i pazienti l'effettiva possibilità di accedere alle cure palliative appropriate.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 1° luglio 2024) 18 luglio 2024, n. 135
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 17 gennaio 2024, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019» di questa Corte, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere, all’esito dell’udienza in camera di consiglio fissata ai sensi dell’art. 409 del codice di procedura penale, sulla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze nel procedimento penale che vede indagati M. C., C. L. e F. M. per il delitto di cui all’art. 580 cod. pen., «per avere organizzato e poi materialmente eseguito l’accompagnamento di [M. S.] presso la clinica svizzera dove, [l’8 dicembre 2022], lo stesso è deceduto in seguito a procedura di suicidio assistito».
Riferisce il rimettente che, in base alle pacifiche risultanze delle indagini preliminari, svolte a seguito di autodenuncia degli stessi indagati, a M. S. era stata diagnosticata nel 2017 la sclerosi multipla, patologia del sistema nervoso centrale che provoca una progressiva invalidità del paziente. Dopo l’esordio dei primi sintomi lievi, il quadro clinico era rimasto stazionario per alcuni anni, sino a che, sul finire del 2021, si era avuto un significativo e rapido peggioramento delle condizioni di vita del paziente. M. S. aveva dapprima manifestato difficoltà nella deambulazione, poi aveva avuto bisogno della sedia a rotelle e già ad aprile 2022 era rimasto definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoché totale immobilizzazione anche degli arti superiori, salva una residua capacità di utilizzazione del braccio destro.
Secondo quanto dichiarato dal padre, nel 2021 M. S. aveva iniziato a maturare il proposito di porre fine alla sua vita, per ragioni legate alla patologia di cui soffriva. Tramite ricerche svolte in autonomia su internet, era venuto a conoscenza dell’esistenza di associazioni che offrono supporto ai pazienti interessati ad accedere alla procedura di suicidio assistito all’estero, e in questo modo era entrato in contatto con l’indagato M. C.
Nel 2022, in corrispondenza con il grave deterioramento delle sue condizioni di salute, il proposito di M. S. si era trasformato in ferma determinazione. Egli aveva preso quindi contatto con una organizzazione elvetica, avvalendosi dell’intermediazione di C., che agiva quale legale rappresentante dell’associazione di soccorso da lui fondata, la quale si era fatta carico anche di alcuni costi della procedura, tra cui le spese di trasporto del malato in Svizzera, tramite noleggio di un furgone.
M. S. aveva raggiunto il territorio elvetico il 6 dicembre 2022 a bordo del mezzo, guidato a turno dalle indagate C. L. e F. M. Il rimettente riferisce anche che, il giorno successivo, presso la struttura «Dignitas», si erano svolti «colloqui e visite con diversi medici, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l’accesso alla procedura in termini compatibili con la legge elvetica». M. S. aveva avuto la possibilità di confrontarsi anche con i familiari giunti fin lì, resistendo ai loro tentativi di dissuaderlo dal proposito di darsi la morte.
La procedura si era conclusa l’8 dicembre 2022: alla presenza del padre, della sorella e delle due indagate, M. S. aveva confermato definitivamente la sua volontà e, utilizzando il braccio che ancora poteva controllare, aveva assunto per via orale un farmaco letale, spirando dopo pochi minuti.
1.2.– Tanto premesso, il giudice a quo ritiene che la richiesta di archiviazione della Procura non possa essere allo stato accolta.
1.2.1.– A parere del rimettente, la condotta degli indagati rientrerebbe senz’altro nella sfera applicativa dell’art. 580 cod. pen., e in particolare della fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio. Sarebbe questa, in effetti, l’unica ipotesi configurabile tra quelle descritte dalla norma incriminatrice, non essendovi elementi che consentano di muovere addebiti agli indagati per la distinta fattispecie dell’istigazione al suicidio, né sotto il profilo della determinazione del relativo proposito – concepito da M. S. in modo autonomo – né sotto quello del suo rafforzamento. C. si era, infatti, limitato inizialmente a fornire informazioni a titolo “consultivo”, indicando le soluzioni percorribili, e aveva messo a disposizione i suoi contatti con la Svizzera solo quando il proposito di M. S. era già compiutamente maturato. Lo stesso dovrebbe dirsi per le altre due indagate, le quali erano intervenute solo quando la risoluzione del malato risultava già ferma.
La rilevanza penale della condotta degli indagati si legherebbe, pertanto, unicamente alla cooperazione materiale alla realizzazione del suicidio. Con riguardo a questa, non potrebbe essere, peraltro, condivisa la tesi della Procura, volta ad escludere la tipicità del fatto sulla base di una interpretazione restrittiva, sia del concetto di agevolazione dell’altrui suicidio, sia del criterio di rilevanza causale di tale condotta rispetto all’evento.
La formulazione letterale dell’art. 580 cod. pen., nella parte in cui punisce chiunque «agevola in qualsiasi modo l’esecuzione» dell’altrui suicidio, imporrebbe, infatti, di attribuire rilievo a ogni condotta di terzi che, secondo i consueti criteri di accertamento della causalità, si ponga quale antecedente necessario rispetto alla morte del suicida. Il verbo “agevolare”, meno stringente di “causare”, lungi dal legittimare letture restrittive, si presterebbe anzi a qualificare penalmente anche le semplici facilitazioni, non costituenti condicio sine qua non dell’evento; mentre la locuzione «in qualsiasi modo» rivelerebbe in maniera incontestabile l’intento legislativo di imprimere alla fattispecie la massima latitudine.
Né potrebbe trarsi argomento in senso contrario dalla circostanza che l’art. 580 cod. pen. collega l’agevolazione non al suicidio, ma alla sua «esecuzione». Ciò si spiegherebbe in quanto la figura criminosa presuppone che l’evento lesivo sia riferibile a un’azione della persona titolare del bene della vita, che su di essa conserva il proprio “dominio”: onde sarebbe consequenziale che la condotta tipica abbia, come termine di relazione causale immediata, non la morte, ma l’esecuzione del suicidio, che resta appannaggio del suicida stesso.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura, la tipicità del fatto non potrebbe essere esclusa neppure facendo leva sulla distanza cronologica della condotta del terzo dal suicidio o sulla “fungibilità” della condotta stessa. Secondo i postulati della teoria condizionalistica, il giudizio controfattuale che esprime la causalità ha come termine di riferimento l’evento concreto storicamente verificatosi: sicché, nella specie, le condotte di tutti e tre gli indagati si porrebbero come antecedenti causali necessari del suicidio di M. S., posto che in loro assenza la morte di quest’ultimo non sarebbe avvenuta «lì e allora».
1.2.2.– A parere del rimettente, la condotta degli indagati non rientrerebbe neppure nell’ipotesi di non punibilità introdotta nell’art. 580 cod. pen. dalla sentenza n. 242 del 2019 di questa Corte. Mancherebbe, infatti, uno dei requisiti cui essa è subordinata: segnatamente, quello della dipendenza dell’aspirante suicida da «trattamenti di sostegno vitale».
1.2.2.1.– Alla luce degli elementi acquisiti, sussisterebbero, per il resto, le condizioni sostanziali richieste dalla citata pronuncia ai fini dell’esclusione della punibilità.
M. S. era, infatti, affetto da una malattia irreversibile, tale dovendo considerarsi la sclerosi multipla, non suscettibile di guarigione allo stato attuale delle conoscenze medico-scientifiche. Pativa, altresì, in conseguenza di essa, sofferenze psicologiche che lui stesso reputava insostenibili, non tollerando più di trovarsi «ingabbiato con la mente sana in un corpo che non funziona», in quella che, nel suo apprezzamento, «non era più una vita dignitosa».
Al riguardo, il rimettente sottolinea come la disgiuntiva «o», utilizzata nella sentenza n. 242 del 2019, imponga di attribuire rilievo, sia alle sofferenze fisiche, sia a quelle esclusivamente psicologiche. La valutazione dell’intollerabilità delle sofferenze spetterebbe, d’altro canto, soltanto alla persona malata, senza che al suo giudizio possa sovrapporsi quello di terzi (siano essi medici, giudici o parenti), chiamati al più a verificare la lucidità del paziente e la serietà della sua esternazione.
La decisione di darsi la morte era stata, inoltre, concepita e mantenuta da M. S. in modo libero e consapevole, fuori da ogni forma di condizionamento da parte degli indagati o di altri soggetti.
1.2.2.2.– Analoga conclusione si imporrebbe anche con riguardo alle condizioni procedurali poste dalla citata sentenza: che siano rispettate le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che le modalità di esecuzione e le condizioni sostanziali «siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale» e che sia stato acquisito il «previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Secondo il giudice a quo, tali condizioni potrebbero ritenersi soddisfatte o, comunque sia, il loro «mancato rispetto formale» non sarebbe d’ostacolo alla non punibilità degli indagati.
Ciò varrebbe, in particolare, per la procedura di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, prevista in origine per la manifestazione del rifiuto di trattamenti sanitari, anche salvavita, la quale contempla un primo momento di informazione del paziente circa le sue condizioni di salute, la prognosi e le alternative percorribili (art. 1, comma 3); in seguito alla dichiarazione del paziente, un secondo confronto con il personale sanitario (art. 1, comma 5), che è tenuto a illustrare le conseguenze della decisione e le strade alternative, mettendo contestualmente a disposizione un servizio di supporto psicologico e assicurando la possibilità di accedere a un percorso di terapia del dolore e di cure palliative.
Ad avviso del rimettente, tale iter risulterebbe rispettato nel caso di specie, alla luce della procedura seguita per la prestazione dell’aiuto al suicidio presso la struttura svizzera in cui è morto M. S., la quale apparirebbe «addirittura più articolata e garantista» di quella che dovrebbe essere seguita in base alla legge italiana. La procedura sarebbe consistita, infatti, «nell’invio da parte del richiedente di documentazione idonea a delineare le sue condizioni cliniche e la sua storia personale; in una valutazione preliminare da parte della struttura sulla base del materiale acquisito; in una valutazione, anche psicologica, in presenza, articolata in due colloqui con i medici, uno il giorno dell’arrivo e uno il giorno successivo; la presenza di testimoni (nel caso concreto, tra gli altri, i familiari) al momento della autosomministrazione del farmaco letale, immediatamente preceduta da un ultimo ammonimento circa la possibilità di arrestare la procedura».
Procedure dalla scansione analoga sarebbero già state valutate, del resto, «sostanzialmente equivalenti» a quella italiana da alcuni organi giudicanti, con pronunce divenute definitive. È vero che nei casi in questione i giudici hanno potuto avvalersi della «clausola di equivalenza» prevista nella sentenza n. 242 del 2019 per i fatti commessi prima della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., riguardo ai quali sarebbe stato impossibile rispettare una procedura introdotta ex post. Nondimeno, un analogo giudizio potrebbe essere formulato anche in relazione alla vicenda in esame, svoltasi interamente nel vigore della nuova disciplina, in quanto la necessità che sia osservata una determinata procedura non escluderebbe la possibilità che i singoli passaggi di essa siano accertati secondo un criterio sostanziale.
Quanto agli altri requisiti procedurali – la verifica da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale e il parere del comitato etico – la circostanza che, nella specie, il fatto si sia verificato all’esito di una prestazione offerta da una struttura estera sarebbe incompatibile con tali requisiti, i quali presupporrebbero che la procedura sia gestita interamente in Italia.
In ogni caso, poi, il rispetto di tali condizioni non sarebbe stato concretamente esigibile: sebbene al momento del fatto esistesse già una procedura ad hoc, questa sarebbe risultata inaccessibile a M. S., che alla propria domanda avrebbe visto opposto un diniego per il difetto della condizione sostanziale della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.
Il rimettente aggiunge, al riguardo, che ove questa Corte ritenesse fondate le questioni, potrebbe bene precisare – come ha fatto con la sentenza n. 242 del 2019 – che la causa di non punibilità, nella sua più ampia estensione, debba operare anche con riguardo ai fatti anteriori alla declaratoria di illegittimità costituzionale, purché l’agevolazione al suicidio sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee ad offrire garanzie sostanzialmente equivalenti.
1.2.2.3.– Nel caso in esame, farebbe tuttavia difetto, come già anticipato, l’ulteriore requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale.
Al riguardo, il rimettente osserva come questa Corte non abbia fornito, né nell’ordinanza n. 207 del 2018, né nella sentenza n. 242 del 2019, una definizione del concetto di «trattamenti di sostegno vitale». Vi è soltanto, nell’ordinanza, il riferimento – con evidente valenza esemplificativa – a trattamenti «quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali».
In relazione ad altre vicende di pazienti che avevano ottenuto l’assistenza al suicidio all’estero, la giurisprudenza di merito ha ritenuto che il concetto in questione non possa essere limitato alla sola “dipendenza da una macchina”, ma comprenda anche i casi in cui il sostegno vitale sia realizzato «con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico», trattandosi pur sempre di «trattamenti interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato, anche in maniera non rapida» (è citata la sentenza della Corte d’assise di Massa 27 luglio 2020).
Pure in questa lettura ampia, il requisito non potrebbe essere, tuttavia, ritenuto sussistente nel caso in esame. Secondo quanto emerso dalle indagini, infatti, M. S. non solo non si avvaleva di alcun supporto meccanico (ventilazione, nutrizione, idratazione artificiale o altro), ma neppure era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita, né richiedeva interventi assistenziali quali manovre di evacuazione manuale o simili.
Non sarebbe, d’altro canto, possibile accedere all’interpretazione ulteriormente estensiva, prospettata dalla giurisprudenza di merito, intesa a riconoscere la non punibilità anche nei casi in cui il paziente necessiti dell’aiuto di altre persone per il soddisfacimento delle esigenze vitali: situazione ravvisabile nel caso oggetto del procedimento a quo, posto che M. S., pur conservando integre tutte le altre funzionalità corporee, a causa della progressiva immobilizzazione degli arti aveva bisogno con sempre maggiore frequenza del supporto di terzi per le attività fisiologiche quotidiane.
Alla luce della stessa genesi della condizione di cui si discute, il sostantivo «trattamenti» dovrebbe ritenersi, infatti, riferito ai soli trattamenti sanitari. La declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla sentenza n. 242 del 2019 si basa, in effetti, essenzialmente sul rilievo per cui il divieto penale assoluto di aiuto al suicidio è contrario al canone di ragionevolezza, al diritto di autodeterminazione della persona e al principio di dignità umana nelle situazioni in cui l’ordinamento riconosce già tutela effettiva alla decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari. Al riguardo, la sentenza fa riferimento esplicito a situazioni riconducibili al campo applicativo della legge n. 219 del 2017, la quale attiene, per l’appunto, ai soli trattamenti sanitari.
L’assistenza prestata genericamente da terzi – ad esempio, per agevolare il paziente nel mangiare o per accompagnarlo in bagno – non sarebbe, peraltro, neppure riconducibile all’insieme dei significati attribuibili al vocabolo «trattamento», il quale evocherebbe non un qualsiasi intervento esterno, ma «una più pregnante e qualificata ingerenza sul corpo e sulla salute del paziente».
L’estensione della non punibilità alla situazione considerata non potrebbe essere basata nemmeno sul ricorso all’analogia, essendo quest’ultima in ogni caso preclusa dalla natura eccezionale della disposizione in esame. Anche se si discute di un ampliamento in bonam partem, occorrerebbe considerare che la materia presuppone delicatissimi bilanciamenti tra interessi (quali il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla vita) che, all’esito di spostamenti anche lievi della soglia di rilevanza penale, potrebbero essere pregiudicati in modo irreversibile e incompatibile con obblighi di tutela derivanti dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali (tra cui, in particolare, la CEDU). Sarebbe, pertanto, «quantomai opportuno che tali bilanciamenti non solo siano frutto di adeguata meditazione nelle opportune sedi secondo le regole della democrazia costituzionale, ma che, una volta raggiunti, non possano essere messi arbitrariamente in discussione per via di forzature ermeneutiche ad opera del singolo interprete, con effetti applicativi disomogenei e imprevedibili».
1.3.– Ritiene, tuttavia, il giudice a quo che il requisito dell’essere la persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», come dianzi ricostruito, generi plurimi dubbi di legittimità costituzionale.
1.3.1.– Esso si porrebbe in contrasto, anzitutto, con l’art. 3 Cost., in quanto atto a determinare una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni concrete sostanzialmente identiche.
A parità delle altre condizioni (irreversibilità della malattia, intollerabilità delle sofferenze che ne derivano, capacità di autodeterminazione dell’interessato), l’avveramento di quella censurata sarebbe, infatti, frutto di circostanze del tutto accidentali, legate alle condizioni cliniche generali della persona interessata (più o meno dotata di resistenza organica), al modo di manifestazione della malattia (connotata da uno stadio più o meno avanzato, oppure da una progressione più o meno rapida), alla natura delle terapie disponibili in un determinato luogo e in un determinato momento, nonché alle stesse scelte del paziente (il quale potrebbe aver rifiutato fin dall’inizio qualsiasi trattamento). La condizione in parola discriminerebbe, dunque, i pazienti tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale e i pazienti – quali, ad esempio, i malati oncologici o affetti da patologie neurodegenerative, come nel caso di specie – che non possono accedere, per le caratteristiche accidentali della loro patologia, a tali trattamenti, ma che sono parimente irreversibili e costretti a patire sofferenze intollerabili, esponendosi ad una agonia altrettanto se non più lunga.
La differenziazione tra tali situazioni sarebbe irragionevole, in quanto il requisito in questione sarebbe irrilevante, sia per la sussistenza e l’accertamento delle altre condizioni, sia, e soprattutto, per la tutela dei diritti e dei valori che questa Corte ha ritenuto indispensabile prendere in considerazione nel bilanciamento di interessi sotteso alla regolazione della materia dell’aiuto a morire.
Nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, la Corte avrebbe posto, infatti, l’accento sulla necessità di contemperare le istanze di autodeterminazione e di salvaguardia della dignità con le esigenze di tutela della vita umana, soprattutto delle persone più vulnerabili, presidiata dal divieto dell’art. 580 cod. pen.; mentre nella successiva sentenza n. 50 del 2022, con la quale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo della fattispecie finitima dell’omicidio del consenziente, di cui all’art. 579 cod. pen., avrebbe individuato la ratio di tale micro-sistema normativo nell’esigenza costituzionale di proteggere, non solo le persone strutturalmente più fragili, ma qualsiasi soggetto da condotte autodistruttive che possono essere non sufficientemente meditate o frutto di una decisione assunta, per motivi anche contingenti, in condizioni di vulnerabilità.
Alla luce di tali enunciati, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non potrebbe costituire un criterio regolatorio idoneo e proporzionato all’obiettivo di tutela. Essa non solo non renderebbe meno bisognoso di protezione il bene della vita, ma non apporterebbe neppure alcuna rassicurazione in ordine al carattere libero e consapevole della decisione di morire, o alla minore “vulnerabilità” della persona che la assume.
La preoccupazione dovrebbe essere semmai di segno opposto, essendo più elevato il rischio che una persona dipendente da trattamenti di sostegno vitale, per questo verosimilmente prossima alla morte, sia colta dalla tentazione di “lasciarsi andare” e che, anche a causa di pressioni esterne, possa assumere decisioni che in altre condizioni non avrebbe preso. Ma tale obiezione è stata confutata dalla stessa ordinanza n. 207 del 2018, rilevando come la legge n. 219 del 2017 abbia già ammesso la possibilità di considerare validamente espressa la volontà di congedarsi dalla vita proveniente da persone tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale, le quali, se capaci di autodeterminarsi, hanno diritto di ottenere l’interruzione delle cure.
Si riproporrebbe, in conclusione, la stessa situazione già stigmatizzata da questa Corte in relazione all’originario divieto assoluto di aiuto al suicidio: l’incriminazione, anche nella sua attuale portata, discriminerebbe le diverse categorie di pazienti in modo irragionevole e sproporzionato, senza che tale discriminazione possa «ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile» (ordinanza n. 207 del 2018).
1.3.2.– Le medesime considerazioni porterebbero, altresì, a ritenere che il requisito censurato implichi una ingiustificata lesione della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.».
La dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non costituirebbe certamente una condizione di esistenza di tale diritto (collegato, secondo le indicazioni di questa Corte, solo alla malattia e alla sofferenza), ma ne rappresenterebbe piuttosto un limite, come tale legittimo solo se giustificato da contro-interessi di analogo rilievo, per quanto detto insussistenti.
Addirittura, il requisito finirebbe per condizionare «in modo perverso» l’esercizio della libertà del paziente, inducendolo ad acconsentire a trattamenti di sostegno vitale all’unico fine di soddisfare la condizione indicata da questa Corte, per poi, subito dopo, chiedere l’accesso alla procedura per la morte assistita: e ciò anche quando, senza tale condizionamento, la persona avrebbe interrotto ben prima i trattamenti o li avrebbe rifiutati fin dall’origine. Scenario, questo, in palese contrasto con l’assetto ordinamentale, ormai cristallizzato dall’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017, che rimette unicamente alla libera scelta della persona se e come curarsi.
1.3.3.– Risulterebbe violato, inoltre, il «principio della dignità umana».
Tale principio è stato evocato da questa Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018, ai fini dell’accertamento dell’illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. nella versione all’epoca vigente. La violazione del principio è stata ritenuta insita nel fatto che il divieto assoluto di aiuto al suicidio – ossia di una condotta che accelerasse i tempi del decesso, rispetto al decorso patologico naturale – avrebbe imposto al paziente «un’unica modalità per congedarsi dalla vita» (l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale), costringendolo «a subire un processo più lento» e «in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire», anche nella prospettiva delle sofferenze alle quali esso poteva esporre «le persone che gli sono care».
Sarebbe, infatti, di senso comune l’idea che la prolungata attesa della morte può comportare un maggior carico di sofferenza e di pregiudizio per i valori della persona, legato non solo al dolore derivante dalla malattia, ma anche alla contemplazione ormai disperata della propria agonia, nonché al fatto che a tale declino possano, o siano costrette ad assistere persone care: profilo in rapporto al quale verrebbe in rilievo, quale forma di estrinsecazione della personalità, l’interesse del paziente a lasciare una certa immagine di sé, coerente con l’idea che egli ha della propria persona.
Questi stessi argomenti potrebbero essere, peraltro, spesi anche in rapporto all’assetto attuale. Esso finirebbe, infatti, per imporre al malato irreversibile e intollerabilmente sofferente di attendere, anche per lungo tempo, quello che ormai è inevitabile, ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio che rende necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale (momento da cui, peraltro, andrà computato un ulteriore lasso di tempo per la procedura che porta alla morte assistita).
In questo modo, non solo si frustrerebbe la ratio della decisione di questa Corte, ma si introdurrebbe addirittura un fattore di pericolo per la stessa conservazione del bene della vita e per il rispetto della dignità della persona. Che l’aiuto al suicidio rientri nella dimensione della “legalità” solo a condizione che la malattia degeneri fino a una fase terminale, rischierebbe di incentivare i propositi di suicidio da parte dei soggetti non intenzionati ad attendere la fine inesorabile, i quali, non potendo ottenere l’aiuto di terzi, sarebbero spinti a darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito legale, con modalità spesso cruente e non conformi al concetto generalmente riconosciuto di dignità.
1.3.4.– Emergerebbe, da ultimo, una distonia rispetto agli artt. 8 e 14 CEDU, rilevanti quali parametro interposto di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117 Cost.
Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito, le disposizioni che limitano la liceità dell’aiuto al suicidio rappresentano interferenze nella libertà di autodeterminazione della persona, rientrante nel diritto al rispetto della vita privata e familiare. Simili interferenze possono considerarsi quindi legittime, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 2, CEDU, solo in quanto volte a un fine legittimo e necessarie, tra le altre ipotesi, a «proteggere […] i diritti altrui», fra i quali indubbiamente rientra il diritto alla vita, riconosciuto dall’art. 2 CEDU.
Subordinare, però, la liceità dell’aiuto al suicidio di una persona capace di autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale costituirebbe, alla luce di quanto indicato in precedenza, una compressione del diritto in questione non funzionale, né tantomeno necessaria alla tutela del diritto alla vita, o, comunque sia, non proporzionata rispetto all’obiettivo.
Non gioverebbe, in senso contrario, sostenere che lo Stato mantiene un margine di apprezzamento in ordine al bilanciamento tra la necessità di tutelare il diritto alla vita delle persone vulnerabili e quella di assicurare uno spazio di effettività alla libertà di autodeterminazione nelle questioni sul fine vita: margine di apprezzamento di cui l’ordinamento italiano si sarebbe avvalso col prevedere il requisito in discorso. Un simile ragionamento troverebbe ostacolo nel principio di non discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU: una volta, infatti, che la normativa statale ammetta la libertà di essere aiutati a morire per i malati irreversibili e sofferenti, il godimento di tale libertà dovrebbe essere assicurato senza alcuna discriminazione legata alle condizioni personali del soggetto, ivi compresa quella – del tutto accidentale – di essere, o no, sottoposto a trattamenti di sostegno vitale.
1.4.– Alla luce di tali considerazioni, il rimettente chiede, quindi, conclusivamente a questa Corte di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen., «nella versione modificata dalla […] sentenza [n.] 242 del 2019», nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
Il rimettente pone in evidenza come ciò non significhi chiedere una smentita dei principi enunciati nella citata sentenza, né tanto meno comporti una impugnazione surrettizia di quest’ultima, preclusa dall’art. 137, terzo comma, Cost. Con la sentenza n. 242 del 2019 questa Corte avrebbe, infatti, individuato una soglia minima di tutela da riconoscere ai diritti fondamentali del paziente, prendendo in considerazione, come in essa si legge, «specificamente situazioni come quella oggetto del giudizio a quo». Ciò non escluderebbe che lo «stimolo derivante dalla casistica» possa indurre questa Corte a pronunciarsi di nuovo, analogamente a quanto è avvenuto in rapporto ad altre discipline, investite da ripetuti interventi demolitori a carattere puntuale. Il divieto di aiuto al suicidio previsto dal codice penale, già superato nella sua originaria assolutezza, conserverebbe, infatti, ancora una «portata sovraestesa», che necessiterebbe di ulteriore erosione per eliminare i residui di illegittimità, costituiti non tanto dai requisiti della non punibilità, bensì – guardando la fattispecie in negativo – dai perduranti spazi di rilevanza penale della condotta.
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.
2.1.– In via preliminare, l’Avvocatura dello Stato formula due eccezioni di inammissibilità delle questioni.
2.1.1.– La prima si lega all’asserito difetto di rilevanza.
Rileva l’Avvocatura che la sentenza n. 242 del 2019 ha escluso la punibilità dell’aiuto al suicidio nel perimetro definito dalla precedente ordinanza n. 207 del 2018, ossia quando esso riguardi una persona: «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Questa Corte ha, peraltro, specificamente richiesto che l’accertamento di tali requisiti abbia luogo nell’ambito della «procedura medicalizzata» prevista dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017: disciplina nella quale ha individuato un preciso «punto di riferimento» per risolvere nel merito le questioni, in assenza dell’intervento legislativo auspicato dall’ordinanza n. 207 del 2018.
Il giudice a quo, per converso, reputa sussistenti nella specie i requisiti sostanziali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio – con la sola eccezione di quello della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale – non già alla luce degli esiti della procedura regolata dalla legge n. 219 del 2017, ma sulla base di elementi reperiti aliunde, fuori da rigorosi e precisi controlli di legge.
Il rimettente assume che i requisiti procedurali potrebbero ritenersi soddisfatti, considerando «sostanzialmente equivalente» all’iter previsto dalla legge n. 219 del 2017 la procedura seguita per la prestazione dell’aiuto al suicidio presso la struttura svizzera in cui è morto il malato. In questo modo, il giudice a quo avrebbe, peraltro, utilizzato in modo improprio il concetto di equivalenza sostanziale, cui la sentenza n. 242 del 2019 ha fatto riferimento unicamente ai fini dell’esclusione della punibilità dei fatti anteriori ad essa.
Discutendosi invece nella specie di fatti successivi, le questioni dovrebbero ritenersi inammissibili per difetto di rilevanza, posto che anche nell’ipotesi di loro accoglimento non sarebbe possibile l’archiviazione del procedimento penale a carico degli indagati.
2.1.2.– Una seconda ragione di inammissibilità delle questioni si collegherebbe al petitum.
Secondo la difesa dello Stato, la richiesta del rimettente di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale si risolverebbe in una contestazione dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 242 del 2019, la quale ha inserito nel testo dell’art. 580 cod. pen. le richiamate condizioni, tra cui quella censurata, al fine di evitare che la sottrazione pura e semplice dell’aiuto al suicidio alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi in danno di persone in situazioni di vulnerabilità. In questa prospettiva, la declaratoria di illegittimità costituzionale è stata limitata «in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge» n. 219 del 2017.
L’accoglimento della richiesta del giudice a quo presupporrebbe, quindi, «che la Corte, sconfessando […] sé stessa, stravolga in toto, o comunque riveda la sua precedente decisione in senso irragionevolmente ed ingiustificabilmente ampliativo, oltre che lesivo della riconosciuta discrezionalità del legislatore in subiecta materia».
2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero destituite di fondamento.
2.2.1.– Quanto alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato ricorda come nella sentenza n. 242 del 2019 questa Corte abbia affermato che «[d]all’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire»; e che «[n]eppure, poi, è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita»: l’art. 580 cod. pen. conserva, infatti, una ratio di perdurante attualità, consistente «nella “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, […] anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere” (ordinanza n. 207/2018)».
Analoghe considerazioni sono state svolte nella sentenza n. 50 del 2022, ove si ribadisce che il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., va iscritto «tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (sentenza n. 35 del 1997)».
Il principio affermato è, dunque, pur sempre quello generale di tutela della vita, principio rispetto al quale la «circoscritta area» di illegittimità costituzionale individuata dall’ordinanza n. 207 del 2018, per ovviare alla quale la sentenza n. 242 del 2019 ha introdotto la causa di non punibilità, si configura quale eccezione.
In un simile contesto, non potrebbe operare il principio di non discriminazione invocato dal giudice a quo, giacché l’assenza di uno dei requisiti delimitativi dell’eccezione (l’essere, cioè, la persona malata «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale») comporterebbe la riespansione della regola generale che impone di punire chi agevoli l’esecuzione dell’altrui suicidio.
La limitazione della causa di non punibilità alle persone in possesso di quel requisito, d’altro canto, non sarebbe affatto irragionevole, ma si inserirebbe organicamente nel quadro ordinamentale vigente. Essa è stata, infatti, argomentata, nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, con il rilievo che i soggetti in questione erano già legittimati, per un verso, dall’art. 1, commi 5 e 6, della legge n. 219 del 2017, a rifiutare o interrompere trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza; per altro verso, dall’art. 2 della medesima legge, ad accedere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari.
La situazione della persona affetta da una patologia che impone trattamenti di sostegno vitale non sarebbe, d’altro canto, sovrapponibile a quella di chi è affetto da una patologia che, per quanto irreversibile e foriera di gravi sofferenze, di tali trattamenti non necessiti: il che escluderebbe la comparabilità della disciplina applicabile all’uno e all’altro caso.
La censura in esame apparirebbe, comunque sia, inammissibile anche alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui una norma eccezionale è inidonea a costituire tertium comparationis, non essendo possibile estendere una disposizione derogatoria ad altre situazioni, salvo il caso – qui non configurabile – in cui sussista la eadem ratio derogandi.
2.2.2.– Quanto, poi, alla denunciata violazione del diritto all’autodeterminazione del malato, varrebbe in senso contrario il rilievo che tale diritto non può essere anteposto alla tutela del bene della vita, che nella gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento costituzionale e sovranazionale occupa una posizione senz’altro poziore.
Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato ricorda come questa Corte, nella sentenza n. 50 del 2022, abbia ribadito il «cardinale rilievo del valore della vita», il quale, se non può tradursi in un dovere di vivere a tutti i costi, neppure consente una disciplina delle scelte di fine vita che, «in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale», ignori «le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite»: con la conseguenza che «[q]uando viene in rilievo il bene della vita umana, […] la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima».
Si coglierebbe, alla luce di tali affermazioni, l’errore di prospettiva in cui sarebbe incorso il rimettente, allorché ha sostenuto che i due soli elementi fondanti la non punibilità dell’aiuto al suicidio sarebbero «la malattia e la sofferenza», e non pure il trattamento che esse ricevano. In questo modo, il giudice a quo avrebbe trascurato l’imprescindibile esigenza di costruire quelle doverose cautele evocate già nell’ordinanza n. 207 del 2018, volte ad evitare il pericolo di abusi in danno della vita di persone in situazioni di vulnerabilità.
2.2.3.– Con riguardo, poi, alla censura di violazione del «principio di dignità umana», basata sull’assunto che gli argomenti spesi al riguardo nell’ordinanza n. 207 del 2018 varrebbero anche per l’assetto normativo attuale, l’Avvocatura dello Stato rileva come sussista una differenza significativa tra la fattispecie esaminata nel citato precedente e quella ora in esame, e che, comunque sia, la scarsa precisione del concetto di dignità umana impedirebbe di costruire su di esso il discrimine tra i casi nei quali è legittimo tutelare la vita e quelli nei quali è lecito sopprimerla.
2.2.4.– Insussistente apparirebbe, infine, anche l’asserita violazione del sistema sovranazionale di tutela dei diritti fondamentali della persona.
Nella stessa sentenza n. 242 del 2019 si ricorda, infatti – richiamando la sentenza Pretty contro Regno Unito, invocata dal rimettente – come la Corte EDU abbia da tempo affermato, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio, che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non può essere fatto discendere il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire.
Le considerazioni precedentemente svolte a proposito della censura di violazione dell’art. 3 Cost. renderebbero, d’altro canto, evidente l’insussistenza della violazione del divieto di discriminazione sancito dall’art. 14 CEDU.
3.– Si sono costituiti M. C., C. L. e F. M., persone sottoposte alle indagini nel procedimento a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni.
3.1.– Dopo aver ricostruito, in punto di fatto, la vicenda che ha dato origine al procedimento, le parti costituite rilevano come le questioni debbano ritenersi senz’altro ammissibili, avendo il giudice a quo congruamente e condivisibilmente motivato la loro rilevanza ed esperito, con esito negativo, il doveroso tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata.
L’accoglimento delle questioni non implicherebbe, d’altro canto, una surrettizia violazione del giudicato costituzionale. La sentenza n. 242 del 2019 ha, infatti, ricavato il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, non quale soluzione costituzionalmente obbligata, ma come “rima possibile”, di riflesso a una interpretazione incentrata sulle specificità del caso concreto di cui allora si discuteva, mentre oggi verrebbero poste nuove questioni, attinenti a situazioni differenti. In più occasioni, d’altra parte, questa Corte è intervenuta a più riprese su una normativa già oggetto di una sentenza di accoglimento manipolativa, senza che la precedente pronuncia fosse ritenuta affatto preclusiva delle successive declaratorie di illegittimità costituzionale.
3.2.– Nel merito, le questioni si paleserebbero fondate in riferimento a tutti i parametri evocati.
3.2.1.– La violazione dell’art. 3 Cost. si apprezzerebbe, in linea con quanto sostenuto dal giudice a quo, alla luce della circostanza che una persona affetta da malattia irreversibile, fonte di gravi sofferenze, e liberamente determinatasi a congedarsi dalla vita, ma non tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, può trovarsi in una situazione altrettanto dolorosa di quella di un’altra persona malata che, invece, si avvale di tali trattamenti.
Il requisito in discussione non contribuirebbe, d’altro canto, in alcun modo a misurare la capacità di intendere e di volere della persona malata o la sua libertà o autonomia di scelta, né l’intensità delle sofferenze patite. Esso apparirebbe, quindi, del tutto indifferente rispetto all’esigenza di tutelare il paziente in confronto a circonvenzioni e abusi, né sarebbe funzionale a proteggere il malato psichiatrico o quello che si è determinato in modo avventato a porre fine alla sua vita in ragione di condizioni patologiche passeggere, traducendosi quindi in un ostacolo irragionevole all’esplicazione della ratio della causa di non punibilità.
3.2.2.– Il requisito censurato si porrebbe in contrasto anche con il «principio personalista», di cui all’art. 2 Cost., con l’inviolabilità della libertà personale, sancita dall’art. 13 Cost., e con la libertà di autodeterminazione riguardo alle cure mediche, desumibile dal dettato congiunto degli artt. 2, 3, 13 e 32, secondo comma, Cost.
Esso imporrebbe a persone – come M. S. – il cui corpo «è trasformato dalla malattia in un doloroso processo che le terapie non riescono a contrastare o mitigare», di proseguire nel calvario delle loro sofferenze, senza possibilità di scegliere un exitus dignitoso, sino addirittura a dover sperare in un peggioramento della patologia tale da rendere necessario un presidio sanitario della sopravvivenza: presidio che, a quel punto, verrebbe accettato dal paziente per potersi avvalere dell’agevolazione altrui al fine vita, risolvendosi così in una sorta di trattamento sanitario obbligatorio.
Tutto ciò, senza che la limitazione della libertà del paziente trovi alcun corrispettivo, in termini di innalzamento della tutela di altri diritti costituzionali. Anzi, la consapevolezza del malato dell’assenza di alternative all’avvicinarsi «di una “notte senza fine”, in cui dibattersi in solitudine», potrebbe fungere da acceleratore della scelta di togliersi la vita, quando si è ancora in grado di farlo autonomamente, essendo la malattia in uno stadio iniziale, come dimostrerebbe il caso Carter contro Canada esaminato dalla Corte suprema del Canada nella sentenza 6 febbraio 2015, CSC 5, citata dalla stessa ordinanza n. 207 del 2018.
3.2.3.– Le parti costituite rilevano, per altro verso, come nel nostro ordinamento manchi una definizione normativa o medico-sanitaria della nozione di «trattamento di sostegno vitale». L’unico riferimento normativo ad essa si rinverrebbe nella legge n. 219 del 2017, che, nell’individuare i trattamenti, anche di sostegno vitale, cui il malato può rinunciare o che può rifiutare, vi include – con indicazione chiaramente non tassativa – la nutrizione e l’idratazione artificiali.
In conseguenza di ciò, l’interpretazione di cosa sia un trattamento di sostegno vitale sarebbe stata, e rimarrebbe tuttora affidata alla mera discrezionalità delle commissioni mediche multidisciplinari nominate dalle aziende sanitarie investite di richieste di verifica della sussistenza dei presupposti per il suicidio assistito: il che determinerebbe non solo una incertezza del diritto inaccettabile in una materia delicata come il fine vita, ma anche gravi disparità di trattamento in danno di soggetti particolarmente vulnerabili, quali sono i pazienti che formulano le suddette richieste.
Come emergerebbe da un esame della casistica, le commissioni mediche hanno ritenuto integrato il requisito in discorso in casi nei quali al paziente era stato applicato un pace-maker e un catetere vescicale permanente, con necessità di intervento di terzi per l’evacuazione, ovvero nel caso di somministrazione a una malata oncologica di farmaci antitumorali; mentre ne è stata contraddittoriamente esclusa la sussistenza nel caso di una paziente oncologica dipendente da ossigenoterapia e che assumeva una corposa cura antidolorifica, la cui sospensione avrebbe provocato il suo decesso.
Opposto esito hanno avuto, poi, tre richieste di accesso al suicidio assistito formulate da persone affette, come M. S., da sclerosi multipla. In un caso, si è ritenuto che la necessità dell’assistenza di terzi per l’espletamento di ogni funzione vitale, l’utilizzo di un ventilatore polmonare nelle ore notturne e l’effettuazione di clisteri evacuativi giornalieri dovessero considerarsi trattamenti di sostegno vitale; negli altri due casi, il requisito in questione è stato ritenuto invece mancante, ancorché si trattasse di pazienti impossibilitati al compimento autonomo di qualsiasi attività, e dipendenti quindi da terzi in tutto e per tutto.
Ad avviso delle parti, solo con l’accoglimento delle odierne questioni tali inaccettabili discriminazioni potrebbero essere superate.
3.2.4.– La ristrettezza del perimetro applicativo della causa di non punibilità introdotta dalla sentenza n. 242 del 2019 si porrebbe in contrasto anche con il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU, e di riflesso con l’art. 117, primo comma, Cost.
Sin dal leading case, rappresentato dalla sentenza Pretty contro Regno Unito, la Corte EDU ha, infatti, riconosciuto che il diritto dell’individuo di decidere a che punto e con quali mezzi porre fine alla propria vita costituisce uno degli aspetti protetti dal richiamato art. 8 CEDU: principio ribadito dalla giurisprudenza successiva, sino alla recente sentenza 4 ottobre 2022, Mortier contro Belgio. Ciò implicherebbe che lo Stato può interferire nelle scelte individuali che riguardano il fine vita solo nel rispetto degli standard codificati nel paragrafo 2 dell’art. 8: il divieto assistito da sanzione penale di aiuto al suicidio potrebbe essere pertanto previsto, sì, a tutela della vita, ma nel rispetto del principio di legalità, in presenza di uno scopo legittimo, nonché se necessario in una società democratica, e dunque in osservanza del criterio di proporzionalità tra mezzi e fine perseguito. Nella specie, per converso, l’attivazione dell’armamentario penalistico, conseguente all’operatività del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, sfocerebbe in una interferenza non necessaria e sproporzionata nella vita privata del soggetto malato, anche per l’assoluta irrilevanza di quel requisito ai fini della protezione da abusi nei confronti di persone incapaci di determinarsi.
4.– Nel giudizio di legittimità costituzionale sono intervenute, altresì, ad adiuvandum, con distinti atti, L. S. e M. O., svolgendo analoghe deduzioni.
4.1.– Preliminarmente, i difensori delle intervenienti ricordano come, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’intervento di terzi nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale sia ammissibile solo quando l’incidenza sulla posizione giuridica soggettiva del terzo non derivi, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma sia conseguenza immediata e diretta dell’effetto che la pronuncia produrrebbe sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo: prospettiva nella quale la richiesta di intervento non può trovare fondamento nella semplice analogia della posizione giuridica soggettiva con quelle delle parti del giudizio principale.
Alla luce di tali principi, L. S. e M. O. sarebbero legittimate ad intervenire, giacché, da un lato, la loro posizione giuridica soggettiva non presenterebbe alcun profilo di analogia con quella degli indagati nel procedimento a quo; dall’altro lato, la sorte di detta posizione giuridica dipenderebbe direttamente dall’esito del giudizio costituzionale, il quale costituirebbe l’unica sede in cui può essere fatta valere, anche e soprattutto considerando «il peculiare ruolo del “fattore tempo”».
Al riguardo, i difensori rappresentano che le intervenienti sono entrambe affette da oltre venticinque anni da sclerosi multipla. A causa del progredire della patologia, esse soffrono attualmente di gravissime limitazioni motorie che, oltre a rendere necessari presidi di varia natura, le rendono dipendenti, per lo svolgimento delle funzioni vitali, dall’assistenza continua di terzi, senza la quale «morirebbe[ro] di stenti, […] in spregio alla propria dignità di essere umano». Esse hanno, quindi, chiesto alla propria Azienda sanitaria la verifica dei requisiti previsti dalla sentenza n. 242 del 2019 per l’accesso al suicidio assistito, ottenendo però risposta negativa in ragione della ritenuta insussistenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Ciò le ha indotte a inoltrare richiesta di accesso al suicidio medicalmente assistito in Svizzera.
In questo contesto, stante lo stato di avanzamento della patologia e l’impossibilità di adeguato contenimento delle sofferenze, le intervenienti non avrebbero neppure il tempo di avviare un procedimento giurisdizionale nel quale tentare di far sollevare analoghe questioni di legittimità costituzionale da parte di altri giudici comuni. Varrebbe, quindi, il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui non si può ammettere, alla luce dell’art. 24 Cost., che vi sia un giudizio direttamente incidente su posizioni giuridiche soggettive senza che i titolari di tali posizioni abbiano la possibilità di “difenderle” come parti del processo stesso.
4.2.– Nel merito, dopo aver ripercorso la vicenda che ha dato luogo alla proposizione dell’odierno incidente di costituzionalità, le intervenienti hanno chiesto l’accoglimento delle questioni.
5.– Sono pervenute dieci opinioni scritte di amici curiae, ammesse con decreto del Presidente della Corte del 10 maggio 2024.
In particolare, hanno depositato opinioni a sostegno delle questioni di legittimità costituzionale prospettate le associazioni Unione camere penali italiane, La società della ragione APS, Consulta di bioetica ONLUS e Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS.
Hanno invece depositato opinioni che invitano questa Corte a dichiarare inammissibili o non fondate tali questioni le associazioni Osservatorio di bioetica di Siena - ETS, Esserci per essere, Movimento per la vita italiano - Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale - ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani (UGCI), Comitato Ditelo sui tetti, Associazione Family day - Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani (AMCI), Associazione Nonni 2.0 e Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?.
Una ulteriore opinione scritta, proveniente dall’Associazione Liberididecidere e dalla Leo Foundation ASSL, non viene tenuta in considerazione, in quanto pervenuta oltre il termine perentorio stabilito dall’art. 6, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
5.1.– Nell’ambito delle opinioni che aderiscono alla prospettazione del giudice rimettente, alcuni amici curiae rilevano, in via preliminare, come l’odierno incidente di costituzionalità non possa ritenersi precluso dal fatto che le questioni riguardino un frammento di norma inserito nell’art. 580 cod. pen. da questa stessa Corte, sulla base del caso specifico che allora veniva in considerazione. Sarebbero numerosi, infatti, i casi in cui questa Corte è tornata più volte su norme già scrutinate, aggiungendo ulteriori ipotesi alle precedenti declaratorie di illegittimità costituzionale a fronte dell’emergere di nuove fenomenologie (Unione camere penali italiane, La società della ragione APS).
Quanto al merito delle questioni, gli amici curiae assumono che l’esclusione della rilevanza penale dell’aiuto al suicidio dovrebbe essere ancorata unicamente all’irreversibilità della patologia, alla gravità delle sofferenze e alla capacità del malato di prendere decisioni libere e consapevoli, e non anche al tipo di presidio medico cui la persona è sottoposta, pena la creazione di irragionevoli disparità di trattamento, lesive del diritto all’autodeterminazione nella scelta delle cure e del principio di dignità umana. Malattie gravissime e incurabili, ma rispetto alle quali non sono di solito necessari trattamenti di sostegno vitale – quali quelle oncologiche o neurodegenerative – non sarebbero, infatti, meno meritevoli di aiuto medico per porre fine alle sofferenze patite, liberando chi ne è affetto da una condizione di vita non più compatibile con la sua idea di dignità (Unione camere penali italiane, La società della ragione APS, Consulta di bioetica ONLUS).
Subordinare l’accesso all’aiuto al suicidio alla dipendenza da un trattamento di sostegno vitale porterebbe a risultati iniqui specialmente rispetto ai pazienti con prognosi infausta a breve termine. Il malato oncologico cui rimangano pochi mesi di vita, e che si trovi in uno stato di sofferenza intollerabile, si vedrebbe privato della possibilità di uscire da tale stato, mentre pazienti che avrebbero davanti a sé ancora anni di vita grazie all’azione di un trattamento di sostegno vitale, potrebbero liberarsi anticipatamente dalla sofferenza grazie al suicidio assistito (Consulta di bioetica ONLUS).
Nell’ordinamento non mancherebbero, d’altro canto, norme nelle quali è già insito il principio per cui la presenza di un trattamento di sostegno vitale non è un elemento che consenta di discriminare i pazienti nella scelta del modo di congedarsi dalla vita. L’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017 prevede, infatti, che possono accedere alla sedazione palliativa profonda continua i pazienti con prognosi infausta a breve termine o che si trovino in imminenza di morte e «in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari»: ciò, a prescindere dal fatto che tali condizioni dipendano, o no, dal rifiuto di un trattamento di sostegno vitale (ancora Consulta di bioetica ONLUS).
Si nota, per altro verso, come il requisito in questione ostacoli l’accesso al suicidio assistito in assenza di qualsiasi “contropartita”, in termini di tutela della persona malata da eventuali abusi (Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS), rimanendo, altresì, del tutto scollegato dalla finalità dei requisiti di ordine procedurale, dato che la verifica preventiva delle condizioni della non punibilità demandata al servizio sanitario nazionale non sarebbe resa più sicura o più semplice da tale elemento (Unione camere penali italiane): sicché, in definitiva, esso si rivelerebbe incapace di togliere o aggiungere alcun disvalore alla condotta di aiuto al suicidio (Consulta di bioetica ONLUS).
Sotto altro profilo, si osserva come l’assenza di una nozione generalmente condivisa nella letteratura medica del concetto di «trattamenti di sostegno vitale» faccia sì che il requisito si presti ad interpretazioni largamente discrezionali, foriere di ulteriori discriminazioni tra i pazienti e tra coloro che ne aiutano il suicidio (Unione camere penali italiane, Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS, Consulta di bioetica ONLUS).
Sintomatica di tali criticità sarebbe, del resto, la circostanza che la condizione della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale rappresenti un unicum sul piano comparatistico, posto che nessuna delle normative straniere nelle quali è disciplinato il suicidio medicalmente assistito la contempla (Consulta di bioetica ONLUS, Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS).
Secondo taluno degli amici curiae, i problemi posti dianzi in evidenza non sarebbero risolubili in via interpretativa, se non interpretando la nozione di trattamento di sostegno vitale in senso talmente ampio da privarla di qualsivoglia capacità selettiva, cioè riconducendovi qualsiasi tipologia di aiuto o sostegno, anche meramente psicologico. Ogni altra interpretazione risulterebbe, infatti, inevitabilmente discriminatoria. Ciò varrebbe anche per la lettura «intermedia» che estende il significato dell’espressione oltre le ipotesi di “dipendenza da una macchina”, includendovi tutti i casi di dipendenza da trattamenti qualificabili come sanitari, inclusi quelli farmacologici. Una simile lettura, pur avendo il pregio di ridurre il numero di pazienti discriminati, renderebbe però ancora più evidente l’irragionevolezza dei risultati cui il criterio può condurre, specie laddove si tratti di differenziare i pazienti sottoposti a terapia farmacologica da quelli che per continuare a vivere non necessitano di aiuti sanitari propriamente intesi, ma di aiuti materiali per l’espletamento di funzioni elementari, come recarsi in bagno o mangiare (Consulta di bioetica ONLUS).
Da altro amicus curiae non si esclude, per converso, la possibilità che questa Corte si orienti in termini diversi da quelli prospettati dal giudice a quo, attraverso una lettura ampia del requisito, basata su una interpretazione analogica in bonam partem (La società della ragione APS).
5.2.– Le opinioni degli amici curiae contrarie all’accoglimento delle questioni proposte segnalano, a loro volta, l’esistenza di plurime ragioni di inammissibilità delle questioni.
Viene prospettato anzitutto da alcuni il loro possibile difetto di rilevanza, conseguente all’incompetenza per territorio del Tribunale di Firenze. Posto che il procedimento a quo ha ad oggetto un reato commesso in parte all’estero, punibile in base alla legge italiana ai sensi dell’art. 6 cod. pen., dovrebbe ritenersi competente per esso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 3, cod. proc. pen., il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione. Tale luogo non si identificherebbe, peraltro, in Firenze, ma nel circondario di Como o di Varese, secondo il percorso scelto dalle indagate per trasportare M. S. dal luogo di residenza alla località svizzera (Pfäffikon) in cui è avvenuto il suicidio (Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV).
Altra ragione di inammissibilità per difetto di rilevanza si legherebbe alla totale assenza, nel caso di specie, delle condizioni procedimentali indicate dalla sentenza n. 242 del 2019 a tutela dei pazienti più fragili e per evitare abusi: ciò, sebbene si discuta di fatto successivo alla pronuncia di questa Corte (Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione nonni 2.0, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani).
L’ordinanza di rimessione, in violazione dell’art. 23, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), non indicherebbe, inoltre, come oggetto dello scrutinio di costituzionalità, una disposizione di legge, ma il contenuto di una sentenza di questa Corte. Le questioni si tradurrebbero, quindi, in un vero e proprio gravame contro la sentenza n. 242 del 2019, inibito dall’art. 137, terzo comma, Cost. (Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani).
Nel merito, gli amici curiae negano l’asserita violazione dell’art. 3 Cost., rilevando come il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, lungi dal discriminare casi simili sulla base di un dato puramente casuale, testimoni, in modo oggettivamente verificabile, la gravità delle condizioni di vita del malato, lo stato di avanzamento della patologia e la prossimità del paziente alla morte (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani).
Il giudice a quo trascurerebbe, d’altro canto, il fatto che la sentenza n. 242 del 2019 ha individuato lo spazio di non punibilità dell’aiuto al suicidio sulla base della disciplina della legge n. 219 del 2017, presentando il suicidio assistito come alternativa all’interruzione, cui il paziente è legittimato, dei trattamenti di sostegno vitale in atto, con contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua: il che farebbe del requisito in questione un elemento assolutamente pregnante (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?). Sarebbe, dunque, arbitrario estendere la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» in modo da ricomprendere in essa qualsiasi trattamento – anche non sanitario – che contribuisca, in qualche modo, al prolungamento della vita del soggetto (Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?).
Ugualmente insussistente risulterebbe l’asserita violazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica. Nel prospettarla, il rimettente moverebbe da una visione dell’autodeterminazione come priva di limiti: ricostruzione non coerente con il quadro costituzionale. Dalle indicazioni di questa Corte – contenute non solo nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, ma anche nella successiva sentenza n. 50 del 2022 – si ricaverebbe, infatti, l’opposto principio per cui nel confronto tra la libertà di autodeterminazione e l’esigenza di tutela del bene della vita, che costituisce il fondamento della convivenza civile, la prima non potrebbe, in via generale, prevalere sulla seconda (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione Nonni 2.0).
Riguardo, poi, alla dedotta lesione del principio di dignità umana, il rimettente avrebbe posto a fondamento del proprio ragionamento una concezione marcatamente soggettiva, trascurando il fatto che negli articoli della Carta costituzionale in cui si evoca il concetto di dignità (artt. 3, 36 e 41) questa sarebbe sempre considerata in una prospettiva oggettiva. Anche questa Corte avrebbe riconosciuto il carattere oggettivo della dignità umana, da ultimo nella sentenza n. 141 del 2019 (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione Nonni 2.0). Nell’ottica del bilanciamento di interessi, la percezione soggettiva del malato della dignità nel morire sarebbe un elemento di rilievo, ma dovrebbe necessariamente cedere nel confronto con la tutela del basilare diritto alla vita (Osservatorio di bioetica di Siena – ETS, Esserci per essere).
Nemmeno, infine, potrebbe ritenersi violato l’art. 117 Cost. La Corte di Strasburgo ha infatti affermato che il divieto di aiuto al suicidio è compatibile con l’art. 8 CEDU, restando affidata al margine di apprezzamento dei singoli Stati la valutazione se l’eventuale liberalizzazione del suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno dei pazienti più vulnerabili (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia). Inconferente apparirebbe, altresì, il richiamo all’art. 14 CEDU, avendo la Corte di Strasburgo specificato che una differenza di trattamento tra individui posti in situazioni analoghe è discriminatoria solo se non persegue uno scopo legittimo o se non vi è un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo: valutazioni che spetterebbero anzitutto agli Stati (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Osservatorio sull’attività parlamentare Vera lex?).
Secondo gli amici curiae, la tutela del malato inguaribile dovrebbe rimanere affidata piuttosto all’attuazione del diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, prefigurato dalla legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) (Movimento per la vita italiano – Federazione dei Movimenti per la vita e dei Centri di aiuto alla vita d’Italia, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani), che dovrebbe inverare il senso profondo del dovere dello Stato di prendersi cura della salute dell’individuo stabilito dall’art. 32 Cost. (Comitato Ditelo sui tetti, Associazione family day – Difendiamo i nostri figli APS, Associazione medici cattolici italiani, Associazione nonni 2.0). Come rilevato nella stessa sentenza n. 242 del 2019, l’accesso a tali cure si presta a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita, e ciò particolarmente in casi quali quello oggetto del procedimento a quo, nel quale la richiesta di suicidio assistito proveniva – come spesso accade – da un paziente in condizione di sofferenza psicologica ed esistenziale (Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani).
6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, insistendo per la dichiarazione di inammissibilità o non fondatezza delle questioni.
Dopo aver passato in rassegna i contrapposti argomenti prospettati dalle parti costituite e dagli amici curiae, l’Avvocatura dello Stato rileva in particolare come, alla luce del percorso argomentativo seguito da questa Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, appaia di solare chiarezza che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. ha riguardato, in modo specifico ed esclusivo, l’aiuto al suicidio prestato a favore di persone assoggettate a trattamenti di «mantenimento artificiale in vita» non più voluti, le quali avrebbero già potuto lasciarsi morire mediante la rinuncia ad essi. Ciò dimostrerebbe la non fondatezza dell’assunto secondo cui la nozione di «persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale» sarebbe priva di connotazioni precise, posto che essa risulterebbe inequivocabilmente riferita ai casi in cui la sopravvivenza del malato dipende dall’utilizzo di apparecchiature preordinate a sopperire artificialmente all’insufficienza di funzioni vitali.
In questo contesto – contrariamente a quanto asserito dal giudice a quo e da alcuni fra gli amici curiae – non vi sarebbe alcuna possibilità di estendere la non punibilità dell’aiuto al suicidio di là dal caso ora indicato. La norma incriminatrice censurata è posta a presidio di un bene giuridico, la vita, oggetto di un diritto assoluto inviolabile, il quale – come sottolineato dalla sentenza n. 50 del 2022 – appartiene «all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Dall’assolutezza del diritto alla vita deriverebbe, da un lato, la sua indisponibilità; dall’altro, il dovere, del pari assoluto, dello Stato di proteggerla non soltanto da iniziative pregiudizievoli di terzi, ma persino da iniziative dello stesso soggetto che ne è titolare.
Il principio di indisponibilità sarebbe sancito, oltre che dall’art. 2 Cost. (che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo), anche dall’art. 32, primo comma, Cost., che tutela la salute, non solo come fondamentale diritto dell’individuo, ma anche come «interesse della collettività». Nell’ordinamento è, d’altro canto, presente una serie di disposizioni di rango primario (dalla disciplina degli stupefacenti a quella contro il doping o in materia di prelievi e trapianti di organi e di tessuti, oltre all’art. 5 del codice civile) finalizzate a tutelare la salute e la vita della persona anche contro la sua stessa volontà.
Con riguardo all’evocato principio di dignità umana, il giudice a quo moverebbe da una concezione soggettiva di tale principio estranea al quadro costituzionale, nel quale la dignità si configurerebbe «quale valore oggettivo di matrice sociale e collettiva». Dare rilevanza alla percezione soggettiva del malato significherebbe, d’altronde, postulare una pericolosa equivalenza tra stato di malattia e vita “non degna”, con conseguente «snaturamento» di fondamentali valori costituzionali e, in particolare, di quello espresso dall’art. 32 Cost.
La risposta alla domanda di aiuto delle persone che, senza essere sottoposte a trattamenti di sostegno vitale, sono affette da malattie incurabili e fonte di acute sofferenze, dovrebbe consistere, non già nell’accrescimento del peso ponderale del diritto di autodeterminazione in modo da sopravanzare l’interesse alla tutela della vita, quanto piuttosto – in linea con la puntuale indicazione già contenuta nell’ordinanza n. 207 del 2018 – nel garantire al malato l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, secondo l’impegno assunto dallo Stato con la legge n. 38 del 2010: soluzione, questa sì, rispettosa del dettato costituzionale e della dignità dei malati. Recenti interventi legislativi – tra i quali quello prefigurato dall’art. 1, comma 83, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025) – si moverebbero, d’altro canto, nel senso dell’eliminazione dei perduranti margini di mancata attuazione delle previsioni della citata legge.
7.– Anche M. C., C. L. e F. M. hanno depositato memoria, volta segnatamente a replicare alle deduzioni svolte dall’Avvocatura dello Stato con l’atto di intervento.
Le parti costituite negano fondamento all’eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, formulata sulla base della considerazione che la sentenza n. 242 del 2019, in relazione alle questioni con essa definite, ha richiamato – per individuare “punti di riferimento” già esistenti nell’ordinamento – la legge n. 219 del 2017. In questo modo, l’Avvocatura avrebbe ritenuto che il giudice comune, per sollevare una questione di legittimità costituzionale, debba applicare al suo caso ciò che questa Corte ha stabilito in quel precedente: assunto inesatto, laddove, come nella specie, vengano sollevate questioni ulteriori e per nulla identiche a quelle già decise.
Egualmente non fondata sarebbe l’altra eccezione, relativa al petitum. Il rimettente non avrebbe chiesto affatto a questa Corte di stravolgere in toto la sua precedente decisione, in senso lesivo della discrezionalità del legislatore, ma soltanto di intervenire una seconda volta sull’art. 580 cod. pen., al fine di eliminare una irragionevole disparità di trattamento fra categorie di soggetti che aiutano altri al suicidio.
Quanto al merito, inconferente apparirebbe l’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, basata sul rilievo che la sentenza n. 242 del 2019 non ha riconosciuto un diritto di ottenere dallo Stato e dai terzi un aiuto a morire. Il «focus» delle questioni definite con tale sentenza e di quelle che questa Corte è chiamata oggi a risolvere atterrebbe, infatti, non tanto alla definizione di un diritto all’aiuto al suicidio, declinato come pretesa nei confronti dell’ordinamento, quanto piuttosto alla ragionevolezza di un trattamento sanzionatorio differenziato fra soggetti terzi che agevolano il suicidio di determinate categorie di persone: trattamento differenziato che, se pure materialmente risalente alla pronuncia del 2019, sarebbe frutto della perdurante scelta del legislatore di non intervenire, malgrado le ripetute sollecitazioni, con una normativa organica che disciplini anche ulteriori fattispecie non toccate dall’intervento di questa Corte.
Ciò varrebbe anche a dimostrare come non colga nel segno l’altra affermazione dell’Avvocatura dello Stato, stando alla quale il principio di non discriminazione invocato dal giudice a quo non potrebbe operare, atteso che l’assenza di uno dei requisiti delimitativi dell’eccezione (ossia, appunto, l’essere la persona malata «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale») comporterebbe la riespansione della regola generale che impone di punire chi aiuti una persona a suicidarsi.
Il requisito de quo sarebbe, in effetti, irragionevole, perché foriero di un trattamento differenziato di condotte che dovrebbero essere inquadrate in modo identico sul piano del diritto costituzionale. Il comportamento di colui che, in presenza degli altri requisiti, agevola il suicidio altrui sarebbe, infatti, strettamente collegato con l’esercizio, da parte della persona malata, della libertà di autodeterminazione in una sfera dotata di rilievo costituzionale, proprio perché imbevuta del contesto della malattia irreversibile e della gravità delle sofferenze fisiche e psicologiche.
Gli altri tre requisiti, unitamente alla necessità di un loro accertamento preventivo da parte di una struttura sanitaria pubblica, sarebbero d’altro canto sufficienti a garantire che la persona malata esprima la sua effettiva volontà, in presenza di una situazione in cui la vita è diventata una mera sopravvivenza e dunque la dignità, intesa in senso soggettivo, della persona malata venga meno.
Diversamente da quanto sostiene l’Avvocatura, proprio sulla dignità in senso soggettivo si sarebbe, in effetti, fondata la sentenza n. 242 del 2019: e la differente tipologia della malattia da cui possono essere affetti i pazienti non potrebbe incidere sulla percezione della dignità che ognuno ha rispetto alla propria persona.
Le parti costituite insistono, quindi, nella richiesta di accoglimento delle questioni nei termini prospettati dal giudice rimettente. In subordine, invitano questa Corte a prendere in considerazione l’ipotesi di una sentenza interpretativa di accoglimento, che dichiari costituzionalmente illegittimo il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale ove interpretato in maniera rigida e restrittiva.
Motivi della decisione
1.– Il GIP del Tribunale di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., «come modificato dalla sentenza n. 242 del 2019» di questa Corte, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
Ad avviso del giudice a quo, il requisito censurato violerebbe anzitutto l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche. In presenza delle altre condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio (l’essere questo prestato a persona affetta da malattia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, la quale resti però capace di prendere decisioni libere e consapevoli), l’avverarsi, o no, della condizione in questione sarebbe, infatti, frutto di circostanze del tutto accidentali, quali le caratteristiche e il modo di manifestazione della patologia, la situazione clinica generale dell’interessato, la natura delle terapie disponibili e le stesse scelte del paziente, il quale potrebbe aver rifiutato sin dall’inizio ogni trattamento. Ciò, senza che tale sperequazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, posto che la presenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, oltre a non essere indicativa di un minor bisogno di tutela del bene della vita, non apporterebbe neppure alcuna rassicurazione in ordine al carattere libero e consapevole della decisione di congedarsi dalla vita stessa o alla minore “vulnerabilità” della persona che la assume.
Sarebbero violati anche gli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., in quanto il requisito in parola provocherebbe una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, non giustificata da contro-interessi di analogo rilievo. L’esercizio di tale libertà rischierebbe, anzi, di essere condizionato in modo perverso, giacché il paziente potrebbe essere indotto ad accettare trattamenti di sostegno vitale, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di poter accedere alla procedura per il suicidio assistito.
Verrebbe leso, inoltre, il «principio di dignità umana», in quanto il malato, irreversibile e intollerabilmente sofferente, si vedrebbe costretto a subire, per congedarsi dalla vita, un processo più lento e meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire, ossia ad attendere, anche per lungo tempo, l’inevitabile aggravamento della malattia sino allo stadio che rende necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con il carico di sofferenze aggiuntive che ne consegue, sia per il malato stesso, sia per le persone a lui care. Ciò rischierebbe di produrre risultati antitetici rispetto allo stesso obiettivo di tutela della vita, inducendo i malati che non intendono affrontare un simile percorso a darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito legale, con modalità spesso cruente e non conformi al concetto di dignità generalmente riconosciuto.
Subordinare la liceità dell’aiuto al suicidio di una persona capace di autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale comporterebbe, da ultimo, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, implicando una interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non funzionale, né tantomeno necessaria, alla tutela del diritto alla vita, o, comunque sia, non proporzionata rispetto all’obiettivo, e contraria, al tempo stesso, al principio di non discriminazione, stante il rilevato carattere del tutto accidentale dell’elemento in questione.
2.– Va anzitutto ribadita l’ammissibilità degli interventi di L. S. e M. O., per la ragione indicata nell’ordinanza letta all’udienza del 19 giugno 2024, allegata alla presente sentenza.
3.– Debbono essere prese quindi in esame, in via preliminare, le eccezioni di inammissibilità delle questioni formulate dall’Avvocatura generale dello Stato, a sostegno delle quali si esprimono anche talune delle opinioni degli amici curiae.
3.1.– La prima delle eccezioni si lega al fatto che nel caso oggetto del giudizio a quo – concernente l’agevolazione del suicidio assistito presso una struttura privata in Svizzera di una persona affetta da sclerosi multipla – non risultano essere state rispettate le condizioni procedurali alle quali la sentenza n. 242 del 2019 ha subordinato la non punibilità dell’aiuto al suicidio.
L’Avvocatura dello Stato ricorda che, con la citata sentenza, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona che versi nelle condizioni già individuate dalla precedente ordinanza n. 207 del 2018: ossia di una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Onde evitare, peraltro, che «la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi “per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità”» (sentenza n. 242 del 2019), questa Corte ha specificamente richiesto – ai fini della sottrazione a pena – che l’agevolazione abbia luogo con la «procedura medicalizzata» prevista dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017. In difetto dell’intervento legislativo auspicato dall’ordinanza n. 207 del 2018, in tale procedura è stato, infatti, individuato un preciso «punto di riferimento», già esistente nel sistema, utilizzabile per dar risposta alle suddette esigenze. Questa Corte ha, altresì, richiesto che la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione sia effettuata da strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Osserva l’Avvocatura che il giudice a quo ritiene sussistenti, nel caso di specie, le condizioni sostanziali per la liceità dell’aiuto al suicidio – eccezion fatta per quella della dipendenza del malato da trattamenti di sostegno vitale – non già sulla base delle risultanze della procedura regolata dai citati artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ma facendo leva su elementi reperiti aliunde, fuori da precisi e rigorosi controlli di legge. Il rimettente sostiene che, malgrado ciò, il requisito in discorso possa ritenersi soddisfatto, considerando «sostanzialmente equivalente» alla predetta procedura quella seguita per la prestazione dell’aiuto al suicidio presso la struttura svizzera in cui il malato è deceduto. Così opinando, il giudice a quo si sarebbe avvalso, tuttavia, impropriamente di un criterio – quello dell’equivalenza sostanziale delle garanzie offerte – al quale la sentenza n. 242 del 2019 ha fatto riferimento solo ai fini dell’esclusione della punibilità dei fatti anteriori alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, rispetto ai quali non sarebbe stato possibile pretendere l’osservanza di una procedura introdotta ex post: criterio non utilizzabile, dunque, nel procedimento principale, attinente a una vicenda svoltasi interamente in epoca successiva.
Il dubbio di ammissibilità, prospettato dalla difesa dello Stato, potrebbe essere esteso d’ufficio, mutatis mutandis, anche alla mancata osservanza delle ulteriori condizioni procedurali poste dalla sentenza n. 242 del 2019 (l’affidamento a strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale della verifica dei presupposti di legittimità dell’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione, previo parere del comitato etico territorialmente competente): osservanza che il rimettente reputa non «esigibile» quando il fatto si sia verificato all’esito della prestazione offerta da una struttura estera, o riguardi, comunque sia, una persona che, in quanto non dipendente da trattamenti di sostegno vitale, si sarebbe vista respingere l’eventuale domanda di accesso al suicidio assistito presentata alle strutture sanitarie italiane.
Tutto ciò renderebbe le questioni inammissibili per difetto di rilevanza, giacché, anche nell’ipotesi di loro accoglimento, il giudice a quo dovrebbe, comunque sia, respingere la richiesta di archiviazione del procedimento penale a carico degli indagati della quale si trova investito.
L’eccezione, pur correttamente escludendo la riferibilità della clausola di equivalenza ai fatti successivi alla sentenza n. 242 del 2019, non è, tuttavia, fondata.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, anche soltanto sotto il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale, senza che occorra la dimostrazione della sua effettiva capacità di influire sull’esito del processo medesimo (ex plurimis, sentenze n. 25 del 2024, n. 164 del 2023, n. 19 del 2022 e n. 247 del 2021). Ciò, in quanto il presupposto della rilevanza non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (tra le altre, sentenze n. 151 del 2023, n. 88 del 2022 e n. 172 del 2021).
È dunque sufficiente nella specie osservare che, se da un lato è pacifica l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo, dall’altro lato l’accoglimento delle odierne questioni sarebbe in grado di incidere, comunque sia, quantomeno sull’iter motivazionale della decisione che il rimettente è chiamato ad assumere. Anche nella prospettiva dell’Avvocatura dello Stato, infatti, la richiesta di archiviazione del procedimento principale dovrebbe essere rigettata, non già – come ritiene di dover fare allo stato il giudice a quo – per la dirimente ragione della carenza di una delle condizioni sostanziali della non punibilità, ma semmai unicamente per il mancato rispetto della procedura prevista ai fini del loro accertamento e della verifica delle modalità di esecuzione del suicidio.
3.2.– La seconda eccezione dell’Avvocatura dello Stato si connette al rilievo che, con le questioni sollevate, il rimettente chiede di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 580 cod. pen. in una parte che questa stessa Corte vi ha aggiunto con la sentenza n. 242 del 2019, peraltro in stretta correlazione con la relativa ratio decidendi, che è quella di sottrarre alla punibilità i soli casi di aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero lasciarsi alternativamente morire mediante la rinuncia a trattamenti necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017. L’invocata rimozione del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale presupporrebbe dunque – a parere dell’Avvocatura – che questa Corte sconfessi sé stessa, rivedendo la precedente decisione in senso «ingiustificabilmente ampliativo, oltre che lesivo della riconosciuta discrezionalità del legislatore in subiecta materia».
L’eccezione viene ulteriormente precisata da alcuni degli amici curiae (Centro studi Rosario Livatino, Unione per la promozione sociale – ODV, Scienza & vita, Unione giuristi cattolici italiani), i quali rilevano come il giudice a quo sottoponga a scrutinio, non una disposizione di legge, ma il contenuto di una pronuncia di questa Corte: il che farebbe sì che le questioni si traducano in un gravame contro la sentenza n. 242 del 2019, inibito dall’art. 137, terzo comma, Cost.
Nemmeno questa eccezione è fondata.
Al riguardo, occorre considerare che la sentenza n. 242 del 2019 è una pronuncia di accoglimento parziale. Le questioni con essa decise erano, infatti, dirette a conseguire, nella sostanza, l’ablazione integrale della fattispecie incriminatrice dell’aiuto al suicidio: richiesta che questa Corte ha accolto solo in parte, sottraendo alla punibilità una circoscritta classe di casi, identificati anche attraverso il requisito sul quale si appuntano le censure dell’odierno rimettente. Per il resto, le questioni sono state dunque respinte.
Ciò posto, deve escludersi che una simile pronuncia impedisca in modo definitivo a questa Corte di aggiungere una classe ulteriore di casi a quelli già sottratti alla punibilità: il che è proprio l’effetto che conseguirebbe all’auspicata ablazione del requisito in parola.
Oggetto dello scrutinio di costituzionalità può, d’altro canto, ben essere una disposizione di legge quale risultante da una sentenza “manipolativa” di questa Corte (ad esempio, sentenze n. 131 del 2022 e n. 286 del 2016).
4.– Taluni degli amici curiae (in specie, il Centro studi Rosario Livatino e l’Unione per la promozione sociale – ODV) sollecitano questa Corte a esaminare, d’ufficio, un ulteriore profilo di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, connesso al fatto che il giudice a quo non sarebbe competente per territorio.
Secondo gli amici curiae, discutendosi di reato commesso parzialmente all’estero, punibile secondo la legge italiana ai sensi dell’art. 6 cod. pen., dovrebbe ritenersi competente per esso, in base al combinato disposto degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 3, cod. proc. pen., il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione: luogo che si identificherebbe, non in Firenze, ma nel circondario di Como o di Varese, secondo il percorso scelto dalle indagate per trasportare la persona malata dal luogo di residenza alla località svizzera in cui è avvenuto il suicidio.
Anche tale profilo di inammissibilità non è ravvisabile.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, alla luce del principio di autonomia del giudizio incidentale di legittimità costituzionale rispetto al processo principale, il difetto di competenza del giudice a quo – al pari del difetto di giurisdizione – costituisce causa di inammissibilità della questione solo se manifesto, ossia rilevabile ictu oculi (tra le altre, sentenze n. 68 del 2021 e n. 136 del 2008, ordinanza n. 134 del 2000): ipotesi che non ricorre nel caso in esame.
5.– Preliminare all’esame del merito delle questioni è una breve ricognizione dello stato della giurisprudenza di questa Corte sui principi coinvolti dalle questioni medesime: principi, tutti, di sommo rilievo nell’ordinamento costituzionale italiano.
5.1.– La disposizione censurata – l’art. 580 cod. pen. – è posta a tutela della vita umana: bene che, come questa Corte ha recentemente sottolineato, «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (sentenza n. 50 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Pur in assenza di riconoscimento esplicito nel testo della Costituzione, la giurisprudenza di questa Corte riconduce la vita all’area dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dall’art. 2 Cost., «e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”» (sentenza n. 35 del 1997, punto 4 del Considerato in diritto). La vita, si aggiunge, è del resto «presupposto per l’esercizio di tutti gli altri» diritti inviolabili (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto).
Il diritto alla vita, inoltre, è oggetto di tutela espressa da parte di tutte le carte internazionali dei diritti umani, che menzionano per primo tale diritto rispetto a ogni altro (art. 2 CEDU, art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici), ovvero immediatamente dopo la proclamazione della dignità umana (art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Da tali disposizioni scaturiscono obblighi che vincolano anche l’ordinamento nazionale, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. (nonché, per quanto concerne la CDFUE, dell’art. 11 Cost.).
Dal riconoscimento del diritto alla vita scaturisce, infine, il corrispondente dovere dell’ordinamento di assicurarne la tutela attraverso la legge (oltre che, più in generale, attraverso l’azione di tutti i pubblici poteri). Tale dovere – statuito in termini espliciti dagli artt. 2, paragrafo 1, CEDU e 6, paragrafo 1, PIDCP – è stato affermato di recente da questa Corte, con particolare nettezza, proprio con riferimento alla tematica del fine vita: «[d]all’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto). Tanto che proprio l’affermazione del dovere dello Stato di tutelare la vita umana è stata alla base della decisione di inammissibilità di un referendum abrogativo, il cui esito positivo sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una situazione di insufficiente protezione, in contrasto con gli obblighi costituzionali e convenzionali menzionati (sentenza n. 50 del 2022, punto 5.4. del Considerato in diritto).
5.2.– Su un diverso versante, la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene che ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli sia titolare di un diritto fondamentale, discendente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., a esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario e, specularmente, a rifiutarlo, in assenza di una specifica previsione di legge che lo renda obbligatorio: e ciò anche quando si discuta di un trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente stesso (come, ad esempio, l’idratazione e la nutrizione artificiali).
Tale diritto è confermato, altresì, dall’art. 8 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo (Corte EDU, sentenza 13 giugno 2024, Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 131; sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 63); e trova oggi riconoscimento, a livello di legislazione ordinaria, nell’art. 1 della legge n. 219 del 2017, che ha nella sostanza recepito e sistematizzato principi già enucleati dalla giurisprudenza – costituzionale, civile e penale – sulla base delle norme costituzionali menzionate (più ampiamente, sul punto, ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
Anche quando il trattamento sia necessario ad assicurare la sopravvivenza del paziente, questi ha dunque il diritto di rifiutare l’attivazione di tale trattamento, ovvero di ottenerne l’interruzione. In tal modo, come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare, l’ordinamento riconosce in sostanza al paziente la libertà di lasciarsi morire, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, mediante il rifiuto o la richiesta di interruzione di trattamenti necessari a sostenerne le funzioni vitali (ancora, ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
Il diritto di rifiutare le cure necessarie alla sopravvivenza deve, invero, essere oggi esercitato «nel contesto della “relazione di cura e di fiducia” – la cosiddetta alleanza terapeutica – tra paziente e medico, che la legge [n. 219 del 2017] mira a promuovere e valorizzare: relazione “che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto). La legge n. 219 del 2017 prevede altresì che, «ove il paziente manifesti l’intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla propria sopravvivenza, il medico debba prospettare a lui e, se vi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere “ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. Ciò, ferma restando la possibilità per il paziente di modificare in qualsiasi momento la propria volontà (art. 1, comma 5)» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
Peraltro, è indubbio che, pur all’interno della speciale relazione di fiducia tra medico e paziente, a quest’ultimo spetta la decisione ultima se sottoporsi, o continuare a sottoporsi, ai trattamenti che il medico giudichi non solo appropriati, ma addirittura necessari per la sua sopravvivenza. Come recita l’art. 32, secondo comma, Cost., nessuno può essere infatti «obbligato» – e tanto meno fisicamente “costretto” – a sottoporsi a un trattamento sanitario sul proprio corpo e nel proprio corpo. L’esecuzione di un tale trattamento violerebbe, oltre che l’art. 32, secondo comma, Cost., l’art. 13 Cost. (sentenza n. 22 del 2022, punto 5.3.1. del Considerato in diritto), il cui contenuto minimo di tutela protegge la persona contro ogni forma di coazione sul corpo (sentenze n. 127 del 2022, punto 4 del Considerato in diritto; n. 238 del 1996, punto 3.2. del Considerato in diritto), nonché lo stesso diritto fondamentale all’integrità fisica della persona, espressamente riconosciuto dall’art. 3 CDFUE, ma riconducibile, assieme, al novero dei “diritti inviolabili della persona” di cui all’art. 2 Cost. e all’area di tutela del diritto alla vita privata proclamato dall’art. 8 CEDU.
6.– La disposizione in questa sede censurata, l’art. 580 cod. pen., è stata già scrutinata da questa Corte con l’ordinanza n. 207 del 2018 e con la sentenza n. 242 del 2019.
In via ancora preliminare rispetto alla valutazione del merito delle odierne questioni, conviene qui sintetizzare le principali conclusioni ivi raggiunte, che questa Corte intende qui integralmente confermare.
6.1.– Nel vigente ordinamento costituzionale, la ratio dell’art. 580 cod. pen. e della contigua ipotesi delittuosa di cui all’art. 579 cod. pen. non può più essere ravvisata nell’idea – sottesa alle scelte del legislatore del 1930 – di una indisponibilità della vita umana, funzionale all’«interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini». Una simile prospettiva risulterebbe palesemente in contrasto con la Costituzione, «che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
Nondimeno, questa Corte ha ritenuto e ritiene che il mantenimento, attorno alla persona, di una «cintura di protezione» (sentenza n. 50 del 2022, punto 3.1. del Considerato in diritto) contro scelte autodistruttive, realizzato attraverso la duplice incriminazione dell’omicidio del consenziente e di ogni forma di istigazione o agevolazione materiale dell’altrui suicidio, «assolv[a] allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
L’incriminazione in parola deve dunque essere, oggi, intesa come funzionale a proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà, al fine di evitare che simili scelte, «collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate» (ancora, sentenza n. 50 del 2022, punto 5.3. del Considerato in diritto), possano essere indotte, sollecitate o anche solo assecondate da terze persone, per le ragioni più diverse.
Il divieto in parola – ha ancora osservato questa Corte – «conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).
6.2.– Tuttavia, questa Corte ha riconosciuto che ogni paziente è titolare di un diritto fondamentale a rifiutare ogni trattamento sanitario, compresi quelli necessari ad assicurarne la sopravvivenza (supra, punto 5.2.). Conseguentemente, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto irragionevole mantenere ferma l’operatività del divieto di cui all’art. 580 cod. pen. anche nell’ipotesi di pazienti che abbiano già la possibilità – alla luce della legge n. 219 del 2017, attuativa delle norme costituzionali in precedenza menzionate – di porre termine alla propria esistenza attraverso il rifiuto delle cure necessarie per tenerli in vita: rifiuto che determinerebbe la prospettiva del decesso in un breve lasso di tempo anche in pazienti che pure sarebbero in grado, proseguendo quei trattamenti, di sopravvivere a lungo.
La persistente operatività del divieto di assistenza al suicidio anche in tali situazioni, ha proseguito questa Corte, costringerebbe il paziente ad affrontare la morte attraverso un processo più lento, «in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto). Ciò comporterebbe una insostenibile compressione della «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive» (art. 3 Cost.) (ordinanza n. 207 del 2018, punto 9 del Considerato in diritto).
L’art. 580 cod. pen. è stato, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva un’eccezione alla generale punibilità di ogni forma di aiuto al suicidio per le peculiari ipotesi in cui la persona aiutata sia «una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli», sempre che – a tutela dei soggetti deboli e vulnerabili – le condizioni e le modalità di esecuzione della procedura siano state verificate, nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
7.– L’odierna ordinanza di rimessione sollecita, ora, questa Corte a estendere ulteriormente l’area della liceità delle condotte di aiuto al suicidio incriminate in via generale dall’art. 580 cod. pen., con riferimento ai pazienti rispetto ai quali sussistano i requisiti poc’anzi indicati sub (a) (patologia irreversibile), (b) (sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili) e (d) (capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), ma rispetto ai quali difetti, invece, il requisito sub (c), e cioè l’essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Secondo il rimettente, la persistente operatività del divieto penalmente sanzionato in queste ipotesi determinerebbe la violazione: dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche (infra, punto 7.1.); degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., sotto il profilo della eccessiva compressione della libertà di autodeterminazione del paziente (infra, punto 7.2.); del principio della dignità umana (infra, punto 7.3.); dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, nonché al divieto di discriminazione, di cui all’art. 14 CEDU, nel godimento del medesimo diritto alla vita privata (infra, punto 7.4.).
Nessuna di tali questioni è, a giudizio di questa Corte, fondata.
7.1.– Il rimettente ritiene, anzitutto, che la subordinazione della liceità della condotta alla dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale crei una irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri pazienti che versino, essi pure, in situazioni di sofferenza soggettivamente vissute come intollerabili, per effetto di patologie parimente irreversibili. La circostanza che la specifica patologia da cui il paziente è affetto pregiudichi, o no, le sue funzioni vitali, tanto da richiedere l’attivazione di specifici trattamenti di sostegno a tali funzioni, non sarebbe indicativa di una sua maggiore o minore vulnerabilità, né di una maggiore o minore libertà e consapevolezza della sua decisione di porre fine alla propria vita; né, ancora, l’effettiva sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale sarebbe di per sé regolarmente associata a una maggiore sofferenza, che renda più umanamente comprensibile la sua decisione di ricorrere al suicidio assistito.
Queste ultime osservazioni sono, in sé, indiscutibili; e questa Corte è pienamente consapevole della intensa sofferenza e prostrazione sperimentata da chi, affetto da anni da patologie degenerative del sistema nervoso, e giunto ormai a uno stato avanzato della malattia, associato alla quasi totale immobilità e conseguente dipendenza dall’assistenza di terze persone per le necessità più basilari della vita quotidiana, viva questa situazione come intollerabile.
Nondimeno, il requisito della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale – che pure rappresenta un unicum nell’orizzonte comparato, come esattamente sottolineato da taluni amici curiae – svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019.
Come poc’anzi rammentato (supra, punto 6.2.), infatti, questa Corte non ha riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, ma ha soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza.
Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti dal punto di vista della ratio adottata nelle due decisioni menzionate; sicché viene meno il presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, formulata con riferimento all’art. 3 Cost.
7.2.– La seconda censura formulata dal rimettente prescinde dalla pretesa similitudine tra le due situazioni, e assume direttamente che il mancato riconoscimento di un diritto al suicidio assistito a pazienti che non siano «tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale» violi il diritto all’autodeterminazione del paziente, fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.
Al riguardo, non è dubbio che dalle tre norme costituzionali menzionate discenda il diritto fondamentale del paziente di rifiutare qualsiasi trattamento medico, inclusi quelli necessari a garantirne la sopravvivenza (supra, punto 5.2.); diritto sul quale si fonda la valutazione di irragionevolezza del divieto di aiuto al suicidio prestato in favore di chi già abbia la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando un trattamento di sostegno vitale (supra, punto 6.2.).
La questione ora formulata muove, tuttavia, da una nozione diversa, e più ampia, di “autodeterminazione terapeutica”.
In effetti, il diritto a rifiutare il trattamento medico è nato e si è consolidato nella giurisprudenza italiana – costituzionale, civile e penale – da un lato come diritto al consenso informato del paziente rispetto alle proposte terapeutiche del medico; dall’altro, specularmente, come diritto a rifiutare le terapie medesime. Sotto quest’ultimo profilo, il diritto in questione è intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna non previamente consentita, e dunque – in definitiva – alla tutela dell’integrità fisica della persona. Esso si caratterizza, dunque, primariamente come libertà “negativa” del paziente a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita.
Strutturalmente differente è, invece, la situazione soggettiva invocata dall’ordinanza di rimessione, che questa Corte ha definito nella stessa ordinanza n. 207 del 2018 (punto 7 del Considerato in diritto) come «sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona».
Questa Corte è consapevole che, successivamente all’ordinanza n. 207 del 2018 e alla sentenza n. 242 del 2019, le Corti costituzionali tedesca, austriaca e spagnola hanno tratto proprio dal diritto alla libera autodeterminazione nello sviluppo della propria personalità (fondato, rispettivamente, sull’art. 2 della Legge fondamentale tedesca, sull’art. 8 CEDU e sul combinato disposto degli artt. 10 e 15 della Costituzione spagnola), come pure dallo stesso mandato di tutela della dignità umana, l’esistenza di un diritto fondamentale a disporre della propria vita, anche attraverso l’aiuto di terzi (Tribunale costituzionale federale tedesco, sentenza 26 febbraio 2020, nelle cause riunite 2 BvR 2347/15, 2 BvR 2527/16, 2 BvR 2354/16, 2 BvR 1593/16, 2 BvR 1261/16, 2 BvR 651/16, paragrafi 208-213; Tribunale costituzionale austriaco, sentenza 11 dicembre 2020, in causa G 139/2019-71, paragrafi 73 e 74), o comunque un «diritto della persona alla propria morte in contesti eutanasici» (Tribunale costituzionale spagnolo, sentenza 22 marzo 2023, in causa 4057/2021, pagine da 73 a 78).
Più in particolare, movendo dal riconoscimento di tale diritto fondamentale, le Corti tedesca e austriaca hanno concluso nel senso dell’illegittimità costituzionale delle disposizioni che, nei rispettivi ordinamenti, ponevano limiti all’assistenza al suicidio, ovvero la vietavano; mentre la corte spagnola ha ricavato dal diritto in parola un preciso fondamento costituzionale della disciplina legislativa recentemente adottata in quel Paese in materia di eutanasia e assistenza al suicidio di persone capaci di autodeterminarsi.
Parimente, a questa Corte è noto che altre giurisdizioni nel mondo sono pervenute a risultati simili, sulla base di principi funzionalmente analoghi a quelli invocati dall’odierno rimettente (ad esempio, Corte costituzionale della Colombia, a partire dalla sentenza 20 maggio 1997, C-239/97; Corte suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter contro Canada, 2015, CSC 5; nonché, da ultima, Corte costituzionale dell’Ecuador, sentenza 5 febbraio 2024, 67-23-IN/24).
Questa Corte tuttavia – analogamente a quanto deciso dalla Corte EDU (sentenza Dániel Karsai contro Ungheria e, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito) e dalla Corte suprema del Regno Unito (sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, KSC 38) – ritiene di dover pervenire a diverso risultato.
Può, certo, convenirsi con il rimettente – e con le intervenienti nel presente giudizio – che la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo. Tuttavia, se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost. (supra, punto 5.1.).
I rischi in questione non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte.
Al riguardo, occorre qui sottolineare come compito di questa Corte non sia quello di sostituirsi al legislatore nella individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana, sua e dei terzi; bensì, soltanto, quello di fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa.
In quest’ottica, la sentenza n. 50 del 2022 ha individuato – rispetto alla contigua fattispecie dell’omicidio del consenziente – una soglia minima di tutela della vita umana, che si impone al legislatore, così come al potere referendario, e che si risolve nella insostenibilità costituzionale di una ipotetica disciplina che dovesse far dipendere dalla mera volontà dell’interessato la liceità di condotte che ne cagionino la morte, a prescindere dalle condizioni in cui il proposito è maturato, dalla qualità del soggetto attivo e dalle ragioni da cui questo è mosso, così come dalle forme di manifestazione del consenso e dai mezzi usati per provocare la morte.
All’opposto, l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019 hanno ritenuto eccessiva, e pertanto costituzionalmente insostenibile, la compressione dell’autodeterminazione del paziente nella peculiare situazione descritta da tali pronunce, in cui questi avrebbe – comunque sia – la possibilità di porre termine alla propria vita rifiutando i trattamenti che ne assicurano la sopravvivenza, ovvero chiedendone l’interruzione.
Nell’ambito della cornice fissata dalle pronunce menzionate, dovrà riconoscersi un significativo spazio alla discrezionalità del legislatore, al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza. Il che esclude possa ravvisarsi, nella situazione normativa attuale, una violazione del loro diritto all’autodeterminazione.
Ciò fermo restando, in ogni caso, il dovere della Repubblica – in forza degli artt. 2, 3, secondo comma, e 32 Cost., oltre che dell’art. 2 CEDU – di assicurare a questi pazienti tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze determinate dalle patologie di cui sono affetti; e assieme il dovere di assicurare loro ogni sostegno di natura assistenziale, economica, sociale, psicologica.
Non coglie, per altro verso, nel segno l’assunto del giudice a quo – questo sì pertinente alla libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie – stando al quale il requisito oggetto di censura condizionerebbe l’esercizio di tale libertà «in modo perverso», inducendo il malato ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito (il che – secondo le parti costituite – finirebbe per trasformare il presidio a sostegno delle funzioni vitali in una sorta di trattamento sanitario obbligatorio).
In senso contrario, va rilevato che, per quanto osservato in precedenza (supra, punto 5.2.), il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., di fronte al quale questa Corte ha ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi. Dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi.
Non c’è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito.
7.3.– La terza censura assume la contrarietà al principio di tutela della dignità umana di una situazione normativa che vieti, sotto minaccia di pena, di prestare assistenza a pazienti che chiedano di morire in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019, salva la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. A parere del rimettente, ciò finirebbe per costringere il paziente a un lento processo di morte, quanto meno sino al momento in cui si renda in concreto necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con modalità che egli ben potrebbe considerare non conformi alla propria concezione di dignità, nel vivere e nel morire.
Al riguardo, occorre subito sottolineare che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga. Sicché, come sottolineato anche da vari amici curiae, certamente non potrebbe affermarsi che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 cod. pen. costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta.
Altro discorso vale, però, per la nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione: nozione che si connette alla concezione che il paziente ha della propria persona e al suo interesse a lasciare una certa immagine di sé.
Ora, questa Corte non è affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità, come dimostrano i passaggi dell’ordinanza n. 207 del 2018 in cui proprio alla valutazione soggettiva del paziente sulla “dignità” del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento (punti 8 e 9 del Considerato in diritto). Tuttavia, non può non rilevarsi che questa nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte.
Rispetto a tale nozione, non possono non valere le considerazioni già svolte, circa la sua necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento.
7.4.– Infine, il giudice a quo lamenta, con la quarta censura, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 8 e 14 CEDU. A suo avviso, la preclusione all’accesso al suicidio assistito di pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ma capaci di decidere e affetti da patologie irreversibili che li espongono a sofferenze intollerabili, lederebbe il loro diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, secondo l’accezione fornitane dalla giurisprudenza di Strasburgo. D’altra parte, l’avvenuto riconoscimento, ad opera di questa Corte, di una limitata area di liceità del suicidio assistito creerebbe, relativamente ai pazienti in questione, una discriminazione nel godimento di un diritto riconosciuto dalla Convenzione, in violazione dell’art. 14 CEDU.
Al riguardo, la Corte EDU ha in effetti affermato che «il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà» costituisce «uno degli aspetti del diritto al rispetto della propria vita privata» (Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera, paragrafo 51; nello stesso senso, in precedenza, sentenza Pretty contro Regno Unito, paragrafo 67). In una recentissima pronuncia, la medesima Corte ha ribadito che una disciplina che vieti, sotto minaccia di pena, l’assistenza al suicidio di un paziente, necessariamente interferisce con il diritto di quest’ultimo al rispetto della propria vita privata (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai contro Ungheria, paragrafo 135).
Tuttavia, in questa stessa pronuncia la Corte EDU ha ribadito che gli Stati parte – anche in considerazione dell’assenza di un sufficiente consenso in materia tra i vari ordinamenti dei Paesi del Consiglio d’Europa – dispongono di un «considerevole margine di apprezzamento» (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 144; analogamente, sentenza Mortier contro Belgio, paragrafo 143; sentenza Haas, paragrafo 55) in ordine al bilanciamento tra tale diritto e gli interessi tutelati da simili incriminazioni, e segnatamente le ragioni di tutela della vita umana. Tale bilanciamento può legittimamente condurre gli Stati, tanto a mantenere politiche restrittive, quanto alla regolamentazione di forme di assistenza al suicidio o di eutanasia, senza che quest’ultima opzione debba ritenersi preclusa dagli obblighi di tutela della vita umana discendenti dall’art. 2 CEDU (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 145).
La Corte EDU ha evidenziato la difficoltà di accertare che la decisione del paziente di accedere al suicidio assistito sia realmente autonoma, libera da influenze esterne e da preoccupazioni cui si dovrebbe fornire una diversa risposta; e ha sottolineato come l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente divenga particolarmente difficoltoso in situazioni cliniche, come le patologie neurodegenerative, in cui i pazienti, in stati avanzati della malattia, possono perdere la stessa capacità di comunicare (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 151).
A fronte di tutto ciò, la Corte EDU ha concluso che spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta (Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 152).
Questa Corte non ravvisa ragioni per discostarsi, nella lettura dell’art. 8 CEDU, dalla Corte di Strasburgo, che è (come riconosciuto da questa Corte già con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, rispettivamente ai punti 4.6. e 6.2. del Considerato in diritto) interprete ultima delle previsioni convenzionali, ai sensi degli artt. 19 e 32 CEDU.
Una tale soluzione, d’altra parte, collima esattamente con quella cui questa Corte è pervenuta in merito alla censura relativa al principio di autodeterminazione nella sua declinazione “interna”, con riferimento in particolare all’art. 2 Cost. (supra, punto 7.2.).
Né, infine, può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU. Per le medesime ragioni già illustrate a proposito della censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost. (supra, punto 7.1.), non può infatti ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale.
8.– Tutto ciò posto, va precisato – a fronte della varietà delle interpretazioni offerte nella prassi, sulla quale hanno insistito i difensori delle parti e degli intervenienti, nonché vari amici curiae – che la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» utilizzata da questa Corte nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019 deve essere interpretata, dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni.
Come si è più volte rammentato (supra, punti 6.2. e 7.1.), il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell’assistenza del paziente.
Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019.
Tutte queste procedure – proprio come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione – possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. In tal caso, il paziente si trova nella situazione contemplata dalla sentenza n. 242 del 2019, risultando pertanto irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare.
D’altra parte, a fugare i timori di progressiva incontrollata estensione dei presupposti del suicidio assistito paventati dalla difesa statale e da taluni amici curiae, deve essere ribadito come l’accertamento della condizione della dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, nel senso ora precisato, debba essere condotto, unitariamente, assieme a quello di tutti gli altri requisiti fissati dalla sentenza n. 242 del 2019.
Di cruciale rilievo appare, in questo contesto, non solo l’esistenza di una patologia incurabile e la permanenza di condizioni di piena capacità del paziente – evidentemente incompatibili con una sua eventuale patologia psichiatrica –, ma anche la presenza di sofferenze intollerabili (e non controllabili attraverso appropriate terapie palliative), di natura fisica o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” che si può presentare, in particolare, negli stati avanzati delle patologie neurodegenerative (sul tema, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafo 47). Sofferenza, quest’ultima, che peraltro può risultare refrattaria a qualsiasi terapia palliativa, non potendosi considerare la sedazione continua profonda come un’alternativa praticabile rispetto a pazienti che non versino ancora in condizioni terminali, o che, comunque sia, rifiutino tale trattamento (sul punto, Corte EDU, sentenza Dániel Karsai, paragrafi 39 e 157).
9.– Deve, inoltre, essere qui riaffermata la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019, che questa Corte ha giudicato essenziali per prevenire quel pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili che l’aveva indotta, nell’ordinanza n. 207 del 2018, a sollecitare prioritariamente l’intervento del legislatore.
Queste condizioni sono inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2. Tale procedura prevede il necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, al quale è affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze» (sentenza n. 242 del 2019, punto 5 del Considerato in diritto). Inoltre, in attesa di un organico intervento del legislatore, la sentenza n. 242 del 2019 richiede il necessario parere del comitato etico territorialmente competente.
In ogni caso, deve escludersi che la clausola di equivalenza, stabilita nel dispositivo della sentenza n. 242 del 2019 con riferimento ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, possa estendersi a fatti commessi successivamente – in Italia o all’estero –, ai quali si applicano invece i requisiti procedurali stabiliti dalla sentenza; fermo restando che l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie.
Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del delitto, compreso l’elemento soggettivo.
10.– Infine, questa Corte non può che ribadire con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019, che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati da quelle pronunce, oggi ribaditi e ulteriormente precisati dalla presente decisione, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati dalla presente pronuncia.
Parimente, deve essere confermato lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019 (punto 2.4. del Considerato in diritto), affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010, sul cui integrale rispetto giustamente insiste l’Avvocatura generale dello Stato. Come sottolineato da questa Corte sin dall’ordinanza n. 207 del 2018, occorre infatti in ogni caso assicurare, anche attraverso la previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari, che «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza».
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.